Lo 007 dell’arte italiana rivissuto dal Teatro dell’Elce / Il sogno di Rodolfo Siviero

30 Giugno 2016

Si è tolto le scarpe, si è sdraiato sul letto a baldacchino e ha chiuso gli occhi. Stefano Parigi ha fatto ciò che è scritto nel copione: Siviero si è addormentato. Eppure a me sembra di sentirne ancora il filo dei pensieri, mentre il pubblico esce ascoltando il respiro pacificato del fantasma che ci guidato ne Il sogno di Rodolfo Siviero, un percorso all’interno del Museo Casa Rodolfo Siviero nella palazzina di Giuseppe Poggi sul Lungarno Serristori, a Firenze, e un viaggio spettacolo che si dispiega nel soffio della memoria e delle riflessioni dello 007 dell’arte. Gli sono valsi quel soprannome i metodi rocamboleschi e avventurosi con i quali ha salvato gran parte del patrimonio artistico italiano durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, il fascino personale di uomo colto e raffinato quanto spregiudicato e concreto, i molti successi con le donne.

 

Da sinistra Rodolfo Siviero, Lucius Clay, Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi e Guido Gonella ritratti accanto alla danae di Tiziano, biblioteca casa Siviero. 

 

Il regista e autore del testo, Marco Di Costanzo, ha condensato in questa visita teatrale il distillato di un attento lavoro di ricerca sulle principali pubblicazioni dedicate a Siviero e, in particolare, sui suoi diari inediti: ne è nato un ritratto cui Stefano Parigi dà la leggerezza, la passione e il tormento di un incontro galante e furente con la Storia. La produzione è del Teatro dell’Elce (con il sostegno della Regione Toscana), che dal 2006 unisce la ricerca espressiva sul lavoro dell’attore con la volontà di rivolgersi a un pubblico il più possibile vasto e differenziato, per un teatro popolare di qualità.

Appena l’ultimo spettatore varca la soglia della camera sento il letto cigolare: Parigi si è tirato su. Ritorno sui miei passi che mi stavano portando fuori insieme agli altri, mi avvicino e poi, dopo un suo cenno, gli siedo accanto. Il filo dei pensieri che sentivo si riannoda ora alle parole di Rodolfo Siviero. Nella penombra del baldacchino l’attore, il personaggio, lo spettatore, il testimone, sono facce della stessa maschera.

 

“Non è passato giorno della mia vita che io non abbia agognato la morte! E Chiunque sia che regge le sorti dell’umano trapasso, m’ha giocato un bel tiro! Fui insonne in vita e ora che dovrei godermi il sonno eterno mi si condanna a stare sveglio per l’eternità! Il Roipnol non funziona contro i decreti eterni. Non dormo dal 1983”.

 

Siviero, è lei?

“I cenci sono i miei, e Chiunque sia il Fattore della mia condanna all’insonnia eterna, ha un grande senso dell’umorismo: per contrappasso mi ritrovo nel corpo robusto di quand’ero poco più che trentenne”.

 

Per la precisione, compirà 32 anni il 24 dicembre 1943. Oggi, da calendario, è l’8 settembre.

“La mia aurora! Da tempo sto seguendo la bava che l’appetito tedesco lascia sui nostri monumenti. Molti soprintendenti d’Italia, qui a Firenze il Poggi, stanno mettendo a riparo le opere d’arte in previsione dei bombardamenti alleati e in qualche modo cercano di aggirare le richieste più o meno esplicite dei nazisti per portare le opere in Germania”.

 

Scusi, ma non era fascista?

“Nel ’37 son finito a fare l’informatore del Sim, il servizio segreto fascista. D’altra parte m’hanno chiuso tutte le porte in faccia: non mi hanno pubblicato il mio libro di poesia La selva oscura se non a mie spese, non mi hanno dato un lavoro come lettore d’italiano, alla visita militare mi hanno riformato e neanche in uno di quei giornali ridicoli dell’epoca m’hanno voluto dare uno straccio di posto! Mi hanno spedito in missione in Germania, a Erfurt, a fare l’antisemita per il Sim. Non faceva per me, e infatti piuttosto che rimanere lì mi son fatto espellere dalla Germania come ‘persona non gradita’. In realtà qualcuno m’aveva gradito, qualcuna per meglio dire: la Elizabeth, la Mimì, l’Amalia, la Natasha, la Ilona, la Marta...”

