Riforme e investimenti / Franceschini: con la cultura si mangia?

1 Maggio 2022

Dario Franceschini è da tempo il massimo punto di riferimento istituzionale per la cultura italiana. Lo è dal 22 febbraio 2014, prima come Ministro dei Beni e delle Attività Culturali (e inizialmente anche del Turismo) con i governi Renzi, Gentiloni e Conte II, e ora come Ministro della Cultura con il governo Draghi, salvo l'interruzione del Conte I (quello “gialloverde”) nel 2018-19, quando il ruolo venne affidato all'inconsistente Alberto Bonisoli (quando il Ministero perse la delega al Turismo).

Franceschini ha fortemente voluto questo dicastero, considerato “minore” ma con una forte visibilità mediatica. Una scelta insolita per un politico di primo piano, che avrebbe potuto ambire a ministeri più “pesanti”, ma rivendicata dopo il primo giuramento al Quirinale, quando con un pizzico di provocazione si dichiarò orgoglioso di guidare “il principale ministero economico del nostro paese”, ancorché poco finanziato.

 

Appare dunque legittimo il suo desiderio di tracciare un bilancio, con un volume che si inserisce in un fortunato genere saggistico: il suo Con la cultura non si mangia? (La nave di Teseo, 2022) arriva infatti dopo La cultura si mangia! di Bruno Arpaia e Pietro Greco (Guanda, 2013) e “Con la cultura non si mangia” Falso! di Paola Dubini (Laterza, 2018). Forse stiamo conquistando “una nuova sensibilità nel dibattito pubblico” sulla cultura, come nota lo stesso Franceschini, ma non è bastato per cancellare l'eco dell'infelice battuta (forse apocrifa) del ministro Tremonti, che evidentemente interpreta uno stato d'animo profondo e diffuso: per l'italiano medio la cultura non è un lavoro, al più un simpatico passatempo. A dimostrare il peso economico del settore creativo, il vero motore di sviluppo del nostro paese, non sono serviti nemmeno i puntuali rapporti annuali di Fondazione Symbola, Io sono cultura.

 

Nel suo memoriale, Franceschini rivendica le numerose misure che il suo ministero e i vari governi hanno preso nel corso degli anni. Alcune erano assolutamente doverose, come vietare alle grandi navi di passare per il Canale della Giudecca (nel 2019, p. 103, anche se nel capitolo dedicato a Venezia non si parla né del MOSE né della Disneyzzazione della città). O l'abolizione dell'anacronistica censura cinematografica (nel 2021, p. 113). In questi anni si sono visti esperimenti virtuosi come MigrArti, “per utilizzare l'arte come strumento di dialogo e incontro tra culture” (p. 141), subito cancellato da Lega e 5 Stelle e mai ripristinato. Effetti positivi (anche se alcuni meccanismi possono essere migliorati) ha avuto l'istituzione nel 2014 dell'Art Bonus, “un credito d'imposta di cui può beneficiare chi sostiene la cultura e lo spettacolo” (p. 57), attestatosi a fine 2021 a più di 615 milioni di euro. Lodevoli anche il credito d'imposta per le librerie (p. 158) e il “forte aumento delle risorse per le acquisizioni delle biblioteche pubbliche, statali e locali” (p. 159). 

 

Alcune misure hanno attecchito, come l'ingresso gratuito ai musei la prima domenica del mese (p. 40), altre hanno avuto vita breve, come il biglietto a 2 euro proposto nel 2016 con “Cinema2days” (p. 114). Non sarà facile implementare i Caschi Blu della Cultura, “forze per l'intervento a protezione del patrimonio culturale a rischio nelle aree di crisi” (p. 24-25): il recente tracollo geopolitico rende l'ambiziosa misura sempre più necessaria e sempre meno realizzabile. 

Non sono mancate invenzioni populiste (e dunque subito amplificate dai media), come la Biblioteca Nazionale dell'Inedito, “dove raccogliere e conservare per sempre romanzi e racconti di italiani mai pubblicati” (p. 127). Era prevedibile che un progetto confuso e velleitario come ItsArt, “una piattaforma italiana che consenta di offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento” (p. 141), faticasse a trovare spazio tra multinazionali molto più ricche e creative. Ma i flop dei progetti internet e digitali dei ministeri italiani in questi decenni – a cominciare da Immuni – meriterebbero una satira a parte, anche perché adesso l'Italia deve spendere bene i milioni del PNRR per la digitalizzazione.

