André Schiffrin / La vocazione editoriale ai tempi della rete

26 Dicembre 2019

Vent'anni fa Editoria senza editori di André Schiffrin (1935-2013) innescò un acceso dibattito. Ad accendere l'attenzione sul pamphlet era stata in primo luogo la figura dell'autore, figlio di Jacques (1892-1950), esule dalla Russia, inventore a Parigi della Pléiade e poi, in fuga dal nazismo, editore a New York della giovane e subito prestigiosa Pantheon Books. Anche André, dopo aver iniziato la carriera alla New American Library (una casa editrice che pubblicava tascabili, compresi molti classici), nel 1961 era approdato a Pantheon, a quel punto già inglobata da Random House. Ne era stato “scacciato” a causa delle nuove politiche aziendali nel 1990. Due anni dopo fondò The New Press, combattiva casa editrice senza scopo di lucro ispirata a ideali democratici e progressisti (di queste vicende ha lasciato una narrazione autobiografica in Libri in fuga. Un itinerario politico fra Parigi e New York, Voland, 2009).

Cosa era per Schiffrin l'“editoria senza editori”? Alla fine degli anni Novanta il processo di concentrazione neocapitalistico approda alla creazione di cinque grandi colossi (di cui tre in mani europee), che alla vigilia del nuovo millennio controllano l'80% del mercato USA.

 

Le aziende editoriali vengono affidate a manager che impongono “il passaggio da un rendimento del 3 o 4 per cento, che era la norma, a richieste del 15% e oltre” (p. 33): un obiettivo pressoché irrealizzabile, che spinge alla ricerca ossessiva del bestseller e alla moltiplicazione di anticipi non recuperati. Si affermano agenti come l'aggressivo Andrew Wiley, lo “squalo” dell'editoria mondiale di quegli anni, alterando il rapporto amichevole e confidenziale tra autori, editori e editor. Il processo di concentrazione investe anche le librerie, con la nascita di gigantesche catene che si muovono nella stessa ottica commerciale dei grandi gruppi. 

Viene così spazzato via “il sistema formato dalle piccole case editrici e dalle librerie indipendenti”, che per Schiffrin “era molto efficiente e permetteva di raggiungere un vasto pubblico”: “le case editrici indipendenti in America erano in grado non solo di pubblicare una grande varietà di titoli, ma anche di venderli in quantità spesso maggiori, a parità di popolazione, dei best seller di oggi” (p. 43). 

Un processo analogo investe su scala minore la più piccola e fragile editoria italiana: oggi il mercato è dominato da quattro “supergruppi”: Mondadori, che nel 2016 ha acquisito Rizzoli Libri, il suo maggior concorrente, GeMS, Giunti e Feltrinelli. Questi gruppi controllano anche altri segmenti della filiera, come la distribuzione e le maggiori catene di librerie. (Sul processo di concentrazione vedi “Le quattro grandi guerre dei libri”)

 

Il grido d'allarme di Schiffrin era dunque motivato e il dibattito sul destino del libro è rimasto vivo anche in Italia (come testimonia anche un numero speciale della rivista “Il Verri” uscito nel 2007). Oggi Editoria senza editori viene riproposto da Quodlibet, con una postfazione di Andrea Cortellessa dove si ribadisce l'attualità di quelle considerazioni, vecchie ormai di vent'anni, e che si affianca alla prefazione originale di Alfredo Salsano (1939-2004), l'editore di Bollati Boringhieri che aveva pubblicato nel 2000 la prima edizione italiana (dopo la sua morte la casa editrice è finita nell'orbita GeMS). 

