Guadalupe Nettel, La figlia unica

12 Novembre 2020

«La vita quotidiana è disseminata di casi e di accidenti che non nota quasi nessuno».

Come reagiamo alle cose, qual è lo scarto minimo che sposta la nostra visione dall’accadimento alla sua conseguenza, quali sono le piccole azioni (delle quali quasi non ci accorgiamo) che sommate definiscono il nostro comportamento. Quanto e come siamo disposti a lasciarci travolgere dal caso, dall’evento traumatico, e quanto invece siamo in grado di indirizzarlo, di adeguarci al cambiamento, di cambiare di conseguenza. Quanto un fatto straordinario, ma naturale, come una nascita, una morte, un innamoramento è in grado di sconvolgerci e trasformarci, di rivelare cose di noi che non conoscevamo, o che facevamo finta di non conoscere. Quali e quanti sono i segnali esterni che possono farci capire che intorno a noi – perciò ai familiari, agli amici, ai conoscenti, a noi stessi – sta per capitare qualcosa di inaspettato. Ce lo svelerà una coppia di piccioni che farà il nido sul nostro balcone, ce lo può dire un bambino che urla e sbatte le cose dentro casa, una madre che non sa come reagire, un’altra che impara a farlo, un’altra che non vuole esserlo, un’altra ancora che si allontana dalla figlia per ritrovarsi. 

«Non ha avuto bisogno di aggiungere altro. La conoscevo da anni e mi è bastato udire il suo tono di voce per capire che cosa mi avrebbe annunciato. Quando finalmente ha pronunciato la parola “incinta”, ho sentito un tuffo nel petto così simile alla gioia che mi ha sconcertato. Com’era possibile che fossi felice?»

 

In questa serie di domande senza punto interrogativo si trovano le fondamenta della narrativa di Guadalupe Nettel, che, dopo le due recenti (e bellissime) raccolte di racconti Bestiario Sentimentale e Petali, torna al romanzo con La figlia unica (edito da La nuova frontiera come i due precedenti e tradotto sempre da Federica Niola). Il libro, è bene dichiararlo subito, è uno dei romanzi più belli pubblicati quest’anno. Nettel continua a stupire, la leggiamo da molti anni e non ha mai deluso. Ha il dono della prosa fluida e magica, sa essere dolce e cattiva, non si ferma alla superficie dell’argomento principale. Anzi, potremmo dire, che non ha un argomento principale, se non l’essere umano, tesi peraltro sostenuta anche da David Foster Wallace: «La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano». Per vari motivi, perciò, La figlia unica non è un romanzo sulla maternità (e le relative difficoltà) ma sui sentimenti, sulla capacità delle persone di gestirli, sulle convinzioni di tutta la vita abbandonate a poco a poco, sulla solitudine e sul senso di comunità. La famiglia, ci racconta Nettel, è in buona sostanza qualcosa che riguarda l’anagrafe, la comunità è qualcosa che viene dalla conoscenza, dallo scambio, dalla somiglianza, dal dolore, dal tessuto nel quale ci connettiamo, dal contesto sociale; qualche volta la famiglia (nei casi più fortunati) coincide con la comunità, o con una parte di questa.

 

«Fuori la villa miseria si estendeva in lontananza nel quartiere che rifletteva meglio di qualunque altro le disuguaglianze di Città del Messico. Ha pensato alla parola “miseria” e si è detta che non descriveva solo la povertà, ma anche gli stati di vulnerabilità estrema in cui possono cadere gli esseri umani».

 

La storia in breve. Laura (voce narrante) e Alina, messicane, si sono conosciute a Parigi ancora ventenni, da allora sono diventate inseparabili. Hanno molti interessi in comune e alcune convinzioni, tra queste c’è quella di non diventare madri. I bambini tolgono la libertà, sono insopportabili, sono bellissimi ma meglio se non tuoi, eccetera. 

