Che cosa accadrà se Trump vince / L’anima troll dell’America

26 Ottobre 2020

In Il fantasma della libertà di Buñuel, un medico dice al suo paziente: “Lei ha una malattia incurabile”. Il paziente si offende, gli dà uno schiaffo e se ne va. Immaginate che il paziente sia Donald Trump e il dottore sia Anthony Fauci, e avrete un’idea di quello che accadrà se Trump vincerà le elezioni, o se trovasse il modo di vincerle approfittando della mancanza di precise norme costituzionali in caso di elezione contestata, nonché di una Corte Suprema ora saldamente in mano ai conservatori. In realtà le cose andrebbero ancora peggio. Il dottor Fauci si prenderebbe ben più di uno schiaffo (Trump l’ha già definito “un idiota”), e alla popolazione degli Stati Uniti verrebbe detto che avere una malattia incurabile è la cosa migliore che gli possa capitare (“Il Covid è stata una benedizione di Dio”, ha detto Trump di se stesso). La chiave sta in un documento intitolato Great Barrington Declaration, la cui esistenza al di fuori degli addetti ai lavori è emersa il 13 ottobre, in una conversazione tra giornalisti e due funzionari della Casa Bianca.

 

La Great Barrington Declaration è un documento steso da tre docenti di Harvard, Stanford e Oxford. Non è stato approvato da nessuna associazione medica, ma è stato adottato da un certo “Istituto Americano per la Ricerca Economica” situato a Great Barrington, nel Massachusetts. L’istituto in questione è un libertarian think tank, un “centro studi” di elaborazione politica basato sulla dottrina libertaria che ha elevato a dogma assoluto il principio espresso a suo tempo da Henry David Thoreau, “il governo migliore è quello che governa meno”. Poiché la declinazione attuale del Libertarianism è la fede nell’immunità di gregge, la dichiarazione propone che la società debba stare aperta e che il coronavirus vada lasciato libero (beh, i virus sono libertari per natura) di contagiare il maggior numero di persone mentre la sanità pubblica si occupa solo degli anziani. Come lo possa fare non è detto, ma è strano, perché a suo tempo il vicegovernatore del Texas, Dan Patrick, aveva affermato che proprio i vecchi dovevano essere orgogliosi di morire per lasciare l’economia ai giovani. Certo, quando Trump si è ammalato, di lui la sanità pubblica si è presa cura molto bene. Che però questa “benedizione di Dio” possa essere estesa all’intera popolazione è molto dubbio, anche perché quello che i repubblicani aspettano ansiosamente è che la nuova Corte Suprema abolisca alcuni significativi aspetti della riforma sanitaria di Obama, e potrebbe farlo anche subito, in un’udienza prevista per il 10 dicembre.

 

 

Intanto la marcia del Covid prosegue indisturbata. La dottrina dell’immunità di gregge (l’approccio svedese, che non pare abbia funzionato bene) era circolata all’inizio della pandemia, quando si credeva che un’immunità generale per contagio asintomatico sarebbe stata raggiunta presto, anche senza un vaccino. Ma ben pochi ci credevano anche allora. Oggi però ci crede la Casa Bianca. Non ufficialmente, ma di fatto sì. L’approccio dell’amministrazione alla pandemia, indipendentemente dalle esternazioni da baraccone del presidente, ha seguito il principio dell’immunità di gregge. In agosto, Trump ha detto a Fox News: “Una volta raggiunto un certo numero, si usa la parola ‘gregge’, se ne andrà via da sola”. Il 5 ottobre Alex Azar, nuovo ministro della sanità, e il dottor Scott Atlas (radiologo, senza esperienza di malattie infettive, ex commentatore di Fox News, uno degli autori della Dichiarazione e attualmente il più influente consigliere sul coronavirus alla Casa Bianca), hanno affermato che la Dichiarazione coincide esattamente con la posizione del presidente. 