 

Di altri provvedimenti si è molto discusso e si continuerà a discutere. L'autonomia dei grandi musei e la conseguente nomina dei direttori “stranieri” nel 2015 è finita addirittura in tribunale, anche a causa dell'esasperata autodifesa della corporazione; ma in genere i risultati sono positivi, rispetto al precedente immobilismo (p. 33-35). Di altri progetti bisogna aspettare la effettiva realizzazione, vedi la pavimentazione del Colosseo per renderlo “più decifrabile e più fruibile”, con un investimento di 18,5 milioni di euro nel 2015 (pp. 87-89), o il Museo d'Arte Digitale che sta nascendo a Milano, o Italian Council, “il programma di finanziamenti e promozione nazionale e internazionale all'arte contemporanea” (p. 147). Per quanto riguarda le Fondazioni Lirico-Sinfoniche (p. 137), a preoccupare il ministro non è il loro cronico dissesto, un tema politicamente spinoso: si limita a chiedere il ripristino dei corpi di ballo, a suo tempo cancellati proprio per limitare le insostenibili spese di alcuni enti (p. 139). Un approfondimento meriterebbero le Capitali della Cultura europee e italiane, che hanno se non altro il merito di portare all'attenzione della collettività il rapporto tra cultura e territori (pp. 81-86). 

 

Sono alcuni esempi delle scelte del ministro, che nel libro sono ordinate per settori. Capitolo dopo capitolo, Con la cultura non si mangia? parla dei musei, delle soprintendenze (oggetto di una discussa riforma), di turismo (con le competenze dei due Ministeri decise per beghe politiche), delle Capitali della Cultura, del Colosseo, di Pompei, di Venezia, del rilancio di Cinecittà (con un finanziamento al cinema in crescita, dal 230 milioni del 2014 ai 750 milioni del 2022, e con la “Legge Cinema” approvata nel 2016), degli archivi, di spettacolo dal vivo, di digitale e nuove creatività, di libri e lettura... Come si vede, la materia è davvero complessa e frammentata.  

 

Molte proposte – a volte solo annunciate, a volte già operative – hanno suscitato polemiche, anche feroci. Quasi sempre il dibattito è finito nel nulla, Italian Syle, non appena è esplosa una nuova polemica, o è arrivato l'ennesimo annuncio a effetto. Difficilmente il confronto si è rivelato costruttivo. Non si è mai approfondito, ci si è accontentati della contrapposizione, dell'attacco ad personam, dell'insulto. 

Tuttavia sarebbe opportuno fare chiarezza su alcuni temi cruciali, per evitare contraddizioni e incongruenze. Per esempio il rapporto pubblico-privato, considerato da alcuni una forma di prostituzione e da altri l'unica possibilità di salvezza, tema cruciale vista la crisi del welfare state. O le sinergie della cultura con il turismo, in un rapporto difficile e dai risvolti complessi. Anche l'opzione della gratuità per l'accesso alla cultura, e una misura lodevole ma sfruttata male come “18App” (i 500 euro da spendere in cultura per chi compie 18 anni), hanno molti pro e contro. Va ripensato anche il rapporto tra le grandi e le piccole istituzioni culturali, e non nella chiave demagogica utilizzata dal M5S ma per valorizzare le energie dei territori. 

 

Di questi temi in Italia pare non sia possibile discutere seriamente. Tipico il dibattito sul “PNRR Borghi”, un miliardo di euro per 250 progetti. È stato assai “brontolato in privato”, sia per le scelte nell'allocazione delle risorse sia per l'inadeguatezza dei piccoli comuni a gestire progetti così complessi. Diversi soggetti hanno cercato di aprire un dibattito, come il presidente dell'Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, ma senza esito (anche per i tempi stretti imposti dall'Europa per le procedure, come si è detto).

 

 

I maggiori organi di stampa italiani non hanno dato grande spazio al dibattito, che invece ha trovato eco sul britannico “The Guardian”, con un articolo dal titolo provocatorio: Covid recovery funding pits Italy’s dying towns against each other. Il “PNRR Borghi” tornerà in agenda, con titoli cubitali, solo se la magistratura aprirà un'inchiesta su mazzette e affini. Ma in una democrazia sana, la corretta informazione, il dibattito, la partecipazione, il controllo devono essere praticati prima e durante, e non dopo, quando ci si scandalizza moralisticamente di fronte a ritardi, clientelismi, ruberie... Oltretutto il PNRR promette risorse per le infrastrutture (con ristrutturazioni green) e per la digitalizzazione. Se tutto va bene, avremo edifici a norma e debitamente sostenibili, con efficaci vetrine digitali, ma vuoti, senza le attività che li rendono vivi. 

