L'ultimo saggio del filosofo sud-coreano / Byung-chul Han: sano intrattenimento?

28 Ottobre 2021

Poco tempo fa il filosofo sudcoreano Byung-chul Han è tornato in libreria con Sano intrattenimento, un rapido saggio di 148 pagine edito da Nottetempo.

Il sottotitolo vuole dare qualche indizio in più su com’è fatta l’opera: “Una decostruzione della passione al cuore dell’Occidente”. Non è detto però che intrattenimento e passione siano sinonimi o discendano l’uno dall’altra, e così buona parte delle pagine sono spese nel tentativo di guardare, tessere o supporre ingegnose relazioni e parentele tra i due.

 

Fra tutti i momenti che poteva stabilire per inaugurare l’inizio della civiltà dell’intrattenimento che ora ha raggiunto il suo apice, la scelta di Byung-chul Han è ricaduta sul Venerdì Santo del 1727, a Lipsia, quando per la prima volta fu eseguita in una chiesa la Passione secondo Matteo di Bach, che suscitò non poche polemiche: a molti sembrava che una musica tanto calda e coinvolgente fosse inadatta alla Messa (e al bisogno di raccoglimento dei fedeli). La conseguenza più prosaica fu che a Bach venne abbassato lo stipendio, e in subordine gli fu chiesto che per favore la prossima volta non andasse per le lunghe e componesse qualcosa di meno operistico. Ma questo non è che l’inizio – il gusto di Bach è la prima pietra della frana che rotolando aumenta di volume e si trascina dietro la montagna cambiando per sempre l’aspetto del paesaggio.

 

Tuttavia, nella sua fase d’apertura, il libro procede per gradi: dopo Bach è stato Rossini a incarnare il «dio dell’intrattenimento». Con lui si è scoperto che il potere della musica capace di intrattenere il pubblico è tanto più forte rispetto a quello della musica che fa ragionare, riflettere, o meditare: e – per di più – si è scoperto che questo fatto non vale solo per la musica. L’intrattenimento è magnetico, serve a reindirizzare altrove il mondo. Mentre si scorrono i pareri di Wagner, Nietzsche, Hegel sulla musica rossiniana, montati in una specie di disordinata e colta tavola rotonda, chi legge si accorge che il discorso si sposta altrove, fino a una completa ridefinizione dell’arte.

Per Hegel, in particolare, l’arte sta cambiando forma, perché esprime passionalità e intrattenimento e non è più in grado di cogliere la verità come un tempo sapeva fare. Il suo compito tradizionale deve passare alla filosofia e alla scienza. Da qui in avanti l’arte si libera dalla funzione di pensare e diventa libera di assecondare un bisogno immaginario. E allora ecco che dalla crisalide del discorso emerge la figura del lusso. L’arte non è forse la manifestazione di bisogni accessori, inventati, in esubero? Una spinta che solo in pochi possono permettersi di capire, coloro che non sono più assediati dai bisogni veri. 

 

Come spesso accade nel corso del libro, più che concludersi, la riflessione di Byung-chul Han muove un passo di lato, correndo oltre: il filosofo racconta ora la differenza più grande tra l’arte dell’Occidente e quella orientale. La nostra arte si contrappone al mondo, se ne isola, lo giudica, è sempre uno scarto e una tensione verso ciò che non può compiutamente esistere; l’arte d’Oriente invece abbraccia il quotidiano, è conciliante con la vita, rispecchia un sistema filosofico in cui la dicotomia è bandita in favore dell’armonia. In un sistema simile, l’opera non esprime mai il lusso come utopia o come ornamento, ma piuttosto come compimento del mondo, come sua fioritura. 

 

Tra un capitoletto e l’altro del libro la trattazione procede per analogie e intuizioni progressive, spesso centripete, così la tesi del filosofo che è stata esposta rapidamente all’inizio torna a vivere soltanto nelle ultime pagine: l’intrattenimento è diventato una modalità dell’essere, la più diffusa in circolazione. È un tratto liberatorio dei libri dedicati al pensiero che se ne possa rivelare il finale senza rimproveri, dunque eccolo qui di seguito. «Per essere, per appartenere al mondo, è necessario intrattenere. Solo ciò che intrattiene è reale o vero. La distinzione tra realtà vera e finzionale, alla quale Luhmann è ancora aggrappato, non è più rilevante, giacché la realtà stessa sembra effetto dell’intrattenimento».

 

Nelle ultime frasi di Byung-chul Han e in poche altre pagine sparse del suo breve saggio si nasconde una riflessione interessante: la modalità di default dell’intrattenimento fa sì che la distanza tra fatti e rappresentazioni si accorci, al punto che la distinzione tra i due diventa indifferente. E la distinzione tra fiction e non fiction anche. È sempre lo stesso il movimento che manipola la realtà allo scopo di renderla maggiormente godibile, narrabile e appassionante. Questo accade con crescente disinvoltura ovunque, nella letteratura come nella vita, in una commistione sempre più ovvia e quotidiana tra quello che è e ciò che occorre per piegare la realtà alla forma dell’intrattenimento.

