La riscoperta di un capolavoro / Il polittico Griffoni

15 Dicembre 2020

Avrebbe dovuto aprire il 12 marzo 2020 la mostra dedicata alla ricostruzione del Polittico Griffoni, curata da Mauro Natale e Cecilia Cavalca, ospitata nelle sale di palazzo Fava a Bologna; ma solo a giugno i primi, timidi, visitatori si sono affacciati con mascherina e prenotazione obbligatoria, dopo che tutte le nostre abitudini, compresa quella di visitare un museo, erano state sconvolte dalla pandemia da Covid19 e dal lockdown. 

Non è visitabile, ma possiamo sperare che lo diventerà, perché si tratta di un’occasione unica di ricomposizione dei pannelli superstiti del polittico, da tempo dispersi in nove musei in seguito a travagliate vicende collezionistiche.

Eseguito fra il 1470 e il 1472 per la sesta cappella sulla navata di sinistra della basilica di San Petronio a Bologna, il polittico Griffoni è infatti un’opera fondamentale per capire come tra Bologna e Ferrara si fosse elaborato, alla fine del ‘400, un linguaggio pittorico in grado di comporre scienza prospettica, sapere antiquario, e modi naturalistici in una macchina narrativa come quella dell’altare a scomparti che, nel guscio ancora gotico della carpenteria lignea, persa nel 1725, quando il Polittico venne tolto dalla cappella, immetteva la molteplicità dei piani di rappresentazione della pittura rinascimentale.

 

Non a caso in L’Officina Ferrarese del 1934, il polittico Griffoni è una delle opere sui cui Roberto Longhi concentra maggiormente le proprie energie filologiche e il proprio expertise da conoscitore; non solo perché la sua ricomposizione era un rebus molto sfidante, visto che i pannelli smembrati da monsignor Pompeo Aldrovandi, prelato di scarsa lungimiranza nella carriera ecclesiastica quanto nelle scelte artistiche, erano sparsi letteralmente ai quattro venti, ma anche perché Longhi percepisce qui, come negli affreschi di Schifanoia a Ferrara, l’eccezionalità della collaborazione tra Francesco del Cossa e il più giovane Ercole de’ Roberti. Il catalogo della mostra bolognese di Palazzo Fava offre in tale senso un ventaglio di saggi che mettono a fuoco la peculiarità del momento politico e artistico che vive la città felsinea, dove arriva la lezione squarcionesca tramite Marco Zoppo, ma anche quella fiorentina acquisita da Francesco del Cossa stesso, e quella di Piero della Francesca transitato da Ferrara e in Romagna, fino a Paolo Uccello riconosciuto da Carlo Volpe come l’autore dell’affresco superbo e lacunoso della chiesa di S. Martino. 

 

Anche in virtù della sua centralità geografica, il Rinascimento bolognese fu dunque tutt’altro che laterale, rispetto ai centri più tradizionalmente celebrati dalla storiografia. E per chi si accosta alle opere d’arte come a quesiti investigativi da risolvere – un approccio tutt’altro che disprezzabile – il catalogo della mostra ne indica diversi, ancora insoluti, relativamente alla carpenteria lignea di Agostino da Crema e alla disposizione delle figurine dei santi nelle lesene laterali, e al disegno eseguito da Stefano Orlandi nel 1725 prima del suo smantellamento. 

 

 

È solo guardando a opere come il Polittico Griffoni, l’Annunciazione di Dresda di Francesco del Cossa, anch’essa parte di un polittico, o la più tarda pala Portuense di Ercole de’ Roberti ora a Brera, che si può provare a immaginare l’ammirazione di Michelangelo alla vista della cappella Garganelli in San Pietro a Bologna. 

Distrutta col rifacimento della chiesa nel 1605, la cappella affrescata da Cossa ed Ercole De’ Roberti, fu vista all’inizio del ‘500 da Michelangelo che ne rimase molto colpito e disse che “era meza Roma de bontà” vale a dire che qui si trovava più o meno tutto quello che un pittore moderno aveva bisogno di imparare. 

