Ritratto di una leggenda / Franco Vimercati

28 Giugno 2016

La prima volta che ho sentito parlare di Franco Vimercati è stato da parte di Mario Gorni, direttore di Care/of, allora a Cusano Milanino, quasi in confidenza, come se ne dicesse solo a chi pensava che potesse apprezzarlo. Ne parlò come di una figura semileggendaria di artista chiuso in casa da dieci anni che fotografa un unico oggetto, una zuppiera, come una specie di monaco zen che l’aveva scelta quale oggetto di meditazione. La cosa mi aveva colpito, ma poi non lo sentii mai più nominare e passarono anni finché seppi che una nuova galleria, quella di Raffaella Cortese a Milano, ne aveva fatto una mostra personale. Anche quella galleria era nuova, aveva aperto appunto con quella mostra, che però era ormai finita. Volli andare a chiedere, per vedere finalmente le opere di questa leggenda. Fui accontentato con premura. Raffaella e la sua segretaria di allora – ricordo ancora il suo nome, Ornella – andarono a prendere una scatola e, facendomi indossare i guanti – una sorpresa per me, segno della cura che prestavano a quegli oggetti –, mi lasciarono maneggiare le opere.

 

Monforte d'Alba, Pettinatrice, 1973, Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano (C) Eredi Franco Vimercati

 

Eravamo nel 1995 – oggi quella galleria celebra i suoi vent’anni di attività, per la verità ventuno, con un’ampia personale dedicata allo stesso artista. Non sono un tipo che va a conoscere gli artisti se non trovo un motivo concreto, specie allora, per cui passarono di fatto altri cinque anni prima di avere l’occasione di conoscerlo di persona. Nei primi mesi del 2000 decisi di dedicargli la copertina di una rivista che dirigevo, che si chiamava “Ipso Facto”. Finalmente dunque lo cercai e gli parlai del progetto. Ne fu molto contento, volle curare la copertina di persona – era un ottimo grafico di professione – e, a dispetto degli artisti che vogliono un’immagine il più grande e d’effetto possibile, mise due zuppiere, una in prima e una in quarta di copertina, centrate e allineate con il nome della rivista e varie altre immagini molto piccole sparse sul resto delle superfici. Ne mise tre anche in seconda e tre in terza di copertina. Scelse naturalmente anche il colore di fondo e tutto il resto.

Da allora presi a frequentarlo regolarmente. Dico regolarmente perché, sapendo di trovarlo sempre in casa, quando avevo un paio d’ore buche, gli telefonavo e facevamo due chiacchiere. Sempre seduti ognuno nello stesso posto in salotto, lui metteva i suoi cd e ci si raccontava e confrontava su qualsiasi cosa in un’atmosfera di calma e pacatezza che non ho mai trovato con nessun altro. Ne ho una grande nostalgia, come si sarà capito.

Morì all’improvviso, lo seppi solo a fatto avvenuto, mentre lo credevo ammalato di una leggera influenza. Fu uno shock per me. Stavamo ancora lavorando a una lunga intervista (ora pubblicata sul bellissimo volume edito in occasione della mostra a Palazzo Fortuny, a Venezia, nel 2012) e a una piccola mostra al Centro San Fedele, a Milano, in cui aveva voluto che fosse presente un’incisione antica, perché diceva che le sue fotografie le considerava come delle incisioni. Io avevo cominciato a capire perché: teneva infatti sempre tre o quattro prove di stampa della stessa immagine allineate su un ripiano e continuava a misurarne visivamente l’assolutezza del nero di fondo e le gradazioni dei grigi degli oggetti raffigurati; una minima differenza era in realtà evidente e lui cercava quello che considerava l’equilibrio perfetto. In che cosa consisteva? Ho creduto a un certo momento che fosse addirittura un rapporto matematico, di rapporto appunto tra nero e bianchi e grigi e tra dimensioni della figura e fondo, ma non so se è misurabile; è quell’armonia di cui parlano i classici – e gli orientali, vorrei dire, visto che anche lui ci pensava.

Ora in effetti Vimercati è un “classico contemporaneo”, non si sa bene dove situarlo secondo le categorie, le tendenze e i movimenti, sta a suo agio in molti, come in effetti se ne accorgono in tanti esponendo le sue opere nei contesti più diversi. Perlopiù lo si mette, a partire dalle opere che precedono la zuppiera, e che sono serie di scatti su singoli oggetti – così la sveglia ogni cinque secondi – o su oggetti solo apparentemente uguali – come l’altrettanto leggendaria serie di 36 bottiglie di acqua minerale Levissima che scandalizzò Modena nel 1975 tanto da far chiudere la mostra il giorno dopo l’inaugurazione –, nel contesto del “concettuale” o del “minimal”. La sua prima serie, del 1973 – esposta da Raffaella Cortese per la prima volta dopo di allora –, di ritratti di abitanti delle Langhe, discende da August Sander e anticipa tanta ritrattistica dei decenni seguenti. In Germania, a Dresda, l’anno scorso hanno voluto esporre – per la prima volta di fatto – tutta la serie del centinaio di zuppiere in un museo di etnologia, tra vasi e utensili, secondo un’interpretazione dunque che ne privilegiava l’oggetto e il suo rapporto con il tempo, partendo dal Kubler di La forma del tempo. Qualcuno, non ricordo chi o se era qualcosa che ci dicevamo tra noi, l’ha definito il “Morandi della fotografia”, per ovvi ma non scontati motivi, che forse arriva più vicino a ciò che resta, nel senso proprio che non viene catturato dalle definizioni possibili, cioè la sua peculiarità e la poesia che emana dalle opere.

