Luigi Trucillo. Quello che ti dice il fuoco

21 Dicembre 2013

Superato lo choc di trovarsi a leggere un romanzo d’amore e nient’altro, scritto per giunta in una seconda persona troppo autocompiaciuta per rinviare a uno degli espedienti della narrativa sperimentale alla Butor, Quello che ti dice il fuoco di Luigi Trucillo (“libellule” Mondadori) si rivela però nel suo genere un romanzo  compiuto e interessante (sebbene non sconvolgente, come recita, con l’ovvia enfasi editoriale, la quarta) anche fuori dal genere, entro un discorso più ampio (e prima o poi da affrontare diffusamente) sulle vie percorribili dalla nostra narrativa attuale. O di quella narrativa che senza essere per forza entertainment non ambisca necessariamente all’impegno declinato in chiave politico-sociale per avere già bella e pronta la risonanza mediatica. Ebbene, questo libro non parla di mafia, di crimini, di morte, ma (udite udite) d’amore, e soltanto d’amore. Il fuoco del titolo è facile, quasi vieta metafora del rovello che consuma il protagonista, pressoché esclusivamente affaccendato (tolto il legame un po’ melenso e pretestuoso con la figlia novenne) nella storia sentimentale con una sinologa, cui non ci si preoccupa di attribuire un nome, tanto è fantasmatica (così come si tace quello del “tu” protagonista).

 

Luigi Trucillo

 

Quel che qui si rovescia è l’idea dominante nella concezione contemporanea (e quasi premoderna) che una vicenda narrata debba acquisire dignità e necessità dall’essere specola di una ipotesi conoscitiva tanto più valida quanto maggiori ne sono le implicazioni attualizzanti, di ordine preferibilmente sociale. Qui no, nulla di tutto questo è nemmeno adombrato. L’incendio che devasta la Grecia in cui il protagonista sta provando a dimenticare la donna amata (per il tramite dell’ovvio personaggio di soccorritrice-medichessa, che non a caso si guadagna, nella transitorietà dell’apparizione, un’identità onomastica) funge invece, all’opposto, soltanto da scopertissima metafora delle fiamme del sospetto, ma insieme della passione stessa che se ne alimenta, con qualche netta ascendenza proustiana nella pervicacia della menzogna (motore dell’attaccamento perverso di Marcel ad Albertine) e, soprattutto, dell’inestricabilità tra menzogna e verità come alibi per un agire sempre più inquisitorio e paranoide.

 

Spiace, allora, quando l’autore appone ex abrupto alla narrazione i sia pur rapidissimi inserti didascalici sulla contemporaneità “mediatica” improntata alla caratterizzazione dei ruoli e delle funzioni, e di conseguenza all’incasellamento dei rapporti e al possesso, che detterebbe all’amore o alla gelosia i propri pervasivi connotati. Sia l’ambientazione prevalentemente greca o genericamente isolana sia un persuasivo riferimento a Platone e alla metafora della “giara bucata” ci dicono, invece, di una sorta di mito o di apologo in cui il fabula docet è esibito e fin troppo atteso (che a entrare a contatto col fuoco, se non ne scappi in tempo, ti consumi), ma quel che importa è l’incarnazione nei due personaggi principali di una qualche verità immutabile sugli incanti e i disincanti di una relazione amorosa. Soprattutto, la dialettica irrisolta (perché irrisolvibile) tra condivisione e tradimento, intimità e libertà. Bisogna superare alcuni pregiudizi sulla narrativa sentimentale (tutti confermati, peraltro, nella prima parte della narrazione) per rimanere (nella seconda parte e nel prefinale) colpiti, se non folgorati o sconvolti, dalla descrizione suggestiva e al tempo stesso asciuttissima di quello che può fare (più che dire) il fuoco a ciò che trova sulla propria strada, a patto che non si sia, come i greci del romanzo, così spaventati da bruciare il campo ancor prima che vi sopraggiungano le fiamme.

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