 

Tuttavia la visione di Schiffrin e dei suoi estimatori – un'editoria dove “c'era un limite alla demagogia che impediva di pubblicare pornografia o libri degradanti per l'animo umano, come quelli che oggi inondano il mercato” (p. 56) – rischia di tingere l'intera storia di rosa. Dai tempi di Gutemberg, si è sempre pubblicata un'enorme quantità di “libri spazzatura”, che hanno regolarmente scatenato le ire dei custodi dei “valori”. Il primo autore di best seller è Pietro Aretino, divenuto famoso dopo essere fuggito a Venezia per stampare nel 1526 quei Sonetti lussuriosi (illustrati) che se fosse rimasto nella Roma papalina lo avrebbero mandato in galera, o peggio. I testi destinati a durare – i classici, i long seller – sono una minoranza rispetto alla “robaccia”. Quanti capisaldi del “canone occidentale” sono nati come libri “usa e getta”? I copioni di Shakespeare distribuiti fuori dal Globe Theatre, i romanzi a puntate di Balzac o Dostoevskij... Moltissimi “capolavori del momento” (e “best seller del momento”) vengono subito dimenticati, per essere letti dai posteri solo in occasione di qualche tesi universitaria. 

Schiffrin descrive dall'interno delle aziende editoriali una transizione epocale nella storia della cultura. Dall'era della pedagogia, quando si “cercava di apportare alle masse insieme sapere e ricreazione” e dunque di proporre al popolo prodotti “alti” e destinati alle élite, si è passati all'era dei consumi, per dirla con il Zygmunt Bauman di Per tutti i gusti. L'obiettivo è offrire un prodotto adatto a qualunque target, cercando al contempo di sfruttare le economie di scala. Ecco i best seller, e addirittura i “mega-seller” globali come il ciclo di Harry Potter (1997-2007), Il codice Da Vinci (2003) o 50 sfumature di grigio (2011).

 

Oggi la concentrazione del settore resta alta, con 56 aziende che nel mondo hanno un fatturato superiore al 150 milioni di euro (tra editoria e distribuzione, escludendo dunque le librerie e gli altri media). Anche all'interno di questa aristocrazia vince la concentrazione: i primi venti colossi valgono il 70% del fatturato (un dato stabile da almeno un ventennio, così come grosso modo stabile è la somma del fatturato dei sei capi-classifica). La parte del leone non la fa la varia, ovvero i libri che vediamo sugli scaffali delle librerie: il 60% del fatturato di questi colossi arriva dall'editoria professionale, scolastica e universitaria.

 

Alcuni tra i principali gruppi editoriali di varia nel mondo 

 

Fonte: Rudiger Wischenbart con Michaela Anna Fleischhacker, Global 50 The World Ranking of the Publishing Industry 2019, Livres Hebdo, Paris, 2019. 

 

Il megatrend della concentrazione, che investe anche altri settori industriali, si è intrecciato con altri fenomeni, che l'hanno accentuato, contrastato o distorto. Il primo correttivo caratterizza un prodotto come il libro, che resta artigianale malgrado l'avvento dell'industria culturale, in un settore che tende a essere pluralistico, anche per il basso costo d'accesso per le nuove imprese. Ogni anno nascono, anche in Italia, decine e decine di nuovi editori. È vero che la “censura del mercato” tende a imporre certi prodotti, ma gli editori indipendenti – vecchi e nuovi – possono sempre aprire (o riaprire) filoni editoriali che i giganti trascurano a causa della loro miopia e lentezza. Certo, il sistema dei mass media ha anche l'obiettivo (e il potere) di pervertire e involgarire il gusto del pubblico, ma la dialettica resta sempre aperta e la storia dell'editoria continua a dimostrarlo.

 

In Italia la quota di mercato dei quattro grandi gruppi editoriali (Mondazzoli, GeMS, Feltrinelli, Giunti) è diminuita dal 60,1% del 2009 (e dal 59,5 del 2014) al 52,9 del 2018 (malgrado l'acquisizione di Newton Compton da parte di GeMS), fino al 47,1% del 2019 (secondo i dati diffusi dall'Ufficio Studi AIE in occasione dell'edizione 2019 di Più Libri Più Liberi). Almeno per quanto riguarda il mercato italiano, sembra esserci stata un'inversione di tendenza, grazie al crescente successo di editori indipendenti come Sellerio ed e/o, ma anche alla nascita di progetti editoriali come N/N o La Nave di Teseo.