 

Cosa intendiamo quando parliamo di modernità per un pittore della fine del ‘400? La misura della modernità è in qualche modo stabilita nel Proemio alla terza parte di Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani di Giorgio Vasari e comprende varie voci, fra cui “la facilità graziosa e dolce, che apparisse fra ‘l vedi e non vedi, come fanno la carne e le cose vive”, “la vaghezza de’ colori la universalità ne’ casamenti e la lontananza e varietà ne’ paesi”, “uno spirito di prontezza e una dolcezza nei colori unita”, “una terribile movenzia”, “buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina” nel contraffare tutte le minuzie della natura, e l’elenco continua fino ad arrivare a Michelangelo che possiede tutte queste qualità, e in tutte e tre le arti.

 

 

Se Michelangelo era al culmine di questa ascensione dell’arte, cosa vedeva in un’opera come la perduta cappella Garganelli o il Polittico Griffoni? Provare a immaginare con gli occhi di un’artista non è un esercizio ozioso o stravagante, perché mentre il lavoro dello storico è quello di stabilire una linea di progressione, che per Vasari coincide con una visione evoluzionistica della storia e delle epoche, e per i moderni è una rete di connessioni e incroci, per un artista si tratta di cogliere là dove l’invenzione e l’esecuzione di un suo collega segnano uno scarto, producendo una modalità di rappresentazione non vista prima né dopo, uno stile riconoscibile.

 

Cercherò di mettere in luce alcuni di queste caratteristiche. Francesco del Cossa è un pittore pieno di invenzioni ingegnose e sorprendenti, a partire dal modo in cui ritrae i committenti del polittico, Floriano Griffoni e la moglie Lucia Battaglia, inseriti nelle due edicole ai lati della crocefissione del tondo centrale nel registro superiore del polittico. Innanzitutto essi sono chiaramente due personaggi mondani, con gli abiti eleganti aggiornati alla moda del tempo, e sono di proporzioni comparabili ai santi del registro inferiore, cosa ancora non così comune nella raffigurazione italiana, mentre lo era in quella nordica, ma soprattutto pur essendo i ritratti dei committenti sono anche raffigurazioni dei loro santi omonimi: San Floriano, soldato romano convertito al cristianesimo e Santa Lucia da Siracusa, entrambi martirizzati durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano.

 

 

Cossa li raffigura come se si affacciassero da un parapetto basso che arriva poco più alto delle loro ginocchia, agevolando il sottosquadro cui lo spettatore sarebbe stato sottoposto guardando a quell’altezza del dipinto. Li staglia contro un luminosissimo fondo oro, che non è solo un omaggio al persistente gusto gotico, ma anche un modo per nobilitare le figure e porle su un piano diverso rispetto al San Vincenzo Ferrer, al San Pietro e al San Giovanni Battista del registro inferiore. E che dire poi del gioco allusivo col nome creato dal fiore di rosa tenuto in mano da Floriano, che diventa l’invenzione altissima di uno stelo su cui fioriscono due occhi nella mano di santa Lucia? Se Cossa avesse abbracciato la tradizionale raffigurazione della scodella contente gli occhi di Santa Lucia, non solo si sarebbe persa la simmetria legata al tema floreale del martire-consorte Floriano, ma soprattutto lo spettatore dal basso non avrebbe visto quello che è l’attributo principale della Santa, ossia gli occhi. Secondo la rigorosa costruzione prospettica di Cossa, se adagiati su un piattino o una scodella come l’iconografia li propone di solito, a quell’altezza sarebbero diventati invisibili; viceversa innestandoli in un gambo floreale, che Lucia offre alla vista frontale dello spettatore, essi sono messi in assoluta evidenza e acquistano una sorta di assolutezza che va oltre il simbolo del martirio. 

 

 

Non è un caso che Santa Lucia che con la mano destra che regge lo stelo d’occhi sia diventata l’immagine di copertina del catalogo della mostra e prima ancora sia circolata nella bella rielaborazione grafica fatta dall’illustratrice Elisa Seitzinger, per la copertina di un libro molto letto nell’ultimo anno, Febbre di Jonathan Bazzi. In un’intervista Bazzi ha dichiarato di aver scelto quell’immagine, gli occhi della santa tenuti dalla mano e resi lacrimosi nella rielaborazione di Seitzinger, senza troppo riflettere sul significato, per poi accorgersi che in realtà quello che aveva cercato, scrivendo il proprio libro, era proprio la possibilità di uno sguardo fino a quel momento negato. È sempre molto interessante seguire la fortuna delle immagini, perché ci dice qualcosa delle intenzioni artistiche e di come possano essere percepite nel tempo.