 

Rodolfo Siviero. 

 

Con Rodolfo Valentino non ha in comune solo il nome...

“Per una natura grande è impossibile la vita nell’esplicazione mediocre. D’altra parte che deve fare un giovane che non trova lavoro? Cerchi, cerchi, cerchi, alla fine prendi quello che ti capita e vai a fare il commesso, il cameriere o l’informatore. Quando ritroverò un’altra Chicita? Che cretino son stato a farmela scappare! La sudamericana è tutta un’altra storia, non le solite ragazze internazionali uguali a quelle pietanze scipite d’albergo che vanno bene per tutti i gusti! Avrei dovuto seguirla, la Chicita, partire in guerra, soldato di ventura a servizio del Paraguay contro la Bolivia. Ma dovevo finire di pubblicare La selva oscura”.

 

La sua prima opera ‘salvata’ dall’oblio, diciamo così. Torniamo al suo 8 settembre.

“All’epoca sapevo che le visite di Göring e di Hitler in Italia avevano dato il via all’esportazione illegale di opere già dal ’39. Nel ’41 il famoso Discobolo era partito per la Germania ‘per motivi amministrativi’ con la compiacenza del governo fascista. Göring amava circondarsi, a casa sua, di capolavori da contemplare in solitudine. Pensate che si fece installare la Danae del Tiziano, trafugata dal museo di Capodimonte, sul soffitto soprastante il suo letto. Hitler invece accumulava capolavori in previsione della costruzione del più grande museo del mondo a Linz. Prima i tedeschi avevano cominciato a impadronirsi delle proprietà degli ebrei e quello fu facile, grazie alle famigerate leggi razziali. Poi avevano cominciato ad acquisire le opere dall’Italia dando alle transazioni una parvenza di legalità: inoltravano richieste formali alle autorità, imbastivano regolari compravendite con privati e antiquari. Peccato che i venditori non fossero nella posizione di trattare e che le autorità, invece di difendere il patrimonio nazionale, pur di ingraziarsi l’alleato tedesco chiudessero un occhio, spesso anche due. Dopo l’armistizio, caduta ogni cautela, i tedeschi si organizzarono da par loro per una rapina in grande stile”. 

 

Creano un apposito servizio militare per la ‘protezione’ delle opere d’arte: il Kunstschutz. 

“Le opere, secondo i nazisti, dovevano essere protette dai bombardamenti dei barbari alleati che stavano risalendo la Penisola. In nome di questa ‘protezione’, trasferirono verso nord, in Tirolo, Austria e Germania, centinaia di migliaia di capolavori. Firenze, ovviamente, è stata la città più colpita dal Kunstschutz. Da tutta Italia partirono su autocarri scalcinati o sui treni speciali di Göring – ed è un miracolo se non andarono perduti durante il viaggio – i capolavori del Museo degli Uffizi, le opere del museo di Capodimonte, i Tiziano, i Beato Angelico, i Tintoretto, i Pollaiolo, e perfino campane, pale d’altare, intere biblioteche... I ‘protettori’ del Kunstschutz erano gli stessi che avevano dato alle fiamme per puro spregio l’archivio storico di Napoli e le navi romane del lago di Nemi. Gli stessi che dichiararono Firenze ‘città aperta’ e che poi fecero saltare in aria i ponti prima di battere in ritirata”.

 

Tra le file degli Alleati, invece, nascono i Monuments Men, su cui è stato fatto anche un film due anni fa scritto, diretto e interpretato da George Clooney.

“Gli inglesi e gli americani hanno costituito un loro servizio per la protezione delle opere d’arte. Hanno certo bisogno di persone in grado, se non di fermare, di seguire il tragitto delle opere trafugate. Io ho una mia rete di informatori. I contatti con gli alleati ce li ho. La stoffa per giocare questo gioco da protagonista non mi manca. Se non si può evitare che le portino via, le opere, bisognerà almeno capire dove vanno a finire per recuperarle alla fine della guerra...”

