Scrittore pubblicitario / Copywriter Majakovskj

7 Dicembre 2017

E per favore, niente pettegolezzi, il defunto non li sopportava, lasciò scritto Majakovskji prima di spararsi al cuore. È il passaggio più celebre del suo biglietto d'addio. 

 

Ne lasciò tuttavia anche un secondo e meno noto, di biglietto, indirizzato ai compagni della RAPP – l'associazione degli scrittori proletari – nel quale saldava il conto nientemeno che con un suo slogan. Dite a Ermilov che è stato uno sbaglio togliere quello slogan: avremmo dovuto bisticciare fino in fondo. Si trattava di una sua headline – oggi sarebbe tale – affissa tra i manifesti di una sua piece e poi ritirata su pressione proprio della RAPP. Attaccava il critico Ermilov, definendolo burocrate.  

 

 

Sì, Majakovskji fu – anche e massicciamente – uno scrittore pubblicitario. Si tratta di creazioni tanto trascurate dalla critica, assenti per esempio dalle Opere pubblicate in otto volumi da Editori Riuniti (1980), quanto cruciali nella sua biografia artistica. Soprattutto perché nella sua opera nulla appare secondario. Roman Jakobson stesso, il quale dopo il suicidio dedicò al poeta un notissimo saggio, affermò "Tutto ciò che è stato scritto da Majakovskij è unitario, indivisibile e imprescindibile".

 

Alla pubblicità arrivò opponendosi alla tradizione. Già all'indomani della rivoluzione d'ottobre rifiutava una concezione imbalsamata di arte, invocandone l'uscita dai templi – dai musei, dalle accademie – perché entrasse a far parte del processo produttivo. Mandate al diavolo una letteratura che viene servita come dessert, scrive. I primi versi della sua Domoj (A casa) recitano: Io mi sento / una fabbrica sovietica, / che produce felicità. / Non voglio / che mi si colga / come un fiorellino nei prati / dopo le grane di un giorno di lavoro.

 

 

Majakovskij disconobbe ogni parentela diretta con il futurismo italiano – neghiamo ogni debito, dichiarò a nome dei futuristi russi commentando la visita di Marinetti a Mosca nel 1914 – e quando nel 1923 ispirò la nascita del Lef, il Fronte di Sinistra delle arti, l'obiettivo è definitivamente chiarito: l'arte è produzione. L'artista è un "tecnico", che "deve conoscere le esigenze di quelli per cui lavora". Come osserva Giovanni Buttavafa (Mondadori, 1977) "si parlava di esigenze e non di gusti (...) non occorrono quadri accademici con nuovi contenuti pseudoproletari ("fiamme e fabbri" invece di "notte e amore"), ma cartelloni pubblicitari". 

 

Quel fervore allora applicato a tutti i linguaggi del moderno, e dunque al design di mobili e vestiti, alle riflessioni su cinema e fotografia, trovava nel linguaggio pubblicitario la sua sintesi migliore, il perfetto snodo tra uomo e produzione. "Tutta l'arte a tutto il popolo!" volle dire dunque soprattutto pubblicità, in forza della sua diffusione e del suo legame con la produzione. L'incontro di Majakovskij con il talento e le idee del grafico Aleksandr Rodchenko fu in questo senso segnato da una profonda affinità elettiva.

 


Anche lui nel '21 aveva dichiarato con toni simili a quelli del poeta "L'arte è finita! Non ha posto nell'apparato umano del lavoro. Lavoro, tecnologia, organizzazione!". Pittore, fotografo, attivo nel cinema, nel teatro, nel design, anche Rodchenko cadrà nella trappola postuma dell'artista definito poliedrico, come se la loro fosse solo una strabordante voglia di fare. In queste figure si realizza invece l'espressività di oggi, quella convergente di chi svaria tra i linguaggi del moderno perché tutti accomunati dalla stessa struttura comunicativa. Rodchenko parlava linguaggio pubblico.

 

Di sicuro egli cercava chi scrivesse buoni testi per le sue impaginazioni, come racconta in un episodio esemplare della sua autobiografia. Rodchenko sta impaginando un brutto testo che gli è stato consegnato e al poeta Volodja, cui capita di leggerlo, scappa una risata. Il grafico lo rimprovera, asserendo che se i buoni poeti non sapevano che ridere della cattiva pubblicità, non vi sarebbe stata mai una buona pubblicità. Il suo sodalizio con Majakovskij intendeva far giustizia della miseria stilistica dell'epoca. Divenimmo "Majakovskij-Rodchenko costruttori pubblicitari". Lavoravamo con entusiasmo. Era la prima vera pubblicità sovietica, una pubblicità che si ribellava alla banalità dei testi, ai fiorellini e alle altre manifestazioni di gusto piccolo-borghese in voga nel periodo della Nep (in Abecedario, Sergio Polano e Pierpaolo Vetta, Electa, 2003).

 

 

A contrasto degli eccessi della Nep – la Nuova Politica Economica con la quale Lenin reintrodusse transitoriamente la proprietà privata tra il '21 e il '29 – i due ad esempio firmarono la comunicazione dei magazzini Mossel'Prom, sorti proprio per controbilanciare la diffusione del commercio privato dell'epoca. In nessun posto se non al Mossel'Prom, dichiarò in forma di slogan il poeta. La loro estetica fu netta, potentemente affermativa, fatta di campiture di colore e testi maiuscoli. Tuttavia, come insegneranno più tardi i maestri dell'adv d'oltreoceano, i due avvertono di dover frequentare oltre all'impatto anche la sorpresa, il gioco, il coinvolgimento. Il loro "salto nel presente" è divertito, non solo energico. 

