Lettere dai manicomi / Artaud: sono nato dal mio dolore

9 Gennaio 2022

Due nuovi libri ci riportano alla corrosiva e non dimenticabile voce di Antonin Artaud: L’ombelico dei limbi. Seguito dalla Corrispondenza con Jacques Rivière (I fiocchi, MC edizioni, Milano, 2021), e Sono nato dal mio dolore. Lettere dai manicomi 1937-1946 (Edizioni Medusa, Milano, 2021) entrambi curati da Pasquale di Palmo. Artaud nasce a Marsiglia nel 1896. Inventore di teorie teatrali (Il teatro e il suo doppio), viaggiatore (Messico e Irlanda), oppiomane, scrittore di prose surrealiste (L’arte e la morte, Il pesanervi), romanzi visionari (Eliogabalo), poesie (Poesie della crudeltà), attore teatrale e cinematografico (La passione di Giovanna d’Arco, La leggenda di Liliom, L’opera da tre soldi, Napoléon, La coquille et le clergyman). Teorico del teatro, partecipa al gruppo surrealista dal 1924 al 1926. È amico di Jean Paulhan, André Breton, Jean Dubuffet, Alberto Giacometti, André Masson. Tra i libri principali tradotti in italiano: Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Il teatro e il suo doppio, L’ombelico dei limbi, Il pesanervi, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Artaud le mômo. Van Gogh: il suicidato dalla società, Per farla finita con il giudizio di Dio, Succubi e supplizi. Abusi di droghe e sintomi deliranti causano il suo internamento in diverse strutture psichiatriche per quasi dieci anni. Nel 1946 è dimesso dalla clinica psichiatrica di Rodez, dove, nonostante i numerosi e violenti elettroshock, non smette di scrivere una mole impressionante di lettere, taccuini e disegni, raccolti poi negli ultimi volumi delle «Opere complete». Realizza, alla fine della sua vita, il testo teatrale Pour en finir avec le jugement de Dieu. Muore di cancro nel 1948 a Ivry-sur-la-Seine.  

 

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L’ombelico dei limbi. Seguito dalla Corrispondenza con Jacques Rivière

 

L’ombelico dei limbi (1925) inizia così: «Laddove altri propongono opere io pretendo solo di svelare il mio spirito. La vita è un bruciare di domande. Non riesco a concepire un’opera staccata dalla vita. Non amo la creazione distaccata. Neppure riesco a concepire uno spirito staccato a me stesso. Ogni mia opera, ogni parte di me, ogni fioritura ghiacciata mi cola addosso…». In queste brevi righe deflagra, senza schermi protettivi, il “progetto Artaud”: registrare in tutte le forme che la scrittura gli consente i suoi “frammenti di un giornale d’inferno”. Nessuna delle sue opere è mai un testo indifferente alle emozioni subite dal corpo. Il progetto è proprio mantenere sempre questa nuda, scorticata sincerità: un colpo di sonda vibrato a squassare il fondo del proprio essere. Le prose raccolte nell’Ombelico dei limbi sono surreali e disgreganti frammenti poetici (ricordiamo fra gli altri Paul gli uccelli, Descrizione di uno stato fisico, Lo schizzo di sangue, Poeta nero). La reinvenzione della vita di Paolo Uccello rimanda a una delle più intense “vite immaginarie” di Marcel Schwob e commuove per la sua inconsueta potenza.

 

La sua lingua, intimamente surrealista, clinicamente folle, è sovraccarica di energie disgreganti. A questo gruppo di prose segue la celebre Corrispondenza con Jacques Rivère. La storia è nota: Rivière si rifiuta di pubblicare, sulla "Nouvelle Revue Française"da lui diretta, alcune poesie di Artaud. Nel mese di settembre del 1924, invece, appare (col titolo Une correspondance) il suo breve, caustico epistolario con Rivière. Composto da undici lettere, di cui sei a firma di Artaud (allora ventisettenne) e cinque a firma di Rivière, scritte dal 1° maggio 1923 all'8 giugno 1924, Une correspondance non riguarda il dibattito sulla pubblicabilità di quel certo gruppo di poesie ma il nodo essenziale del pensiero artaudiano: scrivere oltre il semplice testo, senza vietarsi di mostrare le emozioni più profonde. Nel momento in cui lo scontro con Rivière assume dimensione pubblica, l'anomalia del caso Artaud prende forma. Le poesie, inizialmente ritenute da Rivière impubblicabili, lo diventano se accompagnate dalle lettere dell’epistolario che testimonia la sua oltranza di scrittore. Lo stesso Artaud, anni dopo (nel 1946), lo confermerà: «Jacques Rivière rifiutò le mie poesie ma non le lettere con le quali le distruggevo».

