10 marzo 1950 - 9 aprile 2021 / Elena Pulcini, cura e giustizia

27 Aprile 2021

“La pandemia ci ha fermati, un fermarsi che può dimostrarsi produttivo e fecondo. La pandemia è un effetto della crisi ecologica, ci invoca in questo agire dissennato e predatorio, in questa hỳbris onnipotente, e ci riconsegna alla necessità del limite”. A fine gennaio, in uno degli incontri che radio tre ha dedicato al tema della cura, Elena Pulcini intrecciava parole sorelle e concetti fratelli per descrivere l’esperienza globale di vulnerabilità e offuscamento, per sottolineare, ancora una volta, la sua idea di cura come disposizione affettiva e pratica, capacità quotidiana dell’impegno. 

Una tematica che, insieme a quelle delle passioni e del dono, ha nutrito un percorso intellettuale di grande rilievo, anche sulla scena internazionale, condiviso nello scambio con allievi e colleghi, punteggiato da testi seguiti da un ampio pubblico di lettori, mosso da un’idea di spiritualità legata a una visione della comunità e a un sentimento religioso vicino in modo non formale all’insegnamento cristiano. Nella prospettiva di un mondo nuovo che azzarda l’utopico dove pratiche collettive e solidali non si danno senza un’esposizione personale. 

 

Il nove di aprile il Covid si è portato via Elena Pulcini. Era nata a L’Aquila il 10 marzo 1950. Tutti quelli che hanno potuto hanno partecipato alla cerimonia funebre in suo ricordo che si è svolta a Firenze nella chiesa di San Miniato al Monte. E già in tanti torniamo alle riflessioni che la filosofa aveva sviluppato e, nell’ultimo anno, incessantemente puntualizzato – cfr. le risposte alle cinque domande sullo scenario futuro in doppiozero del 13 maggio 2020

Per la studiosa la cura è una parola matassa dalla quale sfilare temi che intersecano discipline diverse per perseguire una rifondazione dell’idea di soggetto. In un superamento di gerarchie valoriali, in una prospettiva che si propone di rovesciare il tradizionale dualismo tra ragione e passione, le emozioni diventano il vettore di un orientamento capace di trasformare l’isolamento sovrano dell’homo oeconomicus, la cui logica riduzionista ha messo in pericolo non solo l’ambiente naturale, ma la vita stessa dell’essere umano.

 

“Perché ci prendiamo cura anche quando non siamo legati da legami personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente?” sono gli interrogativi che aprono Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale (Bollati Boringhieri, 2020), il suo testo più recente che sviluppa e approfondisce le considerazioni di La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri, 2009). Elena Pulcini sceglie un punto di vista originale, quello di una psicologia morale, per “affrontare il problema delle motivazioni affettive che stanno a fondamento sia della domanda di giustizia sia della disposizione alla cura”. Il distinguere le molteplici declinazioni della vita emotiva la conduce a sottolineare la potenzialità etica delle emozioni che qui usa spesso come sinonimo di passioni. È un’etica della cura che, sovvertendo il codice egemonico degli ultimi secoli, mette al centro la vulnerabilità della condizione umana, indissolubile da una ferita che nutre anche le passioni, sia quelle positive che negative. In particolare all’invidia ha dedicato diversi testi, tra cui Invidia. La passione triste (il Mulino, 2011).

 

L’affettività della cura riparte dal pensiero delle donne, dalla costanza e continuità della pratica femminile: una forma di vita che può diventare scelta di vita. (Una sintesi molto efficace di questo aspetto decisivo del suo pensiero è Soggette alla cura o soggetti di cura? in Dare corpo prendere corpo: donne che creano, rivista di psicologia analitica, n. 87, 2013). 

 

 

Questa cura, per non essere svalutata, come storicamente è avvenuto, richiede una teoria capace di integrare i diritti formali, libertà e uguaglianza, con il bisogno di un soggetto, sempre diverso, scosso dalla paura e dall’incertezza. Una condizione segnata inesorabilmente dal peso emotivo della dipendenza e dall’insormontabile del corpo. Nella quale non siamo soli. E che non si ferma, però, per l’autrice, alla metafora materna, all’immagine archetipica di un grande e di un piccolo. L’attenzione alla postura del soggetto proteso verso qualcosa che si trova fuori di sé, l’immagine di un soggetto inclinato, nella prospettiva di Adriana Cavarero nel suo Inclinazioni. Critica della rettitudine (Cortina, 2014). Per Elena Pulcini il “quadro” madre-figlio “rischia di congelare le due parti della relazione nei ruoli fissi del soggetto (inclinato) e dell’altro (vulnerabile).