 

Per raccontare i meriti del suo ministero, Franceschini guarda al passato e usa spesso l'imperfetto. C'è anche un presente, nel suo memoriale. Sono le enunciazioni di principio, spesso vaghe e dunque generalmente condivisibili, sul valore della cultura nella società contemporanea. Può “creare buona occupazione e coesione nel territorio” (p. 16). Ha un ruolo chiave – con lo sport – nel soft power e nella “diplomazia culturale” (pp. 22-23). Ha un “valore economico”, come sancito dall'inserimento della cultura nei lavori del G20 (p. 23). È elemento costitutivo del “dialogo interculturale” (p. 26). È una leva per riqualificare le periferie (p. 54-55) e i piccoli borghi (p. 73-74). È strumento di promozione turistica (pp. 65-72), magari rilanciando le “ferrovie storiche” con i denari del Recovery Plan (pp. 76-77). Lo spettacolo dal vivo è “molto di più che un intrattenimento, uno svago per il tempo libero, quanto piuttosto un bene comune, prezioso per la crescita civile, intellettuale e sociale del paese” che “non può e non deve essere abbandonato alle esclusive logiche del mercato” (p. 129): è dunque necessario “portare il teatro nei territori, nei borghi, nei paesi, nei quartieri periferici delle grandi città, in tutte le realtà solitamente marginali rispetto ai classici circuiti della produzione e dell'offerta culturale”: queste attività hanno ottenuto un finanziamento ad hoc di 22,2 milioni di euro nel FUS 2022 (p. 141).


Non ci sono solo la valorizzazione e la tutela del patrimonio. C'è anche il fronte del nuovo: si ribadisce la necessità, per lo spettacolo dal vivo, di “incentivare sempre di più nuovi percorsi di ricerca, sostenere chi osa, chi sperimenta nuovi linguaggi e codici espressivi, chi esplora inedite possibilità drammaturgiche, registiche e interpretative” (p. 141). Perché “la cultura è una realtà viva, dinamica, attraversata da energie e fermenti che meritano di essere sostenuti. Nuovi codici e nuove pratiche animano il presente e frequentano il futuro” (p. 145). La lettura - e dunque in generale la cultura - sono “una competenza essenziale in una società knowledge based ” e dunque “nel tempo della globalizzazione è divenuto fondamentale per ogni paese investire su conoscenza, formazione e cultura” (p. 156). In conclusione, questo manifesto per la cultura ribadisce la “grande vitalità” delle imprese culturali e creative, “un settore che continua a reinventarsi”, “una filiera di eccellenza”, “un settore strategico”, per il quale nel PNRR “sono previsti 115 milioni per accompagnarle nella transizione per ripensare le proprie attività in una logica sempre più green e digital” (p. 151).

 

Tutto politicamente corretto, tutto condivisibile. Anzi, l'elenco delle funzioni della cultura nella società contemporanea potrebbe ancora ampliarsi. Tutto bene, allora?

Accanto al passato delle iniziative spot e al presente delle generiche consapevolezze e delle buone intenzioni, in queste pagine c'è poco futuro. Su un piano generale, la cultura si presenta come un passe partout che dovrebbe risolvere tutti i problemi della società, con il rischio di diventare il nuovo oppio dei popoli. Obbedendo a obiettivi esterni, rischia di perdere la propria più autentica vocazione. Tra l'altro, volendo sviluppare la funzione “di servizio” della cultura, sarebbe opportuno rendere organici (e non confusi e subalterni, come nel caso del 2% del FUS che dovrebbe andare alla scuola) i rapporti con altri Ministeri, a cominciare da Esteri (da cui dipendono gli inadeguati Istituti Italiani di Cultura nel mondo), Pubblica Istruzione, Università e Ricerca, Lavoro e Politiche Sociali, e naturalmente Turismo.

 

Ma quello del rapporto con gli altri Ministeri è un nodo politico che nemmeno un ex segretario del PD può affrontare, che tace anche su un altro nodo irrisolto del nostro scenario istituzionale, il rapporto Stato-Regioni: senza una definizione delle rispettive funzioni, qualunque tentativo di riforma resta impossibile. 