 

Uno dei momenti centrali della Correspondance è la lettera di Artaud del 29 gennaio 1924: «Quella dispersione nelle mie poesie, quei vizi di forma, quella continua flessione del pensiero, non bisogna attribuirli a mancanza d’esercizio o di padronanza degli strumenti da me posseduti, o a mancanza di sviluppo intellettuale, ma ad uno sprofondamento centrale dell’anima, una specie di erosione, essenziale e fugace al tempo stesso, del pensiero… C’è dunque qualcosa che distrugge il mio pensiero, qualcosa che, se pur non mi impedisce di essere quello che potrei essere, mi lascia, per così dire, in sospeso. Qualcosa che furtivamente mi toglie le parole che ho trovato». Il “breve romanzo in lettere”, che Artaud e Rivière intrattengono, sottolinea, oltre alla potenza drammaturgica dell’epistolografo Artaud, una scelta fondamentale per la scrittura contemporanea: nessuna bellezza testuale è estranea al laboratorio del processo creativo da cui scaturisce. Appunti, frammenti, lettere, disegni, sono visti da Artaud come un palinsesto drammatico destinato a trivellare le profondità della psiche, a non lasciare dietro il suo turbinio un’opera definita.

 

Cercare il proprio intimo volto, la propria identità esplosa in un vortice di segni e di parole, è il progetto di Artaud. Sprofondato da anni nella sua personale dissociazione psichica, avvelenato e paralizzato dal mondo, il poeta si difende con l’esorcismo ossessivo della scrittura. Esige un «corpo senza organi», immune dalle leggi biologiche, un corpo sottratto ai cicli banali del corpo vivente. Ciò che si dibatte nelle lettere a Rivière non è tanto la velleità artistica di un giovane scrittore che tenta un maldestro tentativo di autopromozione ma la concreta capacità di mostrare all’altro la sua minacciosa e squilibrante individualità integrale, che cambierà senso alle forme della scrittura. Dopo Artaud, chi scrive si sente più libero di mettere se stesso, come una bomba inesplosa, al centro del foglio bianco. Forse è questo, nella sua sfuggente e ustionante realtà, il “progetto Artaud”.

 

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Sono nato dal mio dolore. Lettere dai manicomi 1937-1946

 

Bernard Noël, in Artaud e Paule, scrive: «Ho visto di persona le pile di quei quaderni, ne ho avuto un certo numero tra le mani. Immaginate dei quaderni di scuola dalle grosse righe regolari e la carta fragile e grigiastra (quella del tempo di guerra). Sono tutti coperti da una scrittura spezzata, aguzza, irregolare, ancora scossa da una trance. In certi casi, si sovrappongono il testo a matita e uno a penna, aggiungendo il palinsesto alla grafia già difficile. I quaderni di Artaud sono quaderni, ma una volta aperti sono il corpo di Artaud, trasfuso lì dal fenomeno di un’immediatezza di scrittura che fa di loro il deposito di quanto oserei definire la sua carne verbale» (AP, p. 6.). La “carne verbale” di Artaud è quella interminabile scrittura, nata dal suo dolore, graffita nei quaderni di cui si prenderà cura Paule Thévenin, e che nessun libro, in nessuna lingua, potrebbe mai contenere interamente.

 

Il poeta attraversa la sua psicosi senza mai rinunciare a voler essere visto e giudicato come scrittore. In una lettera a Jean Paulhan del 1927 scrive: «È come se si concepisse la conoscenza attraverso il vuoto, una specie di grido abbassato che al posto di salire scende. Il mio spirito è aperto tramite il ventre, ed è attraverso il basso che entra un’oscura e intraducibile scienza, piena di sotterranee maree, di edifici concavi, di un’agitazione congelata. Che non si prenda ciò come mere immagini. Questa vorrebbe essere la forma di un’abominevole saggezza».

