Roland Barthes

30 Maggio 2012

Riga, una collana che avvicina ai grandi innovatori del Novecento

 

Riga è nata nel luglio del 1991 senza nessun particolare programma. Volevamo piuttosto fare la rivista «che ci sarebbe piaciuto leggere». Una rivista dedicata al contemporaneo, ad autori e temi che ci sembravano rilevanti nel corso dell’ultimo secolo, ma non solo. Una rivista che conservasse la memoria del passato, e insieme che si protendesse sul futuro.

 

Marco Belpoliti, Elio Grazioli

 


 

Strano destino, quello di Roland Barthes. Fra gli intellettuali più noti e più citati del Novecento, critico militante e pensatore snob, scrittore raffinato e analista minuzioso di riviste di moda, semiologo rigoroso e nemico giurato d’ogni metodologia, entusiasta scopritore delle leggi narratologiche e oracolo della dispersione del senso, caustico mitologo della società di massa e massimo teorico del piacere del testo, omosessuale e riservato cultore del corpo polimorfo, Barthes ha finito per non avere eredi.


In molti si sono accalcati, all’inizio, nell’immaginario studio di un improbabile notaio, nella speranza di un testamento spirituale che un personaggio come lui avrebbe potuto solo irridere. Poi s’è fatto di tutto per incasellarlo entro un genere, una disciplina, una pratica del sapere, una professione della scrittura: anche questa volta senza esiti sensati. Certo, in vita aveva avuto straordinari successi - editoriali, accademici, mediatici -, suscitando inguaribili, patetiche invidie. Ma aveva pure sofferto molto per i numerosi insuccessi: la malattia giovanile gli aveva impedito di terminare gli studi universitari; un maître come Lévi-Strauss s’era rifiutato di fargli da direttore di tesi di dottorato; il vate Lacan non lo volle nel suo lettino d’analista; e per giunta i pamphlet contro di lui (nouvelle imposture fu definito il suo Racine) e le caricature impietose del suo gergo divenuto ormai maniera (che lo descrissero sans peine).


Eppure, o forse proprio per questo, di Roland Barthes si continua molto a parlare, e a scrivere, come alla ricerca tormentosa del senso profondo di un personaggio e di un autore che, fra le mille contraddizioni, aveva avuto quanto meno un’idea fissa: quella di sfuggire dal senso ultimo, di rosicchiare l’istituzione dei significati sociali, di scavalcare le barriere della designazione: l’utopia del grado zero, il brusio sottovoce della lingua, la fascinazione per il neutro.


A trent’anni dalla sua scomparsa (marzo 1980), il nome di Barthes continua a essere comunque evocato: e crediamo sia un bene, in un’era come la nostra, così chiusa in rassicuranti scientismi e fatue polemiche; così assuefatta alla stupidità furba e grossière da non saper più coltivare il gusto sottile per la sfumatura, la piega, l’interstizio, il dettaglio, il non detto, e dunque verso tutto ciò che, inseguendo il silenzio, ritrova la pienezza delle cose, il sapore del sapere. Barthes come antidoto in contumacia: come guida che ci precede per perderci.


Ecco allora questo numero di «Riga» - il trentesimo per celebrare un trentennale - che abbiamo voluto dedicare a Roland Barthes. Provando a tracciare però, in via preliminare, una linea di lettura, un livello di pertinenza, un punto di vista al tempo stesso preciso e inattuale, inclusivo ed esclusivo, selezionante e accogliente: quello
dell’immagine, delle immagini, della visualità. Da cui il chiasma nostalgico che vorrebbe tenere insieme questo fascicolo: Barthes e l’immagine, Immagini di Barthes. Laddove la vulgata post-barthesiana continua un po’ ingenuamente a pensare questo autore come il principale teorico del linguaggio verbale e della scrittura letteraria, a discapito del mondo e della cultura visivi, qui si vuol fare ribaltare la questione: usando il tema dell’immagine per rileggere tutto Barthes.