 

Rodolfo Siviero con un quadro di Pontormo. 

 

È la grande missione che aspettava.

“Durante la guerra ho messo in piedi un servizio clandestino per raccogliere informazioni sulle opere trafugate: abbiamo annotato quando erano state rimosse, dove erano state portate, chi erano i legittimi proprietari, eccetera. Le informazioni erano raccolte in foglietti sparsi nascosti nei libri della mia biblioteca. Proprio questa casa in cui ci troviamo, allora proprietà di Giorgio Castelfranco, era il nostro quartier generale. Ho agito a strettissimo contatto con il comando alleato e dopo la Liberazione il nuovo governo italiano mi ha dato l’incarico di gestire la delegazione italiana in Germania per la restituzione delle opere. Ho riportato a casa il Discobolo, nonostante le lacrime delle ragazze tedesche, le opere degli Uffizi e tante, tante altre. Negli anni successivi ho continuato il lavoro e ho riportato in Italia non solo molte altre opere trafugate durante la guerra, ma anche capolavori sottratti alla nazione dalla mafia, da delinquenti comuni o da collezionisti senza scrupoli. Ogni volta che ho recuperato un’opera grande, l’ho tenuta un po’ con me, per compagnia, prima di riconsegnarla al legittimo proprietario. Ho provveduto spesso al restauro a mie spese, qualche volta ho cambiato la cornice, se non era degna. Quando capitava qualche opera insigne nella mia solitudine, la vita e la casa mi si riempivano, mi sembrava di ritornare a essere un signore del Rinascimento”.

 

Un artista delle opere di altri. Lei, da scrittore mancato qual era, è diventato pittore e scultore affermato attraverso i capolavori dei maestri dell’arte di tutti i tempi: ha riscattato la sua vita dall’ombra.

“Voi penserete che una volta combattuto in guerra, uno possa affrontare qualsiasi battaglia. E invece... Il fatto è che dopo la guerra un nemico ancora più temibile dei nazisti si presentò sul campo di battaglia, un’idra lernea, un mostro informe e velenoso: la burocrazia italiana. Grazie alla Democrazia Cristiana, prima, e a tutta la classe politica in seguito, il mostro è cresciuto sempre di più, si è mangiato lo Stato, la democrazia, le speranze di chi aveva combattuto per un’Italia migliore”.

 

Sta dicendo che è pentito di ciò che ha fatto?

Se avessimo potuto impiegare le energie che abbiamo sprecato in Italia per recuperare i quadri in Germania, credo che avremmo riportato anche la porta del Brandeburgo. Ma che ci si poteva aspettare dall’era dei sacrestani? Il sacrestano è assurto alle massime cariche dello Stato italiano con il nome di democratico cristiano. In effetti nulla ha di democratico, è soltanto un servo di baronie più grosse con scarsa possibilità di intendere e di volere. La duttilità dell’origine lo spinge a incistarsi in un bossolo vivendo e ingrassando dei suoi stessi escrementi. Questi sono i Fanfani, i Moro, i Rumor, i Bartolomei...”.

 

La camera del letto a baldacchino del museo casa Rodolfo Siviero. 

 

L’Accademia dei Lincei, però, le ha tributato un premio nel ’61. Enrico Molè, allora senatore e presidente del comitato degli artisti e degli scrittori italiani, le ha scritto: “della gioia, della soddisfazione, della riconoscenza della nostra gente ti do atto e ti ringrazio”.