Dal corpus molteplice delle lettere, scritte spesso in forma di preghiere, suppliche, invettive, invocazioni, Pasquale di Palmo raccoglie queste “Lettere dai manicomi” con affettuosa attenzione, e non per la prima volta (citerei, fra le diverse pubblicazioni da lui curate, Lettere del grande monarca, stampato dalle Edizioni dell’Obliquo). Sempre posseduto da una trance verbale, Artaud si lamenta, impreca, esorta, maledice. Inventa una logica visionaria che trasforma il suo corpo torturato dagli elettroshock in parola gridata, squassata, espulsa sul foglio. In uno dei quaderni, pubblicato in facsimile da Gallimard, si vede con chiarezza la sua scrittura che gratta, taglia, erode la carta, come un’ustione verbale che intacca il supporto stesso del foglio. Artaud non teme affatto il caos: lo mostra e lo accetta. Gli parla faccia a faccia, con un linguaggio smembrato che se ne fa specchio, trapassando la lingua francese come un coltello acuminato.

 

Cerca nel destino di altri artisti folli, da Lautréamont a Van Gogh, la sua stessa carica eversiva. Produce invettive, soliloqui-confessioni, pamphlet teorici, opere aperte e irrisolte. Fa del suo corpo straziato dalle violenze istituzionali il sismografo di una violenta fame di libertà. I deliri di Artaud sono genealogie dell’anima, auto-ricreazioni, assalti frontali contro la tirannia della famiglia e delle strutture di potere. Lo scrittore vuole che «il corpo parli altrove un’altra lingua di corpo». Rappresenta la propria psicosi cercando quello che è il suo “soffio vitale”, contro l’asfissia delle norme.

Da dove scaturisce la psicosi artaudiana? Il suo perenne “stato di rivolta”? Le ipotesi, anche le più verosimili, non ci aiuterebbero a capire. Artaud non vuole ripari al dolore assoluto, e collettivo, dell’essere-nel-mondo. «La luce di questo mondo è falsa» scrive a Colette Thomas. Il dolore diventa carne verbale, delirio, grido che si oppone ai codici costituiti, irrequietezza biologica. Ogni opera definita è per lui un sepolcro da cui fuggire, una morte da eludere. Occorre andare oltre. Spingere più in là il limite. La sua scrittura è da un lato salvezza, perché negli anni della reclusione solo scrivendo e disegnando può restare in vita, dall’altro denuncia, perché il poeta si sente vittima designata di una lotta dell’uomo solo contro l’umanità che lo fraintende e lo distrugge: verità assoluta che, nel suo mondo psicotico, applica a se stesso e ai suoi ideali compagni di strada – da Baudelaire a Nerval a Van Gogh.

 


Vittima sacrificale di un mondo ottuso che misconosce la forza e la bellezza dell’arte, l’artista è un eroe titanico coartato dalle leggi di un reale che sa solo emettere sentenze di morte contro le magie della poesia. Espulso dal surrealismo perché giudicato da Breton e da Eluard, con meschine motivazioni personalistiche, “eretico”, Artaud cova in solitudine il suo personale “progetto”: distrugge il mondo per come è stato volgarmente creato e lo sostituisce con un antimondo puro e potente – esasperato soliloquio di un’opera mai codificata in quanto “opera” e mai terminabile, «perché la logica anatomica dell’uomo moderno è non aver mai potuto vivere, né pensare di vivere, se non da invasato». Scrive a proposito Bernard Noël: «Artaud è un grande devastato che, guardandosi bene dal voler uscire dalla sua devastazione, fa di questa la propria lingua. È, dice di essere, colui che parla il linguaggio del suo incendio (AP. p. 8)».

