Cos'è il lavoro nell'Ubercapitalismo?

27 Novembre 2015

In un articolo apparso a fine ottobre sul magazine online “Medium”, Robin Chase, fondatrice di Zipcar (un noto servizio di car sharing collaborativo angloamericano), racconta come il tempo medio di vita di un'impresa dal 1960 a oggi sia radicalmente calato: dai 61 anni, in media, degli anni Sessanta, ai 15 di oggi. Chase sostiene che questo sia un indicatore, fra i tanti, del processo di cambiamento socio-economico in atto. Innovate or die, questo è il mantra. Qui, l'industrializzazione e l'automazione basate su un'idea centralizzata del lavoro (gerarchica e top-down) oggi lasciano spazio (meglio, cedono il passo) a un'idea di organizzazione del lavoro centralizzata, distribuita e non gerarchica che Chase sintetizza nella definizione Peers Inc.

 

L'idea alla base di Peers Inc. è quella secondo cui la nuova industrializzazione al tempo dell'economia di Internet si basa su un modello di organizzazione del lavoro incentrato su una piattaforma e un core centrale, esiguo, di lavoratori che garantiscono il funzionamento della stessa. Attorno a questi, poi, si estende una larga parte di “lavoratori” che non lavorano direttamente per la piattaforma, ma offrono servizi ai clienti della stessa – quelli che Chase chiama Peers. Uber, ad esempio, funziona cosi: c'è la piattaforma, c'è il core di lavoratori che ne permettono il funzionamento (i dipendenti di Uber nel mondo) e ci sono i Peers: nel caso di Uber, i drivers che mettono a disposizione le auto ai clienti della piattaforma – noi, che dobbiamo andare a Linate, e il taxi costa parecchio, e non lo possiamo chiamare con l'app. Anche Airbnb funziona così: c'è il core di lavoratori che gestisce la piattaforma, ci sono i clienti (noi, che vogliamo andare in vacanza spendendo poco per un uso cucina) e ci sono i Peers: quelli che Airbnb chiama host, quelli che una volta avremmo chiamato affittacamere, che offrono il servizio ai clienti della piattaforma.

 

Certo che, a pensarci bene, Airbnb non possiede case, così come Uber non possiede taxi. Chi sono queste persone, dunque, questi Peers Inc.? Sono lavoratori dipendenti di Uber, o di Airbnb? O forse sono “imprenditori di sé stessi” che utilizzano l'infrastruttura della piattaforma? Chase sostiene che il vecchio modello organizzativo non regga il confronto con il nuovo modello, che è più flessibile e garantisce che l'adagio “innovate or die” penda dalla parte “innovare”, e non da quella “morire”. Quindi si chiede “che cosa succederebbe se tutto (o quasi tutto) il lavoro fosse svolto da freelance, lavoratori indipendenti in piattaforme basate sul modello Peers Inc.”? E si risponde che “sia l'economia, sia il lavoro ne guadagnerebbero in fluidità e reattività. I datori di lavoro potrebbero rispondere più rapidamente ai cambiamenti del mercato. I lavoratori potrebbero diversificare i loro flussi di reddito” (sic, ndr) “e la transizione da industrie morenti e lavori noiosi sarebbe molto più nel loro controllo”. Chase conclude sostenendo che “l'idea di “lavoro per la vita” che è stata il marchio di fabbrica dell'America corporate negli ani '50 è ormai passata da due generazioni. In una economia delle piattaforme genuinamente efficiente, in cui gli asset e il lavoro si orientano verso gli usi più produttivi, i benefit del pacchetto “lavoro per la vita” offerto da compagnie private evaporano”.

 

Tutto ok? Figata? Mah, insomma. Fermiamoci un attimo.

 

Il sociologo Karl Polanyi, nel capolavoro La Grande Trasformazione, datato 1946, raccontava dell'incontro tra la società industriale e l'economia di mercato come di un processo evolutivo – una trasformazione, appunto – che porta da una società all'interno della quale il mercato rappresenta uno strumento e un elemento della stessa, a una dove l'idea di mercato e di società sostanzialmente si sovrappongono. La storia, secondo Polanyi, è un processo che porta dalla società al mercato, o meglio alla creazione di una società di mercato in cui, secondo Polanyi, ogni aspetto della società è assoggettato a logiche di mercato. In particolare, il lavoro: che rappresenta nella visione Polanyiana l'ultima fra quelle che l'autore definisce storicamente come “fictitious commodities”, ovvero merci fittizie, insieme alla terra e al denaro.

 

Secondo Polanyi uno snodo fondamentale di questa evoluzione è dato dalla Legge Speenhamland. In vigore a partire dalla fine del diciottesimo secolo e nella parte iniziale del diciannovesimo in Inghilterra, la legge rappresentava una sorta di “reddito minimo” che aveva l'intento di alleviare il costo sociale dell'alto prezzo del grano alle famiglie attraverso un sistema di proto-welfare che offriva un'aggiunta di reddito a famiglie meno abbienti, in risposta alla diffusa povertà dell'epoca. Questa idea, però, nei fatti si trasformò nella possibilità da parte dei datori di lavoro di continuare a offrire, legalmente e vantaggiosamente, lavoro a basso costo, in quanto di fatto andava a “legalizzare” la riduzione dei salari e quindi a degradare ulteriormente la condizione del lavoratore, soprattutto della terra. La Legge Speenhamland fu smantellata nel 1834, ma rappresenta in qualche modo uno dei prodromi della rivoluzione industriale, ed uno dei tasselli che porteranno alla organizzazione dei lavoratori in forme collettive come risposta alle condizioni degradanti che caratterizzerà, di li a poco, il nuovo modo di produzione.

