Un biglietto nostro

15 Ottobre 2012

Traslocare significa sbudellare la propria casa e mostrare nella pubblica via le proprie viscere: un orrore. Un’endoscopia della propria vita materiale a cui gli altri assistono. Vedono le tue scelte stilistiche in fatto di mobilia, sanno delle tue fatiche economiche che non ti hanno concesso di comprare un’ottima lavatrice o un armadio più grande; per non dire della quadreria irrimediabilmente modesta, in termini artistici s’intende. Un orrore. Ebbene in questo orrore mi è successo – e questo è il versante miracolistico di un trasloco – di ritrovare il vecchissimo biglietto di un concerto: Palasport – Bologna 31 marzo 1973 – ore 21,30 TRAFFIC - gradinata L.1.500 n.796. Un tagliandino rosa che, oltre alle scarne informazioni su riportate, non ha altro. Del tutto simile a quello che un tempo usavano nelle “pesche” della parrocchia, madre e figlia con il numerino su entrambe, e basta.

 

No, niente biscottini proustiani, l’istantaneo scatenamento emotivo della mia personale memoria rimanga a me, a poco servirebbe raccontarlo – come non oso pensarlo - a chi non è me. Per chi comunque volesse sapere tutto di quel concerto non ha che da cliccare qui. Ma al di là delle naturali implicazioni interiori, ciò che mi ha colpito nel rinvenire quel bigliettino è stata proprio la sua natura di veicolo elementare di informazioni. In quel poverissimo specchio di carta ci sono solo le indispensabili coordinate spazio-temporali dell’evento. Si legga la cronaca di quel concerto per avere un’idea abbastanza precisa di quali vette potesse raggiungere l’approssimazione organizzativa, la ressa umana, le intersecazioni tra temperie culturali provenienti dal mondo tramite un importante fenomeno musicale e quelle sociali portate dai ragazzi italiani lì convenuti, tante migliaia di individui per cui vivere era come un’istanza culturale incessante, per i quali ogni atto doveva in qualche modo corrispondere a precise significazioni. In un concerto di un grande gruppo rock c’era esibita tutto il campionario. E chi c’era era felice, addirittura fiero di esserci. In uno scarto grandissimo quel pezzettino di carta rosa, che ora, quarant’anni dopo, trasporta altro, allora conteneva tutto l’essenziale. Possederlo era la licenza a partecipare a un essenziale atto di comunicazione sociale. Quel niente ammetteva a un “corpo” di cose socialmente complesso, plurimo e per molti versi esplosivo: anche in quegli eventi si maturavano gli azzardi storici che di lì a pochissimo sarebbero scoppiati in tutta Italia. Bastava avere un tagliandino rosa da millecinquecento lire (circa 70 centesimi di euro, lo dico per chi non ha ancora compiuto vent’anni…).

 

Osserviamo uno dei moderni ticket dei concerti di oggi: nomi e date, categoria della posizione e numero di sedile, ma soprattutto società organizzatrici, enti finanziatori, immagini pubblicitarie di sponsor privati, filigrane contro le falsificazioni, social network tramite cui seguire l’esibizione, codice QR per lo smartphone. Una enorme complessità condensata in un foglietto non più necessariamente fatto di carta. Un vero e costosissimo “documento” che ti implementa nell’evento, nel quale ogni cosa è pensata con precisione fredda affinché tutto funzioni al millimetro, affinché i mastodontici allestimenti scenici, gli impianti di amplificazione e gli schermi enormi siano perfetti, e la qualità di luci e suoni totale. Come non pensare che i nostri entusiasmi non siano, al di là di noi, accuratamente analizzati e conseguentemente costruiti passo passo fino all’artificiosa hybris conclusiva dello spettacolo? Mai, mai, oggi, uno del gruppo di musicisti si permetterebbe di svenire sulle percussioni (toccò a Rebop Kwaku Baah che accompagnava Winwood e Capaldi a Bologna nel ‘73) e farsi portare fuori di peso per poi tornare allegro come una pasqua al suo posto, che tanto anche questo fa parte dell’happening, di quel caldo mish-mash umano a cui si accedeva con un pezzettino di carta.