 

Nelle “Lettere dal manicomio” si torce fino allo spasimo un atto di accusa interminabile, sempre scagliato contro un presunto colpevole. Avere un corpo significa anche com-prenderne i limiti, accettarne la frontiera spaziale e temporale, riconoscere lo spazio dell’altro. Ma la materia verbale di Artaud non è permeabile, né disponibile. Lo spazio dell’altro non esiste. Nessuna frontiera concreta lo persuade. Non vuole accontentarsi di uno spazio-tempo comune; al contrario, suggerisce l’idea di un al di là del corpo che contesta le norme della vita collettiva, perché «non si può guarire la vita». Di Artaud, prigioniero di un corpo che sente suppliziato, avvelenato, perseguitato, ridotto a fantasma, precocemente e paurosamente invecchiato, è celebre una foto che lo vede ritratto di schiena, seduto su una panchina, la matita stretta sulle vertebre, nel tentativo di lenire il dolore delle fratture causate dagli elettroshock. La leggenda vuole che lo scrittore, seduto in qualche caffè, tirasse fuori quaderno e matita e cominciasse, digrignando i denti e gridando, a riempire di segni l’ennesimo foglio, in mezzo all’allarmato stupore dei camerieri e dei clienti. La vittima psicotica di stregonerie operate dalla polizia e dalla classe borghese è e vuole restare lo scrivente che testimonia, con forsennato orgoglio, di essere il capro espiatorio della società bigotta e ottusa che “suicida” i suoi poeti.

 

Ribadisce, nel suo Van Gogh: le suicidé de la societé: «...aveva ragione Van Gogh, si può vivere per l’infinito, soddisfarsi solo d’infinito, c’è abbastanza infinito sulla terra e nelle sfere per saziare mille grandi genî, e se Van Gogh non è riuscito ad appagare il desiderio di irradiarne l’intera sua vita, è perché la società glielo ha vietato. Apertamente e consciamente vietato. Ci sono stati un giorno gli esecutori di Van Gogh, come ci sono stati quelli di Gérard de Nerval, di Baudelaire, di Edgar Allan Poe e di Lautréamont (VS, p. 46)».

Cito dalle lettere tradotte da Di Palmo: «Al dottor Jacques de Latrémolière, 23 marzo 1943. Caro dottore e amico, so che è stato ammalato e che molto ha sofferto, non tanto per un male fisico quanto per un altro male che è un po’ lo stesso che mi tortura qui ma che ha in tutti i casi la medesima causa e io non posso parlargliene in una semplice lettera, occorrerrebbe una lunga conversazione fuori di qui e un incontro da uomo a uomo e tra amici, riferendosi questo male allo scandalo relativo all’orribile storia di cui sono vittima e che lei conosce poiché nel segreto della sua anima e della sua coscienza lei ne ha orribilmente sofferto (LDM, p. 127)». E qui riporto una diagnosi del dottor Gaston Ferdière: «Delirio cronico estremamente florido; assilli per la magia; la sua personalità è duplice, ecc.; idee di persecuzione con segnalati periodi di reazione violenta. Da trattenere (LDM, p. 125)». Non ha torto Artaud quando ribadisce, questa volta in versi: «Verrà il giorno in cui potrò scrivere per intero ciò che penso / nella lingua che da sempre non smetto di perfezionare / la lingua che nasce da me attraverso il mio dolore».

 

La sua opera vive fra silenzio e delirio – in quello spazio in cui tradire il silenzio è necessario per non essere succubi del delirio e così mostrarlo fieramente, come un’arma. Osserva Schelling: «Qual è la base dello spirito umano, nel senso che noi diamo alla parola "base"? Risposta: ciò che è privo di intelletto. L'essenza più profonda dello spirito umano è dunque la follia. La follia non nasce ma viene fuori quando ciò che è non-essente, privo d'intelletto, si attualizza e diventa essente. La base dell'intelletto è dunque la follia. Per questo la follia è un elemento necessario, che però non deve assolutamente venire alla ribalta, né assolutamente essere attualizzato. Quello che noi chiamiamo intelletto, quando è intelletto vero, vivente, attivo, non è propriamente altro che follia regolata (FR, p. 137)». Ma di nessuna “follia regolata” si fa paladino Artaud. La sua voce esplode fra le maglie di ogni pensiero logico. «Non separo il mio pensiero dalla mia vita. Rifaccio, per ogni vibrazione della mia lingua, i percorsi del mio pensiero nella mia carne (LGM, p. 17)». Le letture speculative e filosofiche del “pianeta Artaud” non sono significative. Come scrive Di Palmo: «Niente di più lontano dal pensiero di Artaud, che si riprometteva di parlare della vita reale, anche se in un contesto spesso cifrato ed ermetico, dove le incongruità sono a volte fin troppo evidenti (LGM, p. 17)».