 

 

Sono piccole invenzioni, omissioni, iperboli, intrusioni. Sono azioni che chi parla o scrive compie centinaia di volte al giorno. Ma il punto è che basta un granello di invenzione nella realtà per fare prevalere la finzione, mentre non è vero il contrario: la descrizione verosimile di un gatto in un romanzo fantasy non basta per riportare la realtà finzionale al rango di quella vera. E allora, una volta che ci siamo abituati a praticare la mescolanza, la nostra vita viene letteralmente invasa dalla fiction. O dall’intrattenimento.

 

Per Byung-chul Han la nostra costante frequentazione delle zone di mezzo tra la letteratura e la vita, tra la passione e l’intrattenimento, tra l’invenzione e la cronaca è un’abitudine sorta con la diffusione della radio e della televisione, prima non aveva mai attecchito così in profondità.

Per costeggiare il fenomeno, il filosofo si rifà a due categorie che Heidegger ha contrapposto in Essere e tempo: le cose materiali da una parte e le cose mediali dall’altra. Gli oggetti materiali sono quelli che esistono nel mondo perché ci sono nati, mentre gli oggetti mediali sono quelli che si trovano nel mondo perché qualcuno ce li ha messi, li ha prodotti (possiamo riconoscerli perché sono increati e inorganici).

«Le cose autentiche, le cose di un mondo che cresce possiedono una determinata pesantezza, una determinata materialità opposta alla medialità». E poi, poco più avanti, l’esempio del medium televisione: «La tele-visione dis-allontana proprio “l’ampiezza di tutte le cose che crescono”».

 

Qui Byung-chul Han ed Heidegger duettano per dire che se passiamo svariate ore della nostra vita davanti a film o videogiochi, alla radio, o persino nel centro storico di una grande città, avremo trascorso buona parte delle giornate in un ambiente virtuale, mediale, un ecosistema in cui gli unici oggetti materiali che ci circondano sono gli altri esseri umani e qualche siepe – sempre che ce ne siano.

Le altre cose che vediamo non sono radicate, non crescono: una casa e una strada non sono nate e non muoiono, così come un programma radiofonico o un talkshow televisivo sono prodotti refrattari all’invecchiamento. Se li guardiamo dopo decine di anni, certo, questi prodotti appaiono datati o anacronistici, ma la loro incapacità di morire li rende impossibilitati a crescere.

Heidegger, che in Essere e tempo non parla mai ovviamente della televisione, altrove dice però che la televisione è una efficace «macchina di fabbricazione della realtà» perché l’immagine in movimento dà la più nitida impressione di realtà vera che esista, eppure non le corrisponde.

Davanti a un film, i nostri sensi sono come drogati, confusi, ma per quanto possano assomigliarsi, osservare la rappresentazione di un albero o la sua ripresa cinematografica non equivale a circondarsi di alberi veri.

 

Byung-chul Han sembra suggerire che nella cultura dell’intrattenimento passeggiare nei boschi o frequentare altri esseri umani sia riposante e rassicurante, proprio perché è un’esperienza tutto sommato rara. Se da un lato la civiltà dell’intrattenimento è sorta e si affermata per rendere ogni azione più godibile e piacevole, dall’altra ha reso l’esistenza piena di oggetti inautentici. Dunque, si è disposti a pagare molto per raggiungere posti dove il telefono non prende, passeggiare in sperdute foreste, impastare la farina con l’acqua, compiere azioni tanto prosaiche o semplici da essere «pre-iconiche», impermeabili a qualsiasi fiction. E così, per quanto non le si dia mai un nome, è come se una vena di malinconia e di nostalgia verso il mondo delle cose materiali attraversasse il libro intero. Lo percorre un’allerta. Byung-chul Han non si limita a descrivere il mondo com’è, intanto sospira. 

 

Eppure, nonostante gli oggetti mediali stiano sovrappopolando la nostra vita, il capitolo che dà il nome al libro allude a un intrattenimento sano. Sono pagine in cui Byung-chul Han setaccia Kant in cerca della sua visione di che cosa è passionario e godibile. Kant nega ogni funzione cognitiva al divertimento. Ridendo non si impara niente, e non si impara niente perché si tratta di un gioco di natura corporea. È il corpo che in qualche sua misteriosa ansa favorisce, asseconda o fa esplodere il riso. Quando ci divertiamo, quando scoppiamo a ridere è perché qualcosa non corrisponde, va storto, è nonsense, e allora si verifica una vibrazione. Persino per il serissimo Kant questo stato di vibrazione ha un che di prodigioso e benefico: ci disincaglia quanto una corsa o uno stretching. «Il buon intrattenimento è sano come l’arte del massaggio orientale» che rimette in modo il corpo. È una scossa di energia, perfettamente libera e acefala. Finalmente animale. L’intrattenimento «promuove la vita organica in tutto il corpo». Alla fine, ridendo, l’uomo si fa beffe della deviazione confermando la norma, mette in ridicolo l’evento eccezionale che scatena in lui la vibrazione. Dopotutto la risata è un gesto conservativo. Byung-chul Han si spinge fino a immaginare che Kant si sia imposto un certo rigore morale per tenere a bada la sua indole profonda di homo delectionis – un’espressione che nel libro ricorre spesso.

 

Sia come sia questo saggio può essere inteso come un ritratto diffuso e cubista dell’intrattenimento, e in tal senso sì, è una decostruzione: di pennellata in pennellata, ciò che impariamo a conoscere dell’intrattenimento è che si tratta di una categoria talmente instabile da contagiare e ibridare qualsiasi forma vi entri in contatto, compresa questo libro. 

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