 

Se Trump vincerà le elezioni, dovremo quindi aspettarci che per contrastare la pandemia non farà assolutamente nulla, in attesa che il “numero” dell’immunità di gregge venga raggiunto. Scott Atlas ha affermato che a New York è già stato raggiunto il cinquanta per cento di immunità tra la popolazione. Non c’è un solo medico, o un membro della comunità scientifica, che gli creda. Anthony Fauci e Deborah Birx, coordinatrice della task force contro il coronavirus, gli hanno detto in faccia che non è vero, ma non ha importanza, il consigliere del presidente è lui. E il Partito Repubblicano, che è ormai la più seria minaccia all’esistenza dell’umanità, si è allineato, per lo più in silenzio.

La dottrina è dunque la seguente: i medici devono fare l’impossibile per salvare gli ammalati, spesso in condizioni precarie, rischiose e senza protezioni adeguate, e allo stesso tempo la maggior parte della gente si deve ammalare. Il vaccino sarà certamente disponibile per l’estate, anzi no per settembre, beh, tutt’al più a ottobre, al massimo a novembre, diciamo ai primi di dicembre, per essere sicuri a metà gennaio, a febbraio per non lasciare niente al caso, a marzo perché non si sa mai e ad aprile per giurarci sopra, ma allo stesso tempo i vaccini non serviranno a niente perché una volta raggiunto il “numero” la pandemia se ne andrà da sola.

 

 

Qual è il numero? Non si sa. Attualmente i morti sono più di 220.000. Allo stato attuale della diffusione del virus, potrebbero superare i 400.000 il 20 gennaio, giorno in cui Joe Biden, o di nuovo Trump, si insedieranno alla Casa Bianca (non è una mia supposizione; è il risultato di modelli matematici dell’Institute for Health Metrics and Evaluations). Se Trump verrà rieletto (e anche se la sua rielezione sarà il risultato di manovre post-elettorali indipendenti dal numero dei voti che avrà ricevuto), avrà la conferma che il suo approccio è giusto, e non vedrà motivo di cambiarlo. Dopotutto, perché negare ai suoi concittadini la stessa “benedizione di Dio” che ha ricevuto lui? Il risultato è inimmaginabile. Gli abitanti degli Stati Uniti sono 328 milioni. Per raggiungere la miracolosa immunità di gregge, quale sarebbe la percentuale necessaria di casi, asintomatici o no? Il 50 per cento? Il 60 per cento? È possibile sostenere che 160 milioni di americani si debbano contagiare perché gli altri 160 milioni rimangano sani? Se Trump sarà ancora presidente nel 2021, andrà ripetuta la domanda che su queste colonne avevo già posto in termini iperbolici: quanti milioni di morti saranno necessari perché il mondo si liberi di lui?

 

Ma al momento la domanda è questa: potrebbe davvero essere rieletto? Oggi come oggi, parrebbe di no. Ormai le elezioni americane, nonostante il paese viva in una infinita, sfiancante campagna elettorale ogni giorno che passa, si decidono nelle ultime due settimane. Così è stato nel 2008 e nel 2016. Ora il caso è diverso perché moltissimi hanno già votato, nei seggi già aperti o per posta, e nulla potrà cambiare la loro decisione (posto che ogni voto venga contato, si capisce, e questo è ancora tutto da vedere). Ma Trump ha inaugurato una nuova era, in cui le vecchie regole potrebbero non valere più. I repubblicani sperano nella versione contemporanea di quella che Nixon chiamava “maggioranza silenziosa” e che ora è stata definita la massa dei “trumpiani timidi”, quelli che soffrono di “pregiudizi di desiderabilità sociale”. Per districarci da questo gergo pseudosociologico, basti dire che si tratta di coloro che si vergognano di dire che voteranno per Trump e che se vengono intervistati da un sondaggista non rispondono oppure mentono, sostenendo che voteranno per Biden giusto per non apparire dei paria sociali.