L’enfasi sullo sguardo nella pittura di Cossa è certamente promossa da preoccupazioni prospettiche, si pensi al bellissimo sporgere del piede calzato di San Floriano che vediamo da sott’insù, ma sconfina in una straordinaria consapevolezza dei piani illusivi della rappresentazione che tiene insieme vicino e lontano, dettagli anatomici iperrealistici – i volti, le mani, i piedi dei santi, i loro panneggi – e luoghi della mente come sono tutti i dettagli di architettura e di paesaggio raffigurati, non perché inverisimili presi uno a uno, ma perché frutto di una sintesi evocativa nel loro insieme di giustapposizioni. 

 

 

Daniel Arasse, in un libro intitolato On n’y voit rien. Descriptions (De Noel 2000) composto di sei saggi dedicati ad altrettanti quadri, riserva una lunga riflessione all’Annunciazione di Dresda di Cossa, proprio a partire dal dettaglio della lumaca in primo piano, incongruo sia dal punto di vista iconografico che delle proporzioni. Giusta o sbagliata che sia la sua disquisizione sul perché proprio una lumaca debba occupare in primo piano lo stesso spazio che lontanissimo, e in maniera simmetrica sullo sfondo, occupa Dio padre, quel saggio ha il merito di attirare l’attenzione sul fatto che Cossa sceglie elementi ai margini del dipinto, in questo caso la lumaca, per condurvi lo sguardo dello spettatore. Come se gli dicesse: attenzione, stai entrando in uno spazio che non è quello reale, non è forse nemmeno quello divino, ma è quello ulteriore della rappresentazione. Uno sfondamento analogo avviene anche nel Polittico Griffoni proprio col già summenzionato piede sporgente del San Floriano che esce dalla cornice dove si trova la figura, e con la lucertola che guizza ai piedi di San Giovanni Battista.

 

La lontananza e varietà nei paesi riconosciuta da Vasari come qualità necessaria ai moderni pittori è tutta dispiegata negli sfondi dei santi e nella magnifica predella di Ercole de’ Roberti, dove la vivacità della narrazione continua dei miracoli del santo domenicano prevede di nuovo uno spazio misto, non in sé concluso, come lasciano intuire la testa di moro e i quarti del cavallo di spalle di cui il resto è da immaginare oltre il bordo inferiore della raffigurazione, così come i comignoli dell’edificio nella penultima scena o le impalcature di quelli in costruzione nella architetture centrali, che si vedono solo a metà. Si tratta di un regime di rappresentazione, quello elaborato da Cossa e fatto proprio con livelli estremi di virtuosismo da Ercole de’ Roberti, in cui il dettaglio naturalistico-realistico si accompagna sempre a uno che potremmo dire fantastico, che sconfina in un altrove fuori dalla cornice del dipinto e fuori dallo stesso spazio istituito dal pittore. Oltre agli esempi già fatti se ne possono ravvisare molti altri, come l’ineffabile gonnella, trasparente come l’aria, che fuoriesce dall’armatura del San Giorgio nelle lesene laterali o le gemme di vetro, anch’esse un miracolo di trasparenza, che formano, intercalate a grani rossi, una ghirlanda appesa alle spalle di ciascuno dei tre santi della parte centrale. 

 

Per tornare all’ammirazione di Michelangelo, cosa aveva da spartire o da imparare un artista come lui che molte di quelle preoccupazioni naturalistiche e prospettiche se le era lasciate alle spalle da un pezzo? Più osservo il Polittico Griffoni e più penso che sia proprio il tipo di consapevolezza dei piani multipli della rappresentazione uno degli elementi che può aver attirato l’attenzione dell’artista fiorentino, la possibilità che non tutto sia dispiegato, ma possa anche essere evocato con forza da un singolo dettaglio, che insomma chi guarda sia invitato da numerosi dispositivi interni all’opera a immaginare di più di quello che vede riposizionando di continuo il focus del proprio sguardo.

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