 

Untitled (Grattugia), 1997, Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano, (C) Eredi Franco Vimercati

 

Per noi è l’occasione per ribadire qualcosa che è diventato in realtà raro e che sappiamo che molti in realtà imputano all’arte contemporanea: come cioè la “semplicità” di certa arte contemporanea contenga una sorta di magia che la rende altrettanto ricca e significante di ogni altra arte. Lo ribadiamo perché a noi sembra poi la regola che Vimercati ha assunto per il proprio procedimento e percorso artistico: poche cose, pochi elementi e tutte le varianti, piccole, messe in atto con decisione ma anche discrezione, affinché tutto significhi e i significati si dilatino e si disseminino. Basta spostare di poco la distanza o la posizione, l’illuminazione o i tempi di scatto, e tutto cambia. Questa, del resto, è la fotografia, è il guardare e pensare con la fotografia.

D’altro canto l’oggetto rappresentato stesso si carica di significato, per accumulo, come il procedimento fotografico stesso, e diventa un simbolo e una metafora di varie cose, e, grazie al tempo, in ogni scatto sospeso ma nell’assiduità dei dieci anni tornato a scorrere, la serie diventa anche una sorta di diario, perfino un racconto – lo diceva lui stesso: si allontanano e si avvicinano; salgono e scendono da mensole o tavoli; quelle storte sembra che si muovano, che ballino…

Allora, dopo cento zuppiere Vimercati ha preso altri oggetti, sempre di casa (caffettiera, barattolo dei biscotti, lattiera, bicchiere), ha sfocato, ha capovolto (cioè, in realtà, ha lasciato “come vede la macchina fotografica”) e ha perfino moltiplicato, sovrapposto in esposizioni multiple. Anche queste altre serie sono ben rappresentate nella mostra milanese.

Come si dice in questi casi: chissà cosa avrebbe fatto dopo? A noi le strade sembrano sempre chiuse, gli artisti invece ne trovano sempre altre, al di là di rotture o continuità, vedono una sorta di infinità, la vedono dell’arte e del loro percorso, la vedono anche dentro ogni loro immagine, la vedono in un certo senso anche nella loro vita, nel loro non interrompere l’opera. Vimercati diceva nell’ultima intervista, e in conversazione: In fondo cos’è la vita se non lavoro? Non ci si meravigli di un’affermazione del genere, lo diceva anche Andy Warhol, che tutti immaginano paradigma del gaudente.

 

Untitled (Rollei), 1996, Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano, (C) Eredi Franco Vimercati

 

E mentre Warhol diceva: “I’ll be your mirror”, sarò il tuo specchio, Vimercati ha detto: “Io sono la lastra”, frase che si può intendere in vari modi, tutti legati tra di loro, a me pare.

Io sono una lastra: io sono come la lastra fotografica, le caratteristiche della lastra si riferiscono anche a me, anch’io sono così; l’analisi del linguaggio è anche autoanalisi, a tutti i livelli; così la zuppiera e i “miei” oggetti stanno al mio posto, sono miei doppi autoritratti che annodano fotografia e me.

Sono io la lastra: non c’è lastra senza di me, non ha senso senza di me, senza le mie scelte, i miei oggetti; e d’altro canto sono io che resto impressionato dalla luce, le immagini si depositano su di me.

Di nuovo, ma diversamente, io sono la lastra: la fotografia ed io, la mia vita, siamo una cosa sola; per questo la sequenza delle immagini raccontano, rappresentano la mia stessa vita, non perché io l’ho voluto, non perché l’ho perseguito, né perché vi ho messo storie mie, ma per se stesse, per le loro identità e differenze. Il lavoro è questo.

Forse Vimercati parlando del lavoro pensava alle sue prime fotografie, quelle delle Langhe, in cui ritraeva persone caratterizzate per il loro mestiere: il falegname, il cuoco, la negoziante, e circondati dai loro oggetti e luoghi. Forse si stava chiedendo cosa veramente avesse voluto ritrarre e quando ci si fa questa domanda, la risposta inevitabilmente è sempre la stessa: se stesso attraverso di loro.

La mostra da Raffaella Cortese è un bel ritratto di Vimercati, una bella sintesi nelle sue tre tappe fondamentali: le Langhe, le zuppiere, gli altri oggetti. Per l’occasione la galleria ha prodotto un piccolo pieghevole con due appassionati testi di Andrea Villani e di Simone Menegoi.

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