Speciale

Il brutto dell’architettura

7 Gennaio 2012

Già lo si è detto: l’architettura è un fatto complesso. Le sue implicazioni sono innanzitutto finanziarie, impegnando di sovente ingenti capitali economici. Ma sono anche politiche e sociali, coinvolgendo la sfera del “pubblico”, tanto sul versante della sua amministrazione quanto su quello della sua fruizione. Non minori sono inoltre i suoi effetti urbanistici e, almeno in alcuni casi, il suo impatto sulla mobilità e sul traffico. L’architettura ha poi evidenti ricadute ambientali, esercitando inevitabilmente un impatto sul luogo in cui si inserisce, e in un senso più lato valenze culturali, essendo il prodotto cosciente di una civiltà e di un’epoca. L’architettura insomma è qualcosa che difficilmente può essere considerata in modo esclusivo sotto il profilo estetico. Parlare di architettura fermandosi alla questione del “bello” è certamente limitato. Ma perché questo sembra giustificare certi architetti a produrre architetture così brutte?

 

 

Il curriculum progettuale di Giancarlo Perotta è degno di tutto rispetto. Per essere un architetto italiano operante tra gli anni ottanta e oggi (un’epoca certo non facile per l’architettura italiana, stritolata nella molteplice morsa di una situazione economica endemicamente critica, di una committenza pubblica o privata latitante o poco efficiente, di un sistema concorsuale spesso senza esiti, e della concorrenza “sleale” dei colleghi stranieri) Perotta ha costruito decisamente parecchio. Tuttavia, un sinistro filo rosso unisce tutte le sue architetture: dai due grattacieli per uffici delle Ferrovie dello Stato alla Stazione di Porta Garibaldi (con Laura Lazzari) alla Stazione FN Milano Bovisa, passando per numerosi interventi residenziali e complessi ospedalieri, fino al recente progetto sull’area ex ENEL, di fronte al Cimitero Monumentale, nell’ambito del Programma integrato di intervento di Porta Volta, il tratto che le accomuna è una singolare bruttezza: una bruttezza che non ha nulla a che spartire con quanto offre al giorno d’oggi nel campo dell’architettura contemporanea una città come Milano; una bruttezza che varca la soglia di guardia e che (purtroppo) non passa inosservata. Una bruttezza tale – per intendersi – da costringere i nuovi proprietari dei grattacieli di Porta Garibaldi ad affrontare un costoso restyling pur di cancellarne la pietosa configurazione originale. Una bruttezza tale da rendere la prospettiva della realizzazione del progetto sull’area ex ENEL, con le sue sgraziate volumetrie, le sue soluzioni e materiali sbagliati al posto sbagliato, assolutamente agghiacciante.

 

 

Perché un architetto che produce architetture così brutte ha tanta fortuna? Un simile quesito va necessariamente incrociato con quello posto in precedenza: perché certi architetti sembrano giustificati a produrre architetture così brutte? In entrambi i casi risulta evidente come per architetti del genere il problema estetico non è minimamente importante, al punto da poterne fare l’ultimo dei loro problemi. E non certo perché l’architettura – per loro – sia “qualcosa che difficilmente può essere considerata in modo esclusivo sotto il profilo estetico”, come affermato più sopra, bensì per la semplice ragione che la loro architettura non viene giudicata – da parte di chi la commissiona e l’approva – sulla base di questo parametro. Evidentemente c’è in palio ben altro.

 

Ma, in fondo, quanto conta davvero la questione estetica in architettura? Non è forse vero che essa è massimamente relativa e soggettiva? Certo. Non tuttavia abbastanza da essere completamente indipendente dall’insieme dei fattori che determinano nel suo complesso un edificio. L’estetica dell’architettura non è mai fine a se stessa, è sempre il prodotto del delicato equilibrio tra tutte le componenti che concorrono all’esistenza di questa. Pertanto, un’estetica particolarmente “alterata”, particolarmente “squilibrata” – un’estetica particolarmente brutta – non indica soltanto una mancanza di gusto, o una caduta di “stile”: rivela senza dubbio un errore.

 

Nel 1895, Otto Wagner, uno dei più grandi architetti degli ultimi due secoli, scriveva: “Niente che non sia funzionale potrà mai essere bello”. Oggi, davanti al progetto sull’area ex ENEL – come davanti agli altri edifici dell’ineffabile Perotta – anche Wagner sottoscriverebbe l’affermazione che “niente che sia tanto brutto potrà mai essere funzionale”.

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