Thierry Demazière e Alban Teurlai / Rocco Siffredi. Eppur si gode

2 Novembre 2016

Che la pornografia sia non solo un'altra cosa rispetto all'erotismo ma addirittura il suo opposto è opinione ripetuta da vari nomi illustri almeno a partire da Baudrillard, e che gode oggi di discreta fortuna. È come se dopo decenni passati a combattere contro la censura, a rivendicare il diritto alla rappresentazione sempre più esplicita del sesso, si assistesse (soprattutto in Europa, perché la riflessione dei porn-studies nei paesi anglofoni e specie nell'ancora puritana America insiste ancora largamente su questi punti) a una sorta di assuefazione alla pornografia e a un crescente compianto di ciò che con la pornografia sarebbe andato perduto: il mistero dell'eros, il desiderio propedeutico e necessario al godimento. Quella pornografica sarebbe un'industria che offre un prodotto standardizzato mentre il sesso vero avrebbe a che fare con corpi reali, fatti di carne, certo, ma anche e soprattutto di “anime” (un termine antiquato con cui comunque si identifica il nucleo di individualità: ciascun corpo quindi con il suo personale corredo di desiderio, ognuno più o meno pudico, più o meno attivo, più o meno trasgressivo e così via).

 

Queste individualità sarebbero proprio ciò che non è visibile, ciò che manca nella rappresentazione pornografica, e che renderebbe perciò la pornografia non erotica, noiosa, non eccitante. Quello che Rocco Siffredi sembra voler dimostrare nel documentario (Rocco) a lui intitolato dei francesi Thierry Demazière e Alban Teurlai, è che anche le pornostar hanno un'anima. Potrebbe trattarsi di un'astuta mossa di marketing: la pornografia salvata dal cattolicesimo. Se non fosse che non c'è niente da salvare, perché il consumo di pornografia non accenna a diminuire, anzi.

 

 

L'autoritratto che il pornodivo abruzzese offre nel documentario è quello di un uomo tormentato in modo quasi caricaturale dal senso di colpa. Rocco Antonio Tano (così all'anagrafe) nasce in una famiglia povera e conservatrice, da un padre infedele che Rocco biasima e disprezza e una madre forte, premurosa e ingombrante, tanto più perché spinta alla follia dalla morte prematura di uno dei sei figli. Rocco decide di fare della fonte della sua vergogna il mezzo per realizzare la sua ambizione di «diventare famoso». Il riscatto avviene proprio attraverso «il diavolo che ha in mezzo alle gambe», quel membro imponente con cui senza falsi pudori i due registi aprono il film e che però non è il protagonista del documentario: molta più importanza ha la lotta che l'attore ingaggia con questo “lui” che sembra altro da sé, che si oppone alla sua determinazione a non diventare come suo padre, e di cui però è inevitabilmente schiavo. La strategia di sopravvivenza che Rocco decide di adottare è quella di fare della propria pulsione sessuale inesauribile il mezzo per guadagnarsi il pane, riconducendolo così nell'alveo della rispettabilità capitalista. L'autodistruzione che tenta di trasformarsi in redenzione. Strategia che si scontra però nuovamente con la morale conservatrice nel momento in cui decide di crearsi una famiglia sua, e Rocco passa dal sentirsi giudicato dallo sguardo riprovevole e colpevolizzante dei genitori a quello ancora più castrante (perché aggravato dalla categoria della responsabilità) dei figli (maschi) avuti dalla moglie Rosa Caracciolo. Così l'attore giunge alla ferma decisione di smettere di recitare. 

 

Il didascalismo psicanalitico della sua parabola fa quasi sorridere, e denota la consapevolezza lucidissima su cui il performer ha costruito il suo personaggio: i traumi che Rocco racconta nel lungo monologo che intervalla il film sono sempre legati al sesso (la madre che lo sorprende bambino a masturbarsi) o alla morte (del fratello, della madre), spesso a entrambi (il racconto – poco importa se verosimile o no – della fellatio imposta a un'anziana amica della madre venuta a accomiatarsi da quest'ultima). Rocco sa che l'interesse del suo lavoro risiede nella trasgressione: come il più tipico dei nevrotici, riconosce l'esistenza di una legge, la identifica anzi proprio in quella più ovvia nel suo contesto culturale, e emblematica è infatti la scena del brainstorming con il produttore e il cugino-assistente per stabilire setting e trama del suo ultimo, monumentale, film da attore (girato due anni fa da John Stagliano), in cui si parla di croci, suore, processi, angeli e diavoli, si discute su chi sottomette e chi è sottomesso. Siffredi, spesso identificato con una pornografia che addirittura molti uomini trovano “troppo maschilista”, cioè banalmente basata sulla sottomissione delle donne, decide di mettere in scena, facendosi legare a una croce, il suo sentimento di sottomissione nei loro confronti.