 

 

Esiste questo segmento di popolazione? Robert Cahaly, presidente dell’agenzia di sondaggi Trafalgar Group, non ha dubbi in merito. Cahaly è un repubblicano che nel 2016 ha previsto la vittoria di Trump con un alto margine di accuratezza, e anche adesso non sembra avere dubbi: Trump vincerà. I metodi di sondaggio delle agenzie concorrenti, sostiene in un’intervista su yahoo.news, sono antiquati, lenti, faticosi, e soprattutto non tengono conto del fatto che sui social media molti vivono una doppia vita: hanno la loro pagina Facebook e il loro Twitter dove postano le foto della famiglia e dei cani, e a lato, come una volta si manteneva l’amante, mantengono troll account dove sfogano la loro anima segreta, invidiosa e malvagia, ed è quell’anima, sostiene Cahaly, tutt’altro che uno stupido, che poi va nelle urne elettorali. A me, dice Cahaly, non importa chi sta dietro alla pagina Facebook, ma solo chi sta dietro al troll account, perché è quello l’elettore, non l’altro.

 

Quella di Cahaly è una lezione di psicologia politica che è bene non dimenticare. Non sto dicendo, a dispetto delle speranze di Cahaly, che i trumpiani timidi siano in numero sufficiente a far vincere Trump (guardandomi in giro, di trumpiani timidi ne vedo proprio pochi; i trumpiani anzi mi sembrano molto orgogliosi di essere tali e non si nascondono per niente). Ma è anche vero che Trump ha toccato l’anima troll dell’America come nessuno aveva saputo fare prima di lui, e l’anima troll ha questa costante: che non gliene frega niente di nulla e di nessuno, nemmeno della propria sopravvivenza. L’anima troll è il “me ne frego” di memoria fascista o, per dirlo ancora meglio, quella parte di noi che, nelle immortali parole del maggiordomo Alfred Pennyworth (Michael Caine) nel Cavaliere oscuro, “vuole vedere il mondo bruciare”. 

 

 

Il mondo intero è esposto al contagio dell’anima troll, nessuno è immune, ma gli Stati Uniti sono particolarmente esposti perché credono che la fondazione della nazione americana sia già di per sé una sconfitta del Male. Possono vedere il Male in un nemico esterno, ma non lo vedono in se stessi, non sanno fino a che punto il loro più profondo desiderio, come è già accaduto infinite volte nella storia, può veramente essere quello di vedere il mondo bruciare. Per l’anima troll, che ci siano 220.000 morti o cinque milioni non fa nessuna differenza, e i “trumpiani timidi”, quelli che hanno paura di essere additati come “deplorevoli” (un termine il cui uso imprudente è costato decine di migliaia di voti a Hillary Clinton), non ne hanno affatto il monopolio. La gigantesca rimozione della morte in atto negli stati Uniti non è cominciata con la pandemia, e meriterebbe uno studio a parte, ma ha raggiunto un livello di complicità mediatica a tutti i livelli, compreso quello popolare, che forse non ha precedenti nella storia. Se ne parla sempre, ma è come se stesse accadendo in uno spazio separato dalla vita di chiunque non ne è direttamente colpito.

 

Fuori da casa mia, proprio mentre scrivo, è in corso una movida di studenti del sabato pomeriggio, in spregio a ogni ordinanza cittadina. Ragazzi e ragazze che vanno e vengono in gran numero, in vestiti ancora estivi, molte macchine parcheggiate, musica ad alto volume, nessuno porta una mascherina. Sta accadendo in mezzo mondo, è vero, ma questa non doveva essere la terra del pragmatismo e delle decisioni razionali? Sì, ci sono 220.000 morti e domani ce ne saranno mille o duemila in più, ma che cos’è la morte nell’epoca dei social media? Un tweet dall’ospedale: “Credevo che fosse una bufala”, amen. E se il tuo tweet verrà ritwittato, avrai raggiunto l’immortalità.

 

Tutte le foto sono di Alessandro Carrera.

 

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