Allo stesso modo, una riforma resta velleitaria se non è sostenuta da un adeguato investimento. L'Italia resta uno dei paesi che investe meno (e spende meno) in cultura, rispetto ai nostri partner europei. Malgrado l'impegno di Franceschini, stando all'ultimo Rapporto BES 2021, diffuso il 21 aprile 2022, l'Italia ha speso in servizi culturali e protezione della biodiversità e del paesaggio una frazione del proprio PIL inferiore a quella del 2010, con il 2,8 per mille contro una media UE del 4,8 per mille, posizionandosi al 22° posto su 27 paesi europei per spesa pubblica in ambito culturale. Per quanto riguarda i consumi culturali, la situazione è ancora peggiore: terzultimi in Europa, seguiti solo da Croazia, Bulgaria e Romania (Rapporto Eurostat 2019).

 

In molti settori della cultura, le risorse sono già scarse per l'ordinaria amministrazione, con il personale sotto organico (e sempre più anziano). La carenza di adeguate risorse ha messo in difficoltà la riforma del FUS (che si è accollato anche Rievocazioni Storiche, Carnevali e il settore della Canzone Popolare d'Autore, qualunque cosa sia) e sta bloccando il cosiddetto Codice dello Spettacolo, la legge che il teatro attende invano da decenni (e sulla quale il MiC ha ottenuto dal Governo l'ennesima delega, che rischia per l'ennesima volta di scadere).

Se mancano queste condizioni, nonostante la buona volontà e la giusta ansia di protagonismo del ministro, la nostra politica culturale continuerà a procedere per annunci e provvedimenti spot, e nel quotidiano impantanarsi in clientelismi e finanziamenti a pioggia. 

La riflessione imposta dalla “apocalisse che abbiamo passato”, spiega Franceschini, ci ha spronato “a riflettere sull'attuale modello di sviluppo, a immaginare una riprogettazione degli spazi urbani e di quelli domestici, a riannodare i fili del solidarismo e del legami comunitari, a rivedere il nostro rapporto con le risorse naturali e l'equilibrio del pianeta, a lavorare per uno sviluppo che sia sostenibile” (p. 168). Negli ultimi mesi di questa tormentata legislatura, è difficile che questo slancio insieme ideale e realistico riesca a concretizzarsi in una coerente e incisiva pratica politica e amministrativa. Le buone intenzioni resteranno tali.

 

Poi – o forse prima di tutto – c'è il nodo del lavoro, che la pandemia ha fatto esplodere. Di fronte alle circa 80.000 richieste di ristori nel settore dello spettacolo, lo stesso ministro ha ammesso – nel marzo 2021, incontrando gli occupanti del Globe Theatre a Roma – che per la prima volta la pubblica amministrazione ha avuto l'opportunità (o ha sentito la necessità) di censire il settore, "per avere una mappa precisa dei lavoratori intermittenti”. Il Rapporto BES 2021 denuncia che in Italia “l'occupazione culturale e creativa è stata colpita dalla crisi da Covid-19 già nel 2020, e non mostra segni di ripresa nel 2021”. Secondo il BES, alla fine del secondo anno di crisi pandemica gli occupati del settore sarebbero 55.000 in meno, con una perdita relativa del -6,7% tra il 2019 e il 2021, più che doppia rispetto alla contrazione del complesso degli occupati (-2,4%). Secondo i dati che l'Osservatorio dell'INPS ha diffuso nel marzo 2021, dopo il Covid ci sarebbero addirittura 70.000 in meno i lavoratori dello spettacolo, con una retribuzione media annua calata a 10.492 euro e un numero medio annuo di giornate retribuite sceso a 91. Già la divergenza di questi dati rende conto di una scarsa conoscenza del settore e della mancanza di dati affidabili.

 

Nel maggio 2021 è arrivata una prima mini-riforma del welfare dello spettacolo, collegata al Decreto Sostegni-bis, e giacciono oggi in Parlamento diversi disegni di legge sul tema. 

Forse una cosa il ministro può farla nei prossimi mesi, se vuole iniziare a concretizzare gli obiettivi del suo pamphlet: dare dignità al lavoro culturale, riconoscendo le sue professionalità, le sue specificità e i suoi valori, che si nutrono soprattutto di spirito critico. Così dimostrerebbe davvero che con la cultura si può mangiare. Togliendo il punto interrogativo.

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