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Epidemie e pandemie / Il paziente zero: la Cina e la "spagnola"

24 Febbraio 2020

Il paziente zero non si trova. Le notizie di questi giorni ci dicono che l’epidemia di coronavirus non ha ancora un paziente iniziale, quello che ha portato il virus in Italia e ha provocato questa diffusione in almeno due centri, in Lombardia e Veneto, che allo stato attuale non sembrano collegati. Non è stato, così pare, un uomo proveniente dalla Cina a diffonderlo, e i cinesi ritornati alla piccola nazione dopo un viaggio nel loro paese d’origine non sarebbero i portatori. Portatori sani? Così si dice: persone che hanno avuto una influenza a causa del virus, ma superata senza conseguenze e quindi senza ricoveri: saremmo già al terzo o quarto contagio? Tutto ora sembra partito da un piccolo ospedale di Codogno. Riusciremo a risalire al paziente zero? Non è solo un fatto importante per circoscrivere il contagio, ma perché resta il problema di capire una evidenza epidemiologica importante. Anche per il futuro. Imparare dal passato?

 

La “spagnola”, la terribile pandemia di febbre che nel 1918 uccise in due anni milioni di persone in una Europa appena uscita dalla guerra mondiale, portandosi via ignoti e geni come Egon Schiele e Max Weber, non ha ancora avuto una risposta circa la sua origine. Intanto non ha avuto inizio in Spagna, come il nome con cui è conosciuta sembra dire. Ci sono stati almeno tre focolai, una storia che Laura Spinney, giornalista scientifica inglese, oltre che romanziera, ha raccontato in Pale Rider: The Spanish Flu of 1918 and How it Changed the World (tradotto con il titolo: 1918. L’influenza spagnola, Marsilio). 

 

Il primo, che è stato più volte citato, è in Kansas, dove un cuoco, Albert Gitchell, il supposto paziente zero, si sarebbe ammalato a Camp Funston; dal campo di addestramento militare si sarebbe trasferita sui campi di battaglia e nelle loro retrovie in Europa, una spiegazione sostenuta per molti anni e abbastanza certificata, almeno per la sintomatologia: febbre, mal di gola e mal di testa.

 

Ma c’è anche una seconda origine che rinfocolava un’origine cinese della epidemia, creando il mito del “pericolo giallo”, un atteggiamento xenofobo all’epoca che vedeva negli asiatici i responsabili di molti eventi quali la criminalità, il rapimento delle donne e la conseguente "tratta delle bianche", il calo della natalità e altre nefandezze, tra cui quella di praticare il vampirismo - per quanto si vociferasse all’epoca di una trasmissione dalla Transilvania alla Cina attraverso la “Via della seta”. Tuttavia qualcosa di vero c’è, perché la Cina fu protagonista all’inizio del Novecento di varie epidemie. Resta famosa quella del 1910, che Laura Spinney descrive nel dettaglio, dal momento che c’è un eroe, Wu Liande, antesignano di quel medico cinese che per primo ha rilevato la presenza del coronavirus nella sua regione ed è morto poco tempo fa. Wu era un allievo indiretto di Robert Koch, il padre della microbiologia medica.

 

Aveva studiato in Germania e fu inviato a contrastare in Manciuria il contagio di una polmonite di origine sconosciuta. Cosa che fece sospendendo i viaggi e gli assembramenti di persone, creando l’isolamento dei malati, e intervenendo per estrarre dal corpo di un morto il bacillo della peste polmonare, cosa molto pericolosa perché contraria alle credenze religiose cinesi. Raccontato dalla giornalista inglese, Wu ricorda, con la sua testardaggine e la sua disposizione a cercare le cause, il dottor Igná c Semmelweis, ungherese, che trovò l’origine della terribile febbre puerperale che uccideva le donne partorienti, cui Céline ha dedicato nel 1924 la sua tesi di laurea diventata poi un libro (tradotto in italiano da Adelphi). Dopo aver isolato lo Yersinia pestis, Wu si dedicò ad altre epidemie, anche se quella in Manciuria segnò di fatto la fine della dinastia Qing al potere nel Celeste Impero: cosa non inusuale, dal momento che nella storia dell’umanità, soprattutto nell’età antica, spesso la diffusione di malattie endemiche ha dato decisivi scossoni ai regimi dominanti. La storia del contagio del 1910 è legata alle concessioni che gli occidentali chiedevano ai cinesi nel paese. Ma c’è un altro dettaglio della vicenda che ben pochi conoscono.