 

In Tra cura e giustizia propone una rappresentazione dove “la cura non è altruismo, ma un’attività cooperativa in cui gli interessi del caregiver e del care receiver  sono interdipendenti”. Difficile non pensare al modo in cui il virus ha inciso nel rapporto tra medico e paziente – anche chi cura può essere contagiato –, l’esigenza della protezione in simultanea di se stessi e dell’altro. Un comportamento imposto, eppure capace di prefigurare la “nuova etica” delineata da Elena Pulcini. Dove diventa costitutiva la relazione tra cura e giustizia – e anche qui difficile non pensare al criterio di scelta della precedenza nelle vaccinazioni. L’autrice cerca di indicare una via per superare l’unilateralità di pubblico e privato, di un criterio astratto (maschile) e di un criterio attento al bisogno (femminile). Il paradigma razionalistico, che immagina i soggetti tutti uguali, liberi e indipendenti, non riconosce la realtà del bisogno. Il soggetto unico oggi non si basta più, rischia di autodistruggersi per gli effetti divenuti disfunzionali del modello liberale e contrattualistico. 

È una pratica sociale che può rendere possibile l’integrazione di “un valore rimosso o comunque marginalizzato”, come la cura, con una giustizia destituita dalla sua posizione dominante. Il punto di congiunzione tra le due etiche sta tutto e ancora nel concetto di vulnerabilità: condiviso dai filosofi dell’alterità (Lèvinas, Ricoeur, Jonas) e da voci anche molto diverse del pensiero femminista, “sembra assumere un ruolo fondativo nel proporre percorsi alternativi ai paradigmi mainstream della modernità, opponendo a un’ontologia individualista un’ontologia relazionale”.

 

Interessante la vicinanza con diverse riflessioni della psicoanalisi contemporanea che invitano a un pensiero critico sulla condizione dell’individuo, mettendoci di fronte a una situazione di pericolo per l’Io-mondo, a partire dal concetto freudiano di Hilflosigkeit, l’esperienza originaria di impotenza che richiede l’intervento di un altro “essere prossimo”. Christopher Bollas parla di soggetticidio, arriva a prefigurare il rischio della scomparsa della specie, Anna Ferruta parla di una cura per “la sopravvivenza e lo sviluppo del vivente”.

Elena Pulcini non condanna l’individualismo, e non parla di narcisismo, ma mette in guardia dal dilagare della passione dell’egoismo illimitato, dal desiderio “immunitario”, illusorio in un mondo globalizzato. Che può diventare “una società decente” se riuscirà a essere “civile” progredendo attraverso la cooperazione di un “soggetto emozionale che approda alla metamorfosi in quanto si lascia decentrare dalla dinamica relazionale delle passioni”. Allora non a caso, pur ripercorrendo la storia novecentesca del concetto di empatia fino ai suoi approdi più attuali come quello dei neuroni specchio, l’autrice fa un passo indietro.

 

Torna alla simpatia, che presuppone la reciprocità e il benessere dell’altro, a partire dal pensiero illuminista di Hume e Smith e dalle scienze biologiche ed etologiche. Siamo così più vicini all’idea di sentimento morale, indispensabile per la rifondazione di una teoria della soggettività etica, che chiede azione e impegno per essere capaci di “coerenza tra la nostra vita emotiva e la nostra vita activa”. Per appartenere a una comunità.

È la responsabilità che tutti abbiamo nei confronti dell’altro inteso, in questa paideia delle emozioni, come l’Altro distante nello spazio (ovvio i migranti, ma non solo, tutti quelli che verrebbe da definire “loro”), e nel tempo, il non-ancora delle generazioni future. Per Elena Pulcini è una promessa: per affrontare l’incertezza del futuro, per renderlo possibile.

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