 

Ora, anche Chase, nel suo articolo sull'economia delle piattaforme, sembra proporre una sorta di nuova Speenhamland che possa ovviare alle distorsioni di questo tipo di mercato del lavoro. La flessibilizzazione totale del lavoro proposta da Chase non è priva di conseguenze e lei stessa, in fine di articolo, dimostra di esserne consapevole. Ma può essere davvero la soluzione? O non rischiamo un'altro caso Speenhamland, implicitamente incentivando la proliferazione delle medesime distorsioni e un disincentivo nei fatti alla fair pay? Secondo alcuni, l'idea di reddito minimo avrebbe molti più effetti positivi che distorsivi. Lo sostengono da anni Andrea Fumagalli e le organizzazioni che combattono aspramente la deriva precaria del lavoro, ponendo però come conditio sine qua non che il reddito minimo sia vincolato anche ad un salario minimo – proprio per evitare le distorsioni di cui sopra. Ma anche alcuni insospettabili, come Paul Mason, direttore economico di Channel 4 e autore del bestseller intitolato Postcapitalism, iniziano a sostenere che forme di reddito minimo che svincolino la sussistenza di base dal reddito da lavoro permetterebbero all'economia delle piattaforme di fiorire addirittura come modo di produzione postcapitalista e più giusto.

 

Non possiamo sapere in che modo un esperimento di reddito minimo possa impattare sui lavoratori indipendenti sull'economia delle piattaforme. Certo, sarebbe comunque bello provare: nella speranza che serva a fermare l'apparentemente irreversibile processo di svalutazione del lavoro e non già a giustificare socialmente l'esistenza del lavoro iperflessibilizzato, quello che la sociologa Gina Neff definisce “di ventura”, dove il rischio di impresa è totalmente o quasi scaricato a valle: sui Peers di cui parla la Chase. Eh sì, perché se Uber non possiede auto, il rischio d'impresa di Uber è finanziario e non materiale: quello materiale è scaricato sul driver, illusorio possessore del mezzo di produzione (in ottica marxiana). Perché il vero mezzo di produzione nell'economia della piattaforma non è più l'auto. È il codice. Per Airbnb è uguale: le case sono dei proprietari, il rischio è il loro. Il mezzo di produzione scivola illusoriamente nel possesso ai Peers, ma non è più quello di prima. I driver di Uber e gli host di Airbnb non sono microimprenditori né lavoratori, ma rentier. Vista così, l'economia delle piattaforme in effetti non è poi così diversa da quella pre-industriale dell'epoca pre-Speenhamland. C'è una cosa in comune. L'organizzazione della produzione è in entrambi i casi quella che possiamo definire come una cottage industry basata sul putting out, l'emissione individuale e non massificata, una volta di merce, ora di servizi. E c'è una nuova “merce fittizia” a regolare questa economia: la reputazione, che ci dice se un host di Airbnb o un driver di Uber sono affidabili.

 

Nell'economia della piattaforme i lavoratori sono i freelance, quelli di Upwork e PeoplePerHour, che ricevono lavoro intermediato da un portale e la loro produttività è valutata da un algoritmo reputazionale. E qui viene il difficile: può bastare il reddito minimo a rendere più giusto ed equo questo nuovo modo di produzione? E soprattutto, può una nuova Speenhamland essere il seme per la riorganizzazione del lavoro indipendente e flessibilizzato in senso collettivo, come molti sostengono, soprattutto nel mondo che studia i freelance? Non sarà così semplice. La cultura dell'ideologia californiana è ormai talmente diffusa che i lavoratori indipendenti tendono sempre più a rifiutare la definizione di “lavoratori”, e ad abbracciare quella di “professionisti” ed “imprenditori”. Per questi lavoratori il sindacato è sconosciuto se non agente avverso. Per riorganizzare il lavoro non basterà il reddito minimo, così come non basterà riunire i lavoratori freelance negli spazi di coworking per restituire loro coscienza collettiva. Servirà di più: servirà la cultura.

 

E allora, chiudiamo questo articolo con la cultura, una analogia che in realtà si traduce in wishful thinking. Il fondatore dei cultural studies, Stuart Hall, sosteneva che il tatcherismo (da cui tutto questo, non dimentichiamolo mai, nei giorni d'oggi è cominciato) è stato in parte originato dal processo di reazione conservatrice a livello del tessuto sociale in risposta ai movimenti subculturali e controculturali della fine degli anni '70 – il punk, in particolare. Oggi che l'economia delle piattaforme rappresenta – per utilizzare un'espressione di un'altra fondatrice dei cultural studies, Angela McRobbie – il “matrimonio” della subcultura e della controcultura con l'economia finanziaria, mi piace pensare che la iperflessibilizzazione del lavoro e la retorica che l'accompagna, in parte visibile anche nelle parole di Chase, nella sua forma proto-critica ma non ancora esplicitamente tale, sia il seme che porti a un contro-movimento culturale che rimetta in discussione il principio dell'outsourcing del rischio sul lavoratore e la finanziarizzazione del mercato del lavoro. In altre parole, è bello pensare che se la Tatcher è stata la conseguenza dei Sex Pistols, magari Jeremy Corbyn è la conseguenza della bolla della “creative class”. Staremo a vedere.

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