“In quarant’anni di servizio, al mio Ufficio recuperi non è mai stata data una collocazione definiva. Il mio lavoro non è mai stato inquadrato: ho servito lo Stato, ma non sono mai stato assunto con un contratto regolare, con il risultato che in vecchiaia non mi hanno neanche riconosciuto una piccola pensione. Mi hanno dato un appartamento lurido a Roma, davanti a una specie di discarica, e uno scantinato umido nelle fondamenta di Palazzo Venezia come ufficio. Spesso non mi hanno concesso neanche il rimborso per le spese sostenute nelle operazioni di recupero. Questa è la riconoscenza della burocrazia italiana per quarant’anni di lavoro al servizio dello Stato. La cosa buffa è che ai tedeschi che le avevano rubate, le opere piacevano; anche agli alleati che ce le hanno rese piacevano: agli italiani che ora le hanno non gliene frega niente. Anzi, il nostro lavoro ha disturbato i ricchi mercanti d’arte, in molti casi non privi di responsabilità per la sparizione dei capolavori, e ha disturbato i politici che, accodandosi agli americani, desideravano avere buoni rapporti con la Germania del dopoguerra. E così, per poter continuare a servire l’Italia, ho dovuto ogni due anni lottare perché l’Ufficio recuperi non venisse chiuso dal ministro di turno. Ogni due anni cadevo nella totale incertezza sul mio futuro. Una condizione precaria che oggigiorno non accetterebbe neanche uno sguattero, un lavapiatti o un attore”.

 

Stefano Parigi ph Stefano Cantini. 

 

Le istituzioni l’hanno abbandonata, come è successo, dopo di lei, a tanti altri servitori dello Stato.

“Volevate vedere com’era fatto un eroe della patria, lo 007 dell’arte? Vi siete figurata la mia vita scoppiettante, piena di amori, in continua lotta con le ingiustizie e a servizio dell’Italia? E allora sappiate che servire l’Italia m’ha ridotto un uomo solo e triste, sempre a meditare sulla pochezza della mia vita e del mio destino senza significato. Senza amore. La mia vita non ha avuto niente a che vedere con quello che avrei dovuto essere. Ci credete? Ma la vita è tutta una commedia! Che idea vi siete fatti? Sono stato fascista o partigiano? Ladro o eroe? Avaro o generoso? Volete sapere la verità? L’uomo è così imprevedibile che il suo aspetto è come la scorza di un frutto che dentro ha un sapore completamente diverso dall’odore della buccia”.

 

Ciò che è vero è inconoscibile se non dietro una maschera?

 “Accettare l’illusione è preferibile alla realtà, la realtà porta al suicidio. V’ho detto che ho combattuto il fascismo, ma certo non posso negare di aver sempre pensato che Mussolini fosse un grand’uomo... Ho lottato da intransigente contro l’ingiustizia dei capolavori sottratti ai popoli che li hanno prodotti, ma allo stesso tempo ho dovuto vivere di piccoli rimedi e traffici d’arte. Mi sono scagliato contro la burocrazia italiana, ma in quale altro Stato che fosse civile e organizzato un Ufficio come il mio avrebbe potuto esistere?”

 

Il suo ultimo atto è stato la disposizione testamentaria che ha legato alla Regione Toscana questa sua casa affinché diventasse un museo. I reperti etruschi, i busti romani, le statue lignee tre e quattrocentesche, i dipinti su fondo oro, rinascimentali e barocchi, i bronzetti, le terrecotte, i De Chirico, Manzù, Soffici, gli Annigoni, ai quali era legato da profonda amicizia, non sono trofei privati, ma testimoniano che l’arte è un bene inalienabile della nostra identità nazionale?

“A dire il vero ho sempre pensato di non avere una casa. È un luogo dove ho raccolto le cose che sacrestani e ignoranti avevano buttato via, le ho raccolte con amore per gli italiani e per me. Credevo che ciò potesse fare una casa, ma ho sbagliato. La casa è amore, è vita, il contrario di questa, che è morta e tale rimarrà per sempre. Perfino la pistola che usavo portare alla cintura... non ha quasi mai funzionato, le mancava il percussore... anche quella era una delle mie solite commedie! Oggi nessuno è più distinto dall’onestà o dal male: ogni uomo è un compromesso fra il ladro e il vigliacco con sopra un vestito di commendatore. La vita è un misto di male e bene assolutamente inseparabili”.

 

Il sogno di Rodolfo Siviero replica sabato 22 e 29 ottobre alle ore 11 e 15.30, a ingresso libero fino a un massimo di 20 persone (prenotazioni: info@teatrodellelce.it).

Il Museo Casa Rodolfo Siviero è aperto il sabato ore 10-18, la domenica e il lunedì ore 10-13. L’ingresso è gratuito. Per aperture straordinarie per gruppi (almeno 10 persone) inviare una email o usare il modulo di richiesta prenotazioni.

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