 

Succhiotti migliori di questi non ce ne sono, non ce ne sono stati mai. Sono pronto a succhiare fino alla vecchiaia, recita per esempio uno dei loro annunci per i prodotti in gomma Rezinostrest. E agli annunci stampa, alle affissioni, ai volantini, alle proiezioni, si aggiungono lavori minuti, persino gli incarti di caramelle: la sola idea di farne un media ci dà l'idea della febbrile attività di quegli anni. È il caso della serie "La Stella dell'Armata Rossa", dedicata alle gesta dell'esercito sovietico, scritta e illustrata da Majakovskij. 1) D'attaccarci a sorpresa / Dinikin ideò / Però il soldato rosso / via lo scaraventò. 2) E Judenic marciò / su Pietrogrado rossa / Ma sulle baionette / ci si bucò le ossa. 3) Ora si tira il fiato / e il nostro militare / se ne ritorna a casa, / si mette a lavorare. (traduzioni italiane di Giovanni Buttafava)

 


Anche i Poster Rosta non sfuggono a questa frenetica gioia produttiva. Per la Rosta – è l'agenzia telegrafica di stato, diventerà la TASS – Majakovskij tra il '19 e il '21 produce un'immensa quantità di affissioni in sequenza, sistemate – raccontava il poeta – in gran numero di finestre e vetrine di negozi vuoti, sulle pareti dei circoli, presso i centri di propaganda organizzati nelle stazioni ferroviarie. Di questi brevi racconti, in neanche tre anni, Majakovskij ne produce un numero stupefacente: circa tremila manifesti e seimila didascalie. Un autentico documento della rivoluzione, per preservare il quale nel 1923 il poeta scriverà un appello: È compito nostro conservare con cura tutti i documenti per un bilancio dell'epoca. (...) nel fuoco della propaganda mutano le parole d'ordine, cambiano i metodi. Spesso ripudiamo l'ieri e accantoniamo quanto lo riguarda. Per la storia della rivoluzione è un grave danno.

 

Ma è in favore della pubblicità tout court, linguaggio da comprendere e far proprio, che spende le parole più chiare e innovative. Nessuna cosa – ancora nel '23 – neppure la più giusta, progredisce senza pubblicità. È questa un'arma che sgomina la concorrenza. Sul piano ufficiale abbiamo accettato la pubblicità (..) Ma si è ancora troppo inesperti. Ecco, davanti a me, un casuale frammento degli annunci pubblicitari sulla Izvestia: "L'azienda comunale di Mosca avvisa..." "La direzione del trust "Fibra" annuncia..." "L'autorità porta a conoscenza..." (...) e così via all'infinito. Quanta burocrazia: avvisa, porta a conoscenza, annuncia! Chi mai ascolterà simili appelli!? La pubblicità deve essere varia, fantasiosa. (...) Non dobbiamo lasciare quest'arma, questa forma di propaganda del commercio, nelle mani del nappista, nelle mani del borghese straniero. Tutto in URSS deve tendere al bene del proletariato. Meditate sulla pubblicità!

 

 

Uno slancio ancora oggi largamente inascoltato, soprattutto quando indica la fantasia comunicativa come strumento capace di produrre democrazia. In effetti, l'attività da copywriter di Majakovskij mantiene tuttora qualcosa di inaudito. "Arte applicata", "lavoro d'occasione", "divertissement": è evidente come le categorie di comodo scricchiolino davanti alla compattezza politica ed estetica di quell'ispirazione, ma d'altra parte difettiamo di strumenti culturali per prendere sul serio quegli slogan. Pare certo che la fantasmagoria della sua attività pubblicitaria abbia anche contribuito alla fama da istrione, in un equivoco straziante che si trascinò fino alla fine, oscurando – scrisse Jakobson – agli occhi del pubblico la profondità lirica, l'allarme delle sue desolazioni, cosicché quando invece del teatrale succo di mirtillo ha visto scorrere sangue autentico, è rimasto perplesso: è incomprensibile! È assurdo!

 

Tuttavia quella concezione di linguaggio pubblico non si estinse. Di fatto, la parabola dei due "costruttori pubblicitari" si spense insieme al poeta, tanto più che il loro successo non era ben visto dalla mediocrità degli altri pubblicitari dell'epoca, ansiosi di recuperare spazio ai loro fiorellini. Ma nel 1935 riemerse, negli Stati Uniti del New Deal, quando Roosevelt creò il Federal Art Project per occupare grafici e cartellonisti poiché, dichiarò, "anche loro sono lavoratori". Risuonarono allora proclami già ascoltati a migliaia di chilometri di distanza: l'arte doveva essere accessibile a tutti, e quella degli artisti veniva considerata un'occupazione al pari di tutte le altre (Elisa Zugno, Bill Magazine 3). Ancora pubblicità al servizio della collettività, dunque: poster su poster dedicati a temi come la sicurezza, le libertà civili, l'educazione e le norme sanitarie furono creati e affissi in scuole, biblioteche, mezzi pubblici, negozi e strade. In sette anni, i manifesti furono due milioni circa, con più di 35.000 soggetti diversi.

 

 

Priva dell'energia lirica del georgiano, ma satura della tragedia sociale della Grande Depressione americana, l'idea aveva trovato nuova applicazione durante un'epocale crisi economica. Il che di per sé basta a renderla nostra contemporanea.

 

Questo testo è la rielaborazione di un intervento letto nel corso del convegno "Ottobre 1917 Idee e simboli di una rivoluzione", tenutosi il 7 novembre 2017 presso la Camera del Lavoro di Milano.

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