 

Le lettere sono, per il poeta, strumenti di apertura verso l'altro, e anche di scontro, se l’altro si nega, non risponde, si sottrae. L’altro a cui scrive o è la proiezione di un fantasma privato o un essere reale contro il quale insorgere reclamando attenzione, inscenando la ripetuta tragedia del proprio furore delirante. Lacan, che nel 1938 ebbe occasione di visitarlo nella Clinica Sainte-Anne, scrisse di lui: «Artaud è stabilizzato, vivrà fino ad ottant’anni ma non scriverà più una sola riga». La scrittura “interminabile” dell’ultimo Artaud sconfessa la diagnosi di Lacan ed è, nel secondo Novecento, un punto di frattura nel concetto stesso di “opera” letteraria. La sua scrittura-urlo, scheggiando il senso comune della lingua, segue una poetica intransigente, che sconvolge il concetto tradizionale di opera letteraria con le sue “colate verbali” – esplosioni di linguaggio sofferte come segni di uno strazio somatopsichico che verrà meno solo nell’ultimo giorno di vita. Il dolore autentico della follia si trasforma, per combustione emotiva, in una forsennata e ininterrotta scrittura, che elabora fino allo spasimo il di-segno di sé. Un’opera d’arte pensata, all’interno della follia, da uno scrittore che qualsiasi diagnosi psichiatrica definirebbe “malato mentale”, non è mai “finita” realmente.

 

Lo svelano con chiarezza i quaderni di Artaud decifrati da Paule Thévenin fra il 1948 e il 1993: fitti di stereotipie, deliri, disegni, lettere, poesie, lamentazioni, sono il palinsesto che lo scrittore Artaud, negli anni postmanicomiali, si guarda bene dal non scrivere. Arrivando a riempire fino a tre o quattro quaderni al giorno, trasgredisce ogni codice di “opera finita” e filologicamente corretta, orientandoci verso l’impensabilità, l’inesauribilità, il monstrum di un disegno-scrittura che mappa il mondo visibile e quello invisibile, scagliandoci senza speranze nel vuoto: «...bisogna bruciare adesso le cose e le idee che noi abbiamo. / Perché cosa me ne faccio della libertà e della sua idea? / Bruciare non le cose, / ma le idee / bruciare la cosa che si fa idea / e il cervello che fa le idee. / È l’esistenza di un cervello preso a prestito che ha prodotto le categorie delle cose (RP, p. 37)». Bruciare tutte le idee, essere emozione nuova che capovolge e rovescia l’intero mondo, appartiene di diritto al “progetto-Artaud”. Il poeta concepisce la scrittura-segno come ossessivo diagramma di una trance emotiva: nessuna mente dirige e domina il corpo, è il corpo a farsi mente invasata, pur mantenendo intatto uno spazio di osservazione del proprio caos. Scrive, nei Cahiers de Rodez: «i miei disegni non sono disegni ma documenti, bisogna guardarli e comprendere che cosa c'è dentro».

 

Libri consultati

Antonin Artaud, Van Gogh: il suicidato dalla società, Adelphi, Milano, 1988 (VS).

Antonin Artaud, Lettere del Grande Monarca, Edizioni l’Obliquo, Brescia, 2003 (LGM).

Antonin Artaud, Rivolta contro la poesia, Edizioni l’Obliquo, Brescia, 2007 (RP).

Antonin Artaud, L’ombelico dei limbi. Seguito dalla Corrispondenza con Jacques Rivière, I fiocchi, MC edizioni, Milano, 2021 (OL).

Antonin Artaud, Sono nato dal mio dolore. Lettere dai manicomi 1937-1946, Edizioni Medusa, Milano, 2021 (LDM).

Bernard Noël, Artaud e Paule, Joker, Novi Ligure, a cura di Lucetta Frisa e Marco Dotti, 2005 (AP).

Friedrich Schelling, Filosofia della rivelazione, Bompiani, Milano, 2016 (FR).

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