 

Dietro all’antico tagliandino rosa c’era il mio viaggio di duecento chilometri dal Veneto a Bologna, con una piccola macchina senza air-bag e cinture di sicurezza, la stagione era buona e non serviva il climatizzatore, che comunque non c’era. Eravamo in cinque per economizzare al massimo e si ascoltava musica con le audiocassette le quali, per altro, erano già una tecnologia abbastanza avanzata dato che solo un anno prima avevo registrato clandestinamente con un Geloso a bobine un concerto dei Genesis - con tanto di Phil Collins e Peter Gabriel lì a due metri da me…- giunti miracolosamente nella provincia veneta. Dimenticavo: noi ragazzi ci facevamo completo carico della nostra giornata giacché i genitori sapevano solo a mala pena del fatto che andavamo a un concerto a Bologna, niente sms per avvisare su orari di ritorno ecc. ecc. Arrivavamo e avevamo in cambio un pezzetto di carta poverissimo, di una semplicità disarmante ma naturale: in fondo quel biglietto perché avrebbe dovuto essere “di più”? Le nostre esistenze erano “gestite” egregiamente da noi stessi che provvedevamo a fissare tempi e modi per gli spostamenti, i pernottamenti e i pasti; i posti a sedere si procuravano semplicemente arrivando prima, molto prima, c’era tutto il tempo per ridere e scherzare, di fumare in santa pace e anche di leggere. Di chi e come avesse organizzato l’evento non ci importava assolutamente niente, noi avevamo bisogno di Mr. Fantasy e di John Barleycorn e di nient’altro. La complessità delle nostre esistenze ci sembrava in mano nostra, noi governavamo i nostri percorsi individuali. È così/non è così: inutile aprire grandi temi, la sensazione di libertà che si aveva era enorme e di questo intendo parlare.

 

In un moderno ticket quel tipo di comportamenti vivi di un tempo sarebbero in qualche modo plastificati, sarebbero contenuti, previsti e ordinati, tutto sarebbe tecnicamente ineccepibile, io non dovrei fare altro che pagare e lasciarmi andare negli studiati confort del “vincere facile”. Oggi si va a un concerto con i posti prenotati, con servizi d’ordine da paura, le immagini che lo accompagnano sono ultra-pensate da fior di progettisti della comunicazione, la discografia dei miei beniamini ce l’ho completa a disposizione in tasca, insomma la vita ci è resa molto più semplice, più comoda.

 

La vivacità della vita, con la sua complessità, un tempo non era minimamente rappresentata dall’umile biglietto che serviva per assistere a un grande concerto: la sua semplicità era al servizio della nostra complessità. Oggi per rendermi la vita facile c’è un sofisticatissimo ticket: la semplificazione della vita, cioè la sua standardizzazione o, se si preferisce, serializzazione, è condensata nella sua elevata complessità. È come se la complessità della vita fosse confluita in quel biglietto. È in qualche misura una forma di delega che noi attuiamo, quasi che non ci andasse più di “sbatterci” per raggiungere un risultato alto. E poi si parla di giovani demotivati e svogliati e regrediti e sperduti, sommersi da un fiume di tecnologia destinata a incrementare questo gioco pericoloso alla deresponsabilizzazione.

 

C’è una dimensione corporea che la tecnologia ci porta via, una sorta di artigianato sul quotidiano che tutti noi sappiamo produrre se messi davanti a uno scopo che vogliamo raggiungere, ma non lo pratichiamo perché c’è un prêt-à-porter ormai endemico che inibisce la nostra abilità.

 

Meglio quando si stava peggio? No, no, ma è meglio se riusciamo presto a individuare strategie per stare meglio. Forse abbiamo bisogno di un biglietto nuovo, migliore o quanto meno nostro; qualcosa che, ritrovandolo quarant’anni dopo, ci faccia di nuovo viaggiare.

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