L’incontro fra Roland Barthes e l’immagine, del resto, non è casuale da nessuno dei due punti di vista. Per Barthes, innanzitutto, che in più momenti e con sempre maggiore insistenza ha fatto dell’immagine il fulcro della sua riflessione di critico e teorico. Per l’immagine, soprattutto, che ha trovato nel lavoro di Barthes più d’una occasione per rivelare il suo portato intellettuale e suoi significati culturali.


Tutto ciò in chiave d’analisi e comprensione del vivere contemporaneo.
Barthes ha sempre avuto molti occhi per l’immagine: teatrale, fotografica, cinematografica, giornalistica, pubblicitaria, mediatica, artistica, letteraria - forse con una sola grande, significativa assenza: quella televisiva. Da critico teatrale, l’immagine scenica è l’interstizio fra il movimento del corpo dell’attore e la staticità della scenografia e del costume. Da sociologo della civiltà di massa, l’immagine mediatica è quella falsamente mitologica delle foto degli attori scattate negli studi Harcourt, ma anche delle riproduzioni di manicaretti nelle
riviste femminili, delle mostre di fotografie artatamente scioccanti, l’immagine di Gide che batte a macchina su un battello discendendo il fiume Congo.

 

Da bachelardiano, è l’immaginario delle sostanze - aria, acqua, fuoco, ma anche schiume, creme, acidi - che s’intreccia al letterario e al mediatico. Da semiologo, è la questione di linguaggio altro e oltre il verbale, che se da una parte non fa che enfatizzarlo, ripeterlo, assestarlo, dall’altra lo tradisce, lo devia, lasciando vagare lo sguardo oltre il significato linguistico ovvio in nome di un’ottusità tanto programmatica quanto pericolosa. Da critico letterario e narratologo, si pone ancora la questione dell’immaginario della scrittura e del racconto, dell’ekfrasis e della pienezza iconica della parola, estetica e no.


C’è poi tutta la problematica della relazione fra l’esperienza fotografica - felicemente statica e passatista - e lo scorrere della pellicola cinematografica - naturalizzante e ideologica, a meno di non bloccare i fotogrammi. Altre figure ancora: nei Fragments, l’immagine è quella dell’altro rispetto all’innamorato in folle soliloquio («l’immagine è ciò da cui sono escluso»); a Cerisy, immagine è la frite esito del discorso, della stereotipizzazione del personaggio, insomma «la mia immagine pubblica». Infine, la pratica silenziosa e solitaria della pittura, o meglio dello schizzo colorato sul foglio bianco, come a cercare quel termine neutro fra scrittura e disegno a cui la società occidentale - non osservando a sufficienza i bambini - sembra essere disinteressata.


Abbiamo provato a dividere questo volume in alcune sezioni di massima: Scritti di e su Barthes, questi ultimi a loro volta distinti in Ricordi e testimonianze, Saggi e studi, Interventi. Fra gli scritti di Barthes, abbiamo trascelto quelli in cui il suo interesse per le varie espressioni visive è più manifesto, usando testi già editi in italiano
(dai Miti d’oggi all’Impero dei segni sino all’Ovvio e l’ottuso), ma anche e soprattutto scritti non ancora tradotti presi sia dalle Oeuvres complètes sia dai corsi postumi al Collège de France (Il Neutro, Come vivere
insieme
, La preparazione del romanzo) sia dalle pagine sparse (Diario di lutto). E vantiamo due testi inediti - Cos’è un francobollo?, L’inconscio messo in scena -, sfuggiti ai curatori francesi delle sue opere, dove la
mitologia e l’analisi iconologica si stringono felicemente con la critica teatrale la psicanalisi. Fra i ricordi Calvino, Damisch, Eco, Arbasino. Fra i saggi Robbe-Grillet, Argan, Sontag, Eco e Pezzini, Marin, Fabbri, Marrone. Gli interventi sono di Zuccarino, Cometa, Consolini, Corrain, Didi-Huberman, Dusi, Panattoni, Ricci. Ma poi tutto s’è sfrangiato e rimesso in discussione. Troverete all’inizio una poesia di Magrelli, una lettera di Bartezzaghi e un testo di Luigi Grazioli. Una galleria di fotografie contemporanee in chiusura: Jean-Louis Garnell e Antonino Costa.

 

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