 

Non solo del suo pene e della propria insaziabile libido dunque: in tutta la sua carriera e nella sua vita privata Rocco afferma di essersi sentito «the slave of the girls». Un'altra scena dai numerosi making, girati in contesti molto diversi (dagli Stati Uniti a Parigi, a Budapest), è particolarmente riuscita in questo senso: Rocco infila il pugno nella bocca di una giovanissima attrice. Mentre lei inizia a lacrimare e a reprimere i conati di vomito lui sorride. Quando finalmente sfila la mano la situazione si ribalta: la telecamera offre un primo piano di lei, che con il trucco colato e la bocca madida di saliva rivolge uno sguardo conturbante e soddisfatto a Siffredi, in cui sembra attestare la sua superiorità, la sua consapevolezza di possederlo in virtù della resistenza fisica appena dimostrata e soprattutto della sua prova di sottomissione totale. 

 

 

Le donne di cui Rocco è principalmente schiavo sono infatti, come da manuale, la madre e la moglie, delle quali Siffredi continua a ribadire il senso di superiorità garantitogli dalla loro devozione, dall'amore incondizionato per la famiglia, l'indipendenza dall'impulso sessuale, in una parola dalla loro “purezza”. 

Vale la pena però di soffermarsi sulla brevissima intervista alla moglie, per capire quale sarebbe questo contraltare alla nevrosi ossessiva di Siffredi. Interrogata per l'ennesima volta sulla sua opinione in merito alla figura del marito, Rosa risponde che la loro routine sessuale è molto diversa da quello che Rocco fa sul set, che lei era consapevole di non potergli garantire la “varietà” di cui lui dimostrava di aver bisogno e di non averne nemmeno intenzione, e di trovare quindi perfettamente sensato che lui la cercasse altrove. Aggiunge anche, però, che quello che Rocco fa sul set non è altro che “lavoro”, e che il punto chiave nella loro relazione è la “sincerità”: mentre le altre donne vengono tradite alle spalle, lei almeno sa sempre dove il marito si trovi e cosa stia facendo. Le giustificazioni che Rosa trova per l'insolito ménage famigliare che i due hanno costruito sono quindi in fondo le più tradizionali: il loro rapporto si basa su una rigida distinzione tra lavoro e vita privata, e su una forma giusto un poco più aperta della retorica della condivisione totale.

 

“Lavoro” e “controllo” sono quindi i due capisaldi della famiglia nucleare persino nella vita apparentemente trasgressiva della più iconica delle pornostar maschili eterosessuali dei nostri tempi. Questa ideologia “sanitarizzata” della pornografia trova un'eco anche nella dichiarazione spiazzante della pornostar inglese Kelly Stafford, specializzata in hard-core molto estremo e che Rocco sceglie come co-star del suo ultimo film, che mentre si prepara per una scena commenta che una gang-bang con decine di uomini per lei non è altro che «just another day at the office». È questa la filosofia, del resto, anche di un'altra donna dell'entourage di Siffredi, vale a dire la pornostar Valentina Nappi, scoperta da lui e che ormai da qualche anno predica su riviste anche prestigiose come Micromega la necessità di un totale disincantamento del sesso, la liberazione da una morale repressiva e la sessualità come un'arte o uno sport, da affinare attraverso l'esercizio metodico per raggiungere prestazioni sempre migliori. 

 

 

Si tratta di casi che mettono in luce come la riflessione post-femminista sembri aver individuato nel capitalismo un veicolo di emancipazione: se tutto è merce e prestazione in cambio di denaro, allora perché non anche i corpi? Ogni cautela al riguardo viene avvertita come un vincolo incoerente, moralista e anacronistico, che impedisce alle donne di capitalizzare quello che storicamente è stato il loro mezzo di sostentamento più ovvio e di cui erano in fondo custodi incontrastate (il corpo e la sessualità), un modo per tenere le donne fuori da un gioco alle cui regole chiedono di potersi sottomettere non più come vittime ma come manager, autodeterminate, di se stesse. È questo il senso delle rivendicazioni (del resto sacrosante) delle sex workers, oltre che delle performer della pornografia, ma anche dell'autogestione della riproduzione (dall'aborto alla maternità surrogata). 