Gli ultimi anni hanno visto anche una maggiore internazionalizzazione, con l'ingresso nel mercato italiano di Harper Collins (con il proprio marchio) e di Planeta (con DeA Planeta, una joint venture con De Agostini). Va anche rimarcato il successo di Europa Publishers, nata nel 2005 a New York dall'intuizione di Sandro Ferri e di Sandra Ozzola, gli editori di di e/o, che ha imposto nel mercato anglosassone, tra gli altri, Elena Ferrante e Muriel Barbery.

 

Non sono gli unici cambiamenti che hanno interessato l'editoria. Nel 1999 la crisi economica doveva ancora arrivare, internet era agli albori, Amazon e i social non esistevano, gli e-book e gli smartphones funzionavano solo nei film di fantascienza. Con la rete si è diffusa l'ideologia di un accesso alla cultura (o meglio ai consumi culturali) gratuito e incondizionato (che questo regalo abbia un prezzo molto salato, lo stiamo scoprendo in questi anni). Piattaforme online come Spotify, iTunes, Netflix, Audible e Storify hanno devastato il settore discografico e stanno rivoluzionando radio (con i podcast), cinema e televisione. L'eventizzazione, con il moltiplicarsi dei festival letterari, ha cambiato l'atteggiamento di molti lettori e interagisce con un altro trend culturale in ascesa: la spinta alla partecipazione e al coinvolgimento del pubblico, recepita anche dalle direttive europee, che tuttavia è prima di tutto la possibilità che chiunque dica il suo parere su tutto, magari con un Like che ottunde ogni autentico spirito critico all'insegna del “siamo tutti re-censori” e del consumatore promosso a “pro-sumer”.

A essere travolto non è soltanto il mondo dell'editoria: evolvono anche il ruolo e la funzione del libro. L'auto-pubblicazione a costo zero – dove sembra realizzarsi l'utopia che “siamo tutti artisti” – ha moltiplicato il numero dei titoli pubblicati e ha stimolato la “bibliodiversità”.

 

La coda lunga favorisce le nicchie e il catalogo (e dunque almeno in teoria l'editoria di qualità rispetto all'usa e getta). Nel frattempo internet ha subito un processo di concentrazione molto più radicale e apparentemente irreversibile: i giganti dell'editoria libraria globale sono nanerottoli rispetto ai signori della rete Google (che è anche il più grande archivio-biblioteca del pianeta), Microsoft, Apple, Facebook e Amazon (che è anche la più grande libreria del pianeta, oltre che una casa editrice globale), con effetti politici dirompenti. Queste spinte rimodellano la nostra economia del tempo e dell'attenzione, senza che ce ne accorgiamo. 

In questo scenario gli editori devono ritrovare e ridefinire le loro funzioni: selezione e management dei nuovi talenti (al di là dell'immediatezza dei “Mi piace” e in una prospettiva di lunga durata), lavoro sul prodotto, collocazione sul mercato e marketing, remunerazione della creatività. L'ideologia ugualitaria e “gratuitaria” della rete sta erodendo questo paradigma, mentre la prassi del capitalismo 2.0 garantisce enormi profitti ai cinque oligopolisti e tende ad azzerare i compensi per i creatori e i mediatori, ovvero per la “classe creativa”. 

 

In uno scenario impervio gli editori – quelli grandi e quelli piccoli, i mega-gruppi e gli indipendenti – stanno reggendo l'impatto della violentissima trasformazione digitale, con soluzioni a volte di compromesso ma spesso assai creative (su questo, vedi anche Editori per il XXI secolo). La capacità del mondo del libro (e dell'informazione e del giornalismo), nel suo insieme, di garantire il pluralismo e il confronto delle idee resta una delle condizioni necessarie a ogni processo democratico. Uno dei rari antidoti allo strapotere dei big data. Un piccolo spiraglio di utopia mentre siamo schiacciati dalla dittatura del reale.

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