Artpod / Enzo Cucchi, "Più vicino agli dei", 1983

8 Aprile 2021
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Questo ex voto qualcuno lo ha fatto, una mano di uomo lo ha tracciato, ed è arrivato fino a noi, a porci le sue domande. È arrivato su una tavola di grandi dimensioni, olio su tela, ha attraversato più di tre decenni, è arrivato tutto blu emerso dal nero, trafitto e gocciolante di fiammelle e argentei bagliori. Malgrado la nostra incredulità, si sente chiaro il boato che lo ha germinato, assumendo la forma di mandorla di luce spiccata dal cuore. Cosa ci mostra? Una “selva oscura”, una notte in cui ardono decine di fiammelle disposte a corona, e al centro, sospesa su un monte, una fortezza dalle mura orlate di cuspidi. Oppure è l’ombra di una città, con le sue case e le sue torri svettanti, ora dormiente, o abbandonata, o stregata. La selva però potrebbe anche essere un cielo, e quelle onde bianche nuvole che segnano il manto notturno, e le vampate stelle vorticanti. Un tuono ha fatto scaturire dal suo fragore questa mandorla, sospesa chissà dove, e ha guidato la mano del pittore.

 

Si impone e si sottrae alla vista, e per questo ci seduce, ci trascina all’inseguimento del senso sepolto, ci chiede il perché di quel risuonare così intenso dentro di noi. Il titolo dell’opera, Più vicino agli dei, potrebbe far pensare a un orizzonte pagano: ma qui non c’è nessun Olimpo, nessuna traccia di capricciose divinità antropomorfe. C’è tremore nel tratto, e il tremore è TREMENDUM, è tutto ciò che è celato nel mistero. Per questo lo sentiamo nostro, perché appartiene al nostro essere fragili creature dal destino incerto. E se fosse invece un ex voto di purificazione? Un inno per la città paralizzata, dove gli abitanti si sono trasformati in lingue di fuoco che seguono il ritmo sconosciuto di una danza vorticosa. Proviamo a entrare in questo diaspro, e cerchiamo di non ferirci: procediamo in ginocchio, non ci è concessa altra postura. A un certo punto sarà necessario trasformare il faticoso andare in un salto, un volo della mente. A questo inno, forse, non si accede che così, in una forma di invasamento. Qui non c’è ordinamento umano che possa convincerci di aver trovato la formula infallibile, “organizzata” e “rassicurante”.

 

Qui la sicumera non funziona, e proprio il non riuscire a risolvere l’enigma, è il segno che l’enigma stesso è a fondamento della nostra vita. E allora non rimane che confidare nei colori di questa rivelazione, il blu che fa da manto, il bianco che è la polvere diafana del suono da cui si è originato il tutto, il rosso danzante, e il nero del perdono. L’enigma continua a interrogarci, ci osserva mentre lo osserviamo. “Venga il tuo regno?”: dice così? Che forse tutti noi possiamo affondare e risalire? E che le tenebre non avranno la meglio, perché la luce di quelle fiammelle è invincibile? Ci viene in soccorso la discesa di Dante nel “cieco mondo” del IV canto dell’Inferno: il poeta si trova in una “valle d’abisso”, talmente “oscura e nebulosa” che nonostante il suo tentativo di vedere, il suo “ficcar lo viso a fondo”, non vede nulla, come in una notte antica senza luci elettriche, dove le nuvole coprono ogni bagliore di luna e di astri, dove si è tutti ciechi. Poi, a un tratto, appare “un foco/ch’emisperio di tenebre vincea”.

 

I dantisti si sono accaniti per secoli, a tentare di spiegare la forma immaginata da Dante. L’ex voto che abbiamo davanti agli occhi sembra restituircela con limpidezza: anche in fondo agli inferi, la luce vince. La luce è sempre nuova, nonostante il peso della tenebra che c’è sempre stata.  Nel fondo della prigione infernale, la luce è un barbaglio salvifico, e circonda il buio con la sua ghirlanda di fiamme rotanti. Dante ha forse già in mente la danza del Paradiso, il sentimento di un grande Padre della Chiesa, Origene, quando immagina che “i beati resusciteranno a forma di sfera ed entreranno rotando nell’eternità.” 

  

Legge Ermanna Montanari del Teatro delle Albe.

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