 

Eppure c'è qualcosa che Siffredi sembra aver capito meglio di loro, e che non troppo paradossalmente lo rende anche un attore porno migliore: per lui il sesso non è solo un lavoro, è una dipendenza, una forza primordiale che crea in lui una frattura, che porta a sovrapporsi ciò che desidera e ciò che lo disgusta, sia moralmente che fisicamente (il suo continuo ripetere che le ricadute nella sua sex-addiction l'hanno portato a «scopare con chiunque: trans, vecchie...» ne è una prova). Rocco Siffredi vive il suo rapporto con il sesso come una lacerazione, un'esperienza di rapporto con un “altro”: questo “lui” di cui è schiavo gli offre la possibilità di perdere il controllo di se stesso. «Io sono sicuro che lei soffre» ripete l'attore parlando della moglie: ancora una volta è il confronto con la donna a farlo sentire in colpa, e la sua insistenza su questo punto fa intuire quanto proprio questo senso di colpa sia necessario a permettergli di godere. Come scrive la lacaniana Joan Copjec: «La nostra sola conoscenza della legge è la nostra consapevolezza della sua trasgressione. Il nostro senso di colpa è tutto ciò che sappiamo della legge». Grazie al suo senso di colpa il nevrotico non solo può godere della sua infedeltà ma nello stesso tempo stabilisce una gerarchia, è in grado di riconoscere uno statuto differente alla moglie nell'oceano delle sue numerosissime amanti. 

 

 

Si tratta di un'esperienza che viene a mancare nei racconti disincantati delle donne che compaiono nel film: l'autodeterminazione sembra una pratica puramente economica di gestione delle proprie risorse, una forma di self-management che ha il rischio di confermare le più viete e scioviniste teorie sull'arrivismo delle donne nella nuova società post-patriarcale – teorie assolutamente non condivise né dal “macho-devoto” Siffredi né dai registi, che hanno scelto come immagine promozionale del film una scena sulla spiaggia di Rocco e del suo contraltare femminile Kelly Stafford, in un ribaltamento ironico della più tradizionale delle immagini romantiche: i due si guardano complici, lei indossa un abito candido, il mare alle loro spalle. Solo che non sono una coppia di innamorati, bensì due colleghi, due attori porno, uniti da una lunga amicizia e da un'alta stima professionale reciproca.

 

La quadratura del cerchio la trova infatti proprio il documentario, specie nella struttura narrativa. I due registi scelgono di chiudere il sipario sulle scene dell'ultimo film: un'orgia attorno a una croce cui partecipano tra gli altri Siffredi, Stafford e James Deen. La musica, da chiesa, è lugubre come del resto tutto il documentario, eppure l'insieme assume un tono solenne e agiografico, i volti contratti e sudati parlano di qualcosa di trascendente e celebrativo. È una scena drammatica ma soprattutto erotica. L'ultimissima inquadratura è sul collo pulsante dell'attore. Dal cazzo dell'inizio, al cuore che palpita nella sua forma visibile. 

 

Siamo condannati quindi a trovarci stretti nella dicotomia tra le due ideologie rappresentate da un lato da Rocco e dall'altro dalle sue donne emancipate? Per forza il rapporto con il sesso è rapporto con il sacro (anche e soprattutto nella forma della profanazione) e se non lo è, non è più possibile il desiderio? Non esiste una terza via tra il senso di colpa (relazionale ma insopportabilmente doloroso) e l'autonomia (solipsista)? Una terza via tra nevrosi e psicosi? Senza Legge Morale ci resta soltanto l'equivalenza della merce del Capitale? L'emancipazione al prezzo della de-erotizzazione? Forse no, sembrano dire i registi: in fondo si può ancora scopare. 

 

Eppur si gode. È questa l'intuizione anti-censoria, non nostalgica né banalizzante del film. Non si tratta di impedire il disvelamento per conservare il mistero, perché la pornografia non “svela” niente. Anzi, al contrario, proprio nel suo “svelare” ci dice che il mistero è una verità che è là fuori, va ricercata nella superficie, perché il mistero del desiderio si rinnova, permane, e si fa addirittura più fitto nel suo continuo re-enactment. Una delle attrici di Rocco, riferendosi alla pratica dello spanking violento, dichiara: «This makes me come». «But why?» domanda lui. La risposta è universale: «I would give a million dollars to know that». Per questo non basta la psicanalisi, né la ricerca eziologica del nostro desiderio a spiegarci come mai desideriamo, e soprattutto, lo dimostra Siffredi, non basta a farci smettere di desiderare ciò che desideriamo: è questa superficialità del mistero a porre un interrogativo insolubile. Il mistero è proprio l'inesauribile attrazione della superficie, il crescente successo della pornografia. L'attore porno fa in fondo quello che fa ogni corpo nudo secondo Giorgio Agamben: esibisce la superficie. È proprio questa esibizione dell'apparenza «il suo tremito speciale – la nudità che, come una voce bianca, non significa nulla e, proprio per questo, ci trafigge». Non nonostante Dio (la Legge, in termini psicanalitici classici, o una morale sessuale comune, nei termini del dibattito pubblico), possiamo godere, ma proprio perché Dio non c'è, l'assenza di senso si risolve nell'immanenza del rapporto tra corpi e anime reali, che sono qui e ora, che sono superficie. E proprio per questo continuano ad attrarci. 

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