Antichità in corso d’opera

18 Novembre 2011

Comincia con questo pezzo una nuova rubrica dedicata alla fotografia, Clic, curata da Elio Grazioli.

Oggi la fotografia suscita un grande interesse intorno a sé, sia nell'ambito espositivo sia nell'editoria.

Un pubblico sempre più vasto fa foto, se le stampa, le manipola, le distribuisce, ma anche segue mostre, legge libri, discute dell'immagine in un momento in cui la fotografia, nata oltre un secolo e mezzo fa, si sta trasformato, grazie all'uso del digitale, in qualcosa d'altro, rompendo i confini che la separavano dall'arte, da un lato, e ne facevano uno strumento di informazione e di intervento da parte dei soli professionisti, dall'altro.

Siamo di fronte a un nuovo statuto della fotografia? Di cosa si tratta?

Attraverso recensioni di mostre, interventi, interviste video, conversazioni, letture d'immagini, Clic cercherà di fornire ai lettori di doppiozero un panorama di quello che accade in questo vasto campo dell'espressione e della comunicazione.

 

 

 

Un buon codice dei beni culturali, almeno secondo la nostra tradizione legislativa, proibisce alle rovine di “rovinarsi”. Fa del suo meglio per proteggerle e curarle dal progressivo disfacimento ad opera del tempo.

Anche se le terapie spesso non agiscono con efficacia e tempestività, a nessuno verrebbe mai in mente di limitarne o addirittura vietarne l’utilizzo.

Arginare il processo “fisiologico” di distruzione, purtroppo, non significa eliminarlo del tutto, ma metterlo soltanto in stand by, mantenendo su di esso un controllo vigile e costante. Attualmente in Italia, salvo qualche spiacevole eccezione, il patrimonio antico continua a vivere e, in mezzo a un mondo in continua mutazione, resiste alla prova inesorabile del tempo.

 

Tuttavia il bisogno di preservare non è un dato di fatto. Serve sempre qualcosa che ce lo faccia notare. Uno strumento molto utile per monitorare le alterazioni materiali dei lasciti del passato è stata ed è, senza dubbio, la fotografia, grazie alla sua capacità unica di produrre l’istante, di individuare una pausa nello scorrimento degli eventi.

 

La percezione della realtà, che nell’esperienza concreta quotidiana procede senza freni e quasi senza consapevolezza, è con lo scatto fotografico obbligata a fermarsi, a fare una sosta. Se ne ricava una sorta di risparmio energetico con cui concentrare l’attenzione dell’osservatore, che altrimenti andrebbe dispersa, su ciò che l’immagine trattiene. In altre parole, si guadagna tempo per riflettere.

 

Lo ha capito benissimo il fotografo americano Tim Davis quando, nel 2007, venuto in Italia per ricevere il prestigioso “Rome Prize”, ha trascorso un lungo soggiorno nella capitale dedicandosi all’esplorazione del territorio abitato. Il suo occhio molto imparziale ha potuto constatare quanto profondamente le permanenti attività di recupero e memorizzazione delle rovine classiche avessero sensibilizzato le coscienze civili della nostra popolazione da scongiurare qualsiasi pericolo di distruzione dei siti o di oblio della memoria.

 

 

Tuttavia il tempo immobilizzato del paesaggio antico tornava ad agitarsi fra i ruderi della civiltà contemporanea. Nella prima periferia capitolina Davis trovava un territorio di rovine statu nascenti la cui crescita appariva magmatica e inarrestabile.

Davis, allora, ha pensato di soccorrerlo, di provare ad arrestare la dissoluzione materiale di quelle aree e a farle risorgere in forma di nuovi monumenti, o, come dice lui, di “nuove antichità”.

A partire dalla presa di coscienza “fotografica” di ciò che stava capitando, ha cominciato a sollecitare in noi il rinnovamento della visione dell’ambiente quotidiano allo scopo di ripensarlo e rispettarlo.

 

 

Fino all’11 novembre prossimo la Galleria Marabini di Bologna presenta una bella selezione di immagini tratte da The New Antiquity, il libro di Tim Davis pubblicato dall’editore Damiani nel 2009 come resoconto del viaggio in Italia e in altre parti del mondo.

In fotografie ormai celebri come Fresco (2008) dove l’icona di un volto santo anziché dall’usura dei secoli è stata martoriata da graffi di vandali, oppure Aqueduct (2009) dove un maestoso acquedotto di epoca romana fa da fondale scenico per le gesta di piccoli eroi quotidiani armati di mazze da golf e cappellini con visiera, Davis rende emblematico il suo concetto di neo-antichità. Spesso si tratta di cortocircuiti postmoderni come Statue of Pants (2009). In questo scatto vediamo un imponente obelisco piantato a terra da cui svetta un banalissimo paio di jeans. Ma l’immagine, banale in apparenza, è capace di spiegare alla perfezione come le logiche delle multinazionali fanno proseliti anche fra i discendenti di Mao Tse-tung. Oppure il curioso trittico Poolhenge, Real Estate Flyer Boxes, Steeple Sales in cui i nuovi totem sono monoliti-kitsch da esibire in giardino. L’autore non si limita all’oggetto inanimato ma, con la medesima lucidità, registra le anomalie artificiali che colpiscono anche l’umano, come accade nel comico quadretto delle prostitute, Outside the Ring Road (2009).

 

 

Tim Davis, in fondo, narra i suoi incontri come un archeologo fa con le rovine. Come un appassionato collezionista li raccoglie dalla strada e li porta al riparo in una nuova casa e come un testimone oculare li rispetta, perché si sente depositario di una verità da non dimenticare. Ma nel farlo ne coglie con ironia e disincanto l’aspetto inusuale e perturbante che si cela dietro la familiarità delle apparenze, proprio come farebbe ogni artista degno di questo nome.

Dobbiamo inoltre ricordare che, a suo avviso, buona parte di questi “comportamenti” appartengono in prima istanza alla deontologia di ogni buon “fotografo americano”, nel solco di una grande tradizione etica che va da Walker Evans a Stephen Shore.

 

Davis non stila freddi referti schedativi, lunghi inventari ripetitivi di nomi, date, descrizioni ma, al contrario, preferisce un modus collagistico, accumulativo, in cui ciascuna immagine, senza avere un ruolo definito, si può scambiare di posto con le altre, trasmigrare da un libro all’altro, da una mostra all’altra, lasciandosi manipolare dalle contingenze. Un po’ come accade nei suoi amati soggetti “suburbani”, in perenne balia di “rovinosi” processi di decomposizione.

Per mezzo della fotografia Davis fa chiarezza su un fenomeno oggi davvero problematico, e, con quella buona dose di responsabilità critica di cui va fiero, avvia un ragionamento di portata epocale.

Ma chissà se i ritmi della società contemporanea, così accelerati dalla spinta consumistica e tecnologica, potranno concedere un breve transito alla salvezza della memoria.

 

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