Alina torna in Messico prima di Laura, si innamora di Aurelio e, al ritorno dell’amica, le confessa di aver cambiato idea e di desiderare molto un figlio, e che lei e il compagno ci stanno provando con insistenza.

 

 

Laura è disorientata, ma l’amore per l’amica prevale così come la sua capacità di ascolto, di empatizzare, di leggere i segnali. Alina resta incinta e per quasi tutta la gravidanza non ha alcun problema, solo attesa e felicità e Aurelio. La bambina nasce, però, con una malformazione al cervello, i medici avevano previsto che non sarebbe sopravvissuta al parto, Ines – questo è il nome della bimba – invece sopravvive e con una tenacia sorprendente si attacca alla vita come può. 

«L’amore e il senso comune non sono sempre compatibili. In genere si tende a scegliere l’intensità, per poco che duri, a prescindere da tutto ciò che mette a rischio».

 

Ines diventa il nucleo attorno al quale ruotano le esistenze di tutti i personaggi, dai genitori a Laura, alla bambinaia, bravissima e particolare. L’arrivo della bimba, lateralmente, condizionerà anche il rapporto di quest’ultima con la propria madre, innescandone un allontanamento e poi una nuova comprensione. Infine, il primo anno di nascita di Ines provocherà, non solo nei genitori, ma anche e soprattutto in Laura, un mutamento che la farà interagire con la vicina Doris e il suo bambino solitario e rabbioso. Si avvicinerà a loro e alla loro storia, si legherà al bambino e cercherà di capire Doris e i suoi silenzi, il suo rintanarsi, le sue paure.

 Guadalupe Nettel, attraverso Laura, accompagna il processo di accettazione della coppia di amici nei confronti di Ines: si passerà dal rifiuto, dalla speranza, dal dolore, fino alla comprensione e a una sorta di sollievo. Il sollievo, il respiro, non vengono certo dalla guarigione, che non c’è – qui ogni sorriso è una cicatrice che si rimargina, ogni volta che il collo tiene su la testa dritta è un giorno buono – vengono dall’amore a quanto pare, le ragioni di questo sentimento continuano a essere incomprensibili e la scrittrice messicana cerca, anche questa volta, di afferrarle, di spiegarle almeno per qualche pagina.

«È stranissimo, non trovi? Perché qualcuno che non lo ha mai fatto dovrebbe avere voglia di vivere?»

La figlia unica è un libro moderno. Nettel si prende la briga di occuparsi del contemporaneo, delle persone che lo abitano, delle loro reazioni al dolore, sì, ma anche dell’amore.

 

Spiega come sia facile sbandare e sentirsi perduti, ci si salva qualche volta aggrappandosi alla cima che nemmeno sapevamo di avere lì poco distante. In circa duecento pagine, l’autrice trova il tempo e la bravura per farci sapere come funziona il sistema sanitario messicano, come Alina e Aurelio, benestanti, siano comunque dei privilegiati. Ci ricorda la condizione terribile in cui versano le donne messicane, quanti ancora siano gli stupri e gli omicidi annuali. Usa di nuovo, come nei libri precedenti, gli animali, in questo caso i piccioni, che fanno il nido sul balcone di Laura, che prima prova a cacciarli, poi li osserva e li capisce, poi si preoccupa per un uovo che si rompe, poi li cerca quando se ne vanno, si informa e capisce come funziona una nascita per quei volatili e cosa succede quando l’uccello che nasce appare diverso.

«Quanto più amiamo una persona, tanto più fragili, più insicuri ci sentiamo a causa sua»

Ci sono pagine bellissime in questo romanzo, alcune verso la fine trasmettono un senso di serenità, come accade a volte quando ci pare che una serie di piccole cose si incastrino facendo in modo che la nostra vita vada avanti non facendoci troppo male. Una storia d’amicizia, allora, di legami, di maternità. Una storia d’amore, senza dubbio.

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