 

Quando nacque la repubblica cinese, subito dopo la fine dell’epidemia, quel paese non si schierò nel conflitto europeo fino al 1917, quando dichiarò guerra alla Germania. Lo fece in accordo con Gran Bretagna e Francia, cosa che prevedeva la nascita di un corpo di lavoratori cinesi da portare in Europa nel 1916, per dare una mano ai combattenti dell’Intesa. Un’operazione semisegreta che comportò l’arruolamento di migliaia di reclute che sarebbero servite per scavare trincee e lavorare nella industria bellica. Vennero scelti tra i cinesi del Nord, abituati al freddo e più alti di statura, scrive Spinney. Così con un viaggio durato alcune settimane arrivarono in Canada, fino all’isola di Vancouver, stipati in pessime condizioni sulle imbarcazioni. Da qui si spostarono su treni controllati a vista e poi si imbarcarono per la Francia, fino a Marsiglia. Le storie della diffusione del virus raccontano che alcuni dei cinesi portati in Europa avevano una febbre, o qualcosa di simile all’influenza e alla cosiddetta “piccola peste”. Sembra che tra le guardie che li custodivano a Vancouver si fossero diffuse in seguito malattie all’apparato respiratorio. Forse furono eventi tra loro non collegati, fatto sta che quei soldati si mescolarono alla popolazione civile e questa potrebbe aver diffuso il contagio. Da qui ad arrivare ad Albert Gitchell la cosa non è chiara, ma il dubbio è rimasto. Non si sa se queste malattie siano legate alle successive epidemie cinesi scoppiate dopo, e a quelle curate da Wu Liande alla fine del 1917, quando ci furono sedicimila morti.

 

 

Questa versione cinese della diffusione della “spagnola” non ha il suo paziente zero, ma è durata a lungo. Il primo ammalato non è però in Cina e nemmeno nelle steppe euroasiatiche, cosa di cui non si ha alcuna notizia, ma un uomo vicino al fronte di guerra. Certamente la promiscuità delle trincee e i grandi spostamenti di truppe, gli sfollati e altri movimenti nel territorio interessato, hanno mescolato le carte e anche le malattie. L’autrice parla di un accampamento militare a Etaples, presso un villaggio di pescatori, dove fu creato un ospedale con ventitremila letti, una di quelle situazioni che abbiamo vista, seppur in modo più improvvisato, nelle scene finali di 1917, il film appena uscito nelle sale. Cosa c’entra questo ospedale da campo? Lì vennero portati i soldati esposti alla iprite che i tedeschi lanciarono sui campi di battaglia tra il luglio e il novembre 1916. Ogni giorno vi arrivavano dieci treni con malati che presentavano “bronchite purulenta” causata dai gas. Un virologo inglese, John Oxford, si è convinto ai giorni nostri che da quella bronchite abbia preso avvio la “spagnola”. Lui e uno storico hanno studiato i certificati di morte negli ospedali militari britannici della città francese di Rouen e hanno scoperto che nel medesimo periodo l’epidemia era presente lì, un’epidemia identica a quella che c’era in una caserma inglese, a Aldershot, all’inizio del 1917. La storia di questa ricerca è abbastanza complicata, ma da quello che si evince da 1918 potrebbe essere collegata alle vicende della bronchite, una ricerca condotta non su corpi vivi o morti, ma con materiali di archivio.  

