Immagini di pensiero / Walter Benjamin. Šuvalkin di Kafka

23 Agosto 2016

Si narra che Potemkin soffrisse di depressioni ricorrenti a intervalli più o meno regolari, durante le quali nessuno gli si poteva avvicinare e l’accesso alla sua camera era severamente vietato. A corte non si parlava mai di questa malattia, soprattutto perché si sapeva che ogni accenno era sgradito all’imperatrice Caterina. Una di queste depressioni del cancelliere durò particolarmente a lungo. Ne risultarono seri inconvenienti; negli uffici si accumulavano gli atti che era impossibile sbrigare senza la firma di Potemkin, e di cui la zarina chiedeva la decisione. Gli alti funzionari non sapevano che cosa fare. In questo frangente il piccolo, insignificante scrivano Šuvalkin capitò per caso nelle camere del palazzo ministeriale, dove i consiglieri erano riuniti come al solito a piangere e lamentarsi. “Che cosa accade, Eccellenze? In che posso servire le vostre Eccellenze?”, s’informò lo zelante Šuvalkin.

 

Gli spiegarono il caso, rammaricandosi di non potersi giovare dei suoi servigi. “Se è soltanto questo, signori, rispose Šuvalkin, date a me gli atti, ve ne prego”. I consiglieri, che non avevano nulla da perdere, cedettero alla sua richiesta, e Šuvalkin, col fascio degli atti sotto il braccio, si diresse, attraverso gallerie e corridoi, alla volta della camera da letto di Potemkin. Senza bussare, senza neppure fermarsi, abbassò la maniglia. La stanza non era chiusa. Nella penombra Potemkin era seduto sul letto a rosicchiarsi le unghie, in una vestaglia consunta. Šuvalkin si avvicinò alla scrivania, immerse la penna nell’inchiostro e, senza dir motto, la mise in mano a Potemkin, prendendo a caso una pratica e posandola sulle sue ginocchia. Dato uno sguardo assente all’intruso, Potemkin eseguì come in sogno la firma; poi un’altra e poi tutte quante.

 

Quando ebbe in mano l’ultima, Šuvalkin si allontanò senza cerimonie, come era venuto, con il suo dossier sotto il braccio. Sollevando gli atti in gesto di trionfo, entrò nell’anticamera. I consiglieri gli si precipitarono incontro strappandogli di mano le carte. Si chinarono su di esse trattenendo il respiro; nessuno disse una parola; rimasero come impietriti. Di nuovo Šuvalkin si avvicinò, di nuovo si informò con zelo della causa della loro costernazione. Allora anche i suoi occhi caddero sulla firma. Un atto dopo l’altro era firmato: Šuvalkin, Šuvalkin, Šuvalkin… 

Questa storia è come una staffetta che precorre di due secoli l’opera di Kafka. L’enigma che vi si addensa è quello stesso di Kafka. 

 

(‘Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte’, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 261-262.)

 

Ph Francesco Jodice. 

 

Walter Benjamin apre il saggio su Kafka con un breve racconto che si ispira a una leggenda della Russia imperiale del tardo Settecento. Nonostante le immagini dipinte dalla narrazione siano naturalmente predisposte all’analogia con l’opera kafkiana, vale la pena di chiedersi se la sua portata simbolica, all’interno dell’interpretazione benjaminiana, vada oltre l’essere semplice mezzo attraverso il quale immergersi, fin da subito, nel mondo di Kafka. La reazione immediata del lettore, infatti, è quella di identificare perfettamente i personaggi kafkiani con quelli del racconto: è Benjamin stesso a darci tale indicazione solo poche righe più avanti, quando dice “Šuvalkin […] è il K. di Kafka”. In effetti, il legame di somiglianza dei due luoghi letterari è innegabile, malgrado la distanza di tempo. L’angoscia che si incarna nel senso di dovere, l’ansia e il peso della colpa dovuti alla paralisi che interrompe la regolarità del lavoro, i funzionari che recitano meccanicamente la loro parte, come nel teatro naturale e, infine, il gesto che si impone sulla risoluzione: la gloria dell’inconscio che si abbatte sull’astuzia della ragione, l’intelletto del burocrate che dissipa, ancora una volta, la vita. 

 

Tuttavia, l’ouverture del saggio può anche essere slegata dall’analogia diretta con l’opera di Kafka ed essere metaforicamente intesa come l’intima descrizione con cui Benjamin vuole rappresentare se stesso all’interno dell’atto interpretativo. Šuvalkin non è il K. di Kafka, ma il Benjamin che si ingegna a far luce sulla via meno ovvia di interpretazione dell’oscura selva entro cui si sta addentrando. Perché allora fallisce? Perché la critica non è mai qualcosa di definitivo ed è sempre questione di prospettiva. 

 

Fuor di metafora, l’interpretazione forse più calzante è che Benjamin abbia scelto questo racconto per dar voce a Kafka, senza usare le parole di Kafka. Uno dei motivi che permea l’intero saggio, infatti, è quello della preistoria, del tempo ciclico ed eterno che avvolge l’opera dell’autore praghese. Se le somiglianze tra il racconto russo e il mondo di Kafka sono tanto forti è perché entrambi, pur essendo lontani storicamente, si riconoscono nella stessa visione del tempo.

 

Benjamin ci dice che i personaggi di Kafka risvegliano forze preistoriche e proprio nell’incipit è contenuto l’indizio per risolvere il mistero: la preistoria è una dimensione che rimane latente all’interno di ogni momento del divenire storico, è il mondo mitico che preesiste a Kafka e al quale egli dà voce, nel tentativo disperato di trovare una via d’uscita da esso. Non c’è differenza tra Šuvalkin e K., perché essi cercano allo stesso modo la salvezza nel gesto e nell’inventiva, dei quali la preistoria si fa carceriera impietosa. Tuttavia, come ricorda Benjamin, ci sono personaggi di Kafka che sono in grado di evadere dal mondo del mito, dall’illusorietà del progresso: gli studenti che reiterano senza tregua la loro fatica, che consiste in quel “nulla che rende servibile il qualcosa”. Con il racconto iniziale Benjamin vuole dirci che l’intraprendenza di Šuvalkin è la stessa con cui Joseph K. si strugge nell’interminabile ricerca di una via di uscita dalla sua pena. È la stessa, perché la voce di Kafka non è la voce del suo tempo, bensì l’eco della preistoria, il cui movimento circolare è scandito dalla lancetta di un orologi–o guasto che segna sempre la stessa ora: “Šuvalkin, Šuvalkin, Šuvalkin…”. 

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