 

La terza spiegazione della pandemia del 1918 non la riconduce alla Cina della polmonite con un contadino che viveva nelle gole dello Shanxi o alla Francia in guerra, con un soldato dell’ospedale da campo che funge da paziente zero, ma da quel Camp Funston con le reclute provenienti dalle zone povere del Kansas, che vivevano di mais e allevavano maiali. Lì ci fu un focolaio di polmonite, con telegrammi inviati alle autorità da un medico. Ne resta traccia in un articolo di giornale scovato da John Barry, un giornalista, novant’anni dopo, da cui è partita l’ipotesi del paziente zero di quel luogo di addestramento. Lo studio che è stato fatto sull’avanzamento della “spagnola” la vede a Camp Fuston poi in Francia, ma tocca anche i cinesi portati in quel paese dal nuovo governo della repubblica. Nell’aprile del 1918 l’ex Celeste Impero era stretto da una epidemia influenzale, che sembrava di ceppo non conosciuto, ma che fu valutata poi come “un malanno stagionale”. 

 

Lascio a chi prenderà in mano il libro della Spinney i dettagli non secondari che legano tutte queste cose tra loro, in modo ovviamente congetturale. Nessuna certezza, molte prove. L'autrice conclude che le tre teorie, che ho sin qui riassunto, restano “sul tavolo”, nessuna è totalmente convincente. Per trovare il bandolo della matassa bisognerebbe confrontare i vari ceppi influenzali che hanno provocato le varie epidemie succedutesi e confrontarli con quello in circolazione nel 1918. Non è possibile per ora. Tuttavia una strada c’è e anche questo si legge nel volume della autrice nei capitoli quasi finali del libro. Si tratta di un tipo di prova che è stato messo a punto dopo l’anno 2000, dato che della “spagnola” ci si continua a occupare, anche perché è stata così devastante che da quella pandemia si può ancora imparare. Anticipo soltanto che, per quanto interessante, anche questa prova non è definitiva. L’unica cosa certa è che non è cominciata in Spagna. Spinney nota che se la teoria cinese fosse stata giusta, l’epidemia non potrebbe essere descritta come il risultato della Prima guerra mondiale.

 

Il paziente zero sarebbe stato un cinese di un remoto villaggio che conduceva una vita simile a quella dei suoi antenati, del tutto all’oscuro della guerra che si combatteva in Europa. La medesima cosa se tutto è cominciato in Kansas. Solo se è cominciata in Francia potrebbe essere conseguenza del conflitto bellico. Ma c’è ancora un'altra possibilità: che nessuna delle tre ipotesi del paziente zero sia esatta. Ora quello del coronavirus ancora non c’è e forse non ci sarà mai; per quanto ci si impegni a cercarlo la mobilità delle persone nella globalizzazione è tale che è come cercare un ago nel pagliaio però a volte lo si trova, più per fortuna che per abilità. Gli epidemiologi hanno dichiarato ieri che probabilmente è cominciata da un paziente senza sintomi o che è stato creduto vittima di una influenza invernale, forse cinese o forse no, che però viene quasi certamente dalla Cina. Qualche settimana fa, alla fine di gennaio, si diceva che il virus era passato agli uomini dai pipistrelli mangiati dai cinesi della città Wuhan per scopo propiziatorio, e probabilmente non alimentare. L’altro ieri è circolata la voce che il virus sia scappato da un laboratorio cinese della medesima città. Forse un ospedale. Qualcuno dice da un laboratorio militare. Cinesi e americani, ma forse anche francesi e israeliani. o anche altri paesi con mezzi economici e scientifici sufficienti, oltre che di scarso spirito umanitario, si dice che stiano sperimentando la guerra batteriologica con allevamenti di virus. Possibile? Chissà. Probabilmente un’altra falsa notizia, ispirata da qualche film apocalittico. Intanto per capire il presente e il futuro leggere il libro di Laura Spinney è molto utile. Non perdetevelo.  

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