Rinunciare a sé per sopravvivere / Fuggire da sé

12 Dicembre 2016

Baratto è uno stimato insegnante di educazione fisica. Gioca a rugby. Nel bel mezzo di una partita si blocca a tre quarti del campo e scuote la testa, smette di giocare e si siede in panchina. Con gli occhi chiusi trattiene il fiato, resta in apnea, senza aspettare più niente e senza neppure il pensiero di essere lì. Poi se ne torna a casa guidando la sua motocicletta. Da quel momento in poi smette di parlare con tutti: moglie, vicini di casa, preside della scuola. Andrà avanti così per mesi e mesi in una sorta di congedo provvisorio da tutto e da tutti. La moglie lo lascia, la scuola lo solleva dall’incarico, gli amici non lo riconoscono più. Il personaggio della novella omonima di Gianni Celati, Baratto (Quattro novelle sulle apparenze, Quodlibet), disinveste il mondo che lo circonda, per dirla con David Le Breton, sociologo e antropologo, autore di Fuggire da sé (Raffaello Cortina Editore). Baratto non esiste né per se stesso né per gli altri; la sua è una defezione, un ritrarsi dalla responsabilità di essere se stesso, l’unica possibilità per non essere schiacciato e gravato da quel peso che sono gli impegni verso gli altri, verso la società. Ha tranciato, seppur provvisoriamente e in modo dolce, il legame sociale.

 

Ph Joel Sternfeld.

 

Le Breton chiama questo stato d’animo, prossimo alla depressione, ma non “nero” come la depressione, “biancore”: “la volontà di rallentare o arrestare il flusso del pensiero, di porre finalmente termine alla necessità sociale di dare sempre corpo a un personaggio, assecondando gli interlocutori di volta in volta presenti”. Si tratta della ricerca di un’impersonalità che nel racconto di Celati diventa quasi uno stato di grazia, una forma zen di fuga da sé e dal mondo circostante. Come dare torto a Baratto? Ha ragione il sociologo francese: l’esistenza talvolta ci pesa. Oggi non è più solo necessario nascere e crescere, ma occorre “costruire se stessi di continuo, tenersi in perenne movimento, dare un significato alla vita, puntellare la propria attività”. Un impegno arduo, per alcuni persino intollerabile. Quasi venti anni fa il sociologo francese Alain Ehrenberg ha sintetizzato questa condizione con La fatica di essere se stessi (Einaudi). Scriveva: “l’insufficienza è per l’individuo di oggi quello che il conflitto era per l’individuo della prima metà del XX secolo”. Nelle società del passato la felicità consisteva nel sapersi uniformare ai propri doveri; ora le regole sociali ci presentano invece la felicità come il sapersi uniformare ai propri desideri; l’autostima appare l’obiettivo principale. “La vera autenticità non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare al sogno che si ha di se stessi”, afferma uno dei personaggi di Tutto su mia madre di Pedro Almodòvar.

 

Nel costruire se stessi, rincara Le Breton, l’individuo è privo di un orientamento preciso, o meglio ha una serie enorme di possibilità “che lo rimandano alle risorse di cui dispone”. Ciascuno è responsabile di sé in questa corsa continua, e preservare il proprio posto all’interno del legame sociale implica una tensione e uno sforzo. Sono migliaia e migliaia le persone che si sottraggono ogni anno a questa prova attraverso la fuga dal lavoro e dalla famiglia, inabissandosi nella depressione, fuggendo altrove, “nelle terre estreme”. Sono adolescenti, adulti, uomini e donne. La loro risposta si chiama anoressia, droga, alcool, malattia mentale, tutti tentativi di sciogliersi da quel legame sociale che appare una costrizione. Marcel Gauchet sostiene, non senza ragione, che il legame sociale è diventato un “dato ambientale” più che un’esigenza morale. Nei racconti di Gianni Celati c’è un’intera galleria di questi personaggi che cercano di sospendere, o interrompere, la “commedia delle apparenze”, che continua sempre là fuori e non si ferma mai. Baratto è modellato su Bartleby lo scrivano, il protagonista dell’omonimo racconto di Melville, colui che risponde al suo principale, un avvocato di Wall Street, con “Preferirei di no”.

 

Ph Joel Sternfeld.

 

In un libro antologico, Storie di solitari americani (Rizzoli), Gianni Celati e Daniele Benati hanno raccolto numerose storie di quella letteratura, da Wakefield di Hawthorne a Non è facile trovare un brav’uomo di Flannery O’Connor, storie che hanno per protagonisti personaggi in fuga da se stessi, tentativi di sottrarsi con la solitudine all’invadenza della vita moderna. “La solitudine non sta più nell’esser soli, ma nel non potere evadere dalla sterilità dei copioni che ovunque si recitano a dovere”, scrive Celati nella prefazione. Ognuno di noi, sostiene lo scrittore, “incarna una recita che torna sempre agli stessi punti, agli stessi incastri nevrotici che coincidono con i costumi della società civile”. Il biancore descritto da Le Breton arriva quando una donna o un uomo stanno per esaurire le risorse di cui dispongono per continuare a reggere il proprio personaggio. Sopraggiungono quale aiuto il torpore, l’abbandono, la deriva, forme psicologiche che confinano con la depressione vera e propria. Ehrenberg sostiene che la depressione va considerata come malattia sociale nella misura in cui appare una risposta complessa al nuovo codice sociale: “il depresso non si sente all’altezza, è stanco di diventare se stesso”. Chi non ha provato almeno una volta nella vita un’esperienza di spossessamento? L’adolescenza è il luogo per eccellenza della perdita di ancoraggio al mondo, alle cose, agli altri. L’identità oscilla, e non è facile mantenerla.

 

Le Breton ricorda il caso dei ragazzi Hikikomori, adolescenti che si rinchiudono volontariamente nella propria stanza e dialogano con il mondo solo attraverso il computer, esperienza che coinvolge milioni di ragazzi, non solo in Giappone, da cui il fenomeno sembra aver avuto origine, ma anche in Europa e in Italia, come racconta l’antropologa Carla Ricci in Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione (Franco Angeli). La letteratura, quasi più della psicologia, è un repertorio di queste fughe dal mondo, dai racconti di Robert Walser alle storie di Paul Auster. Che cos’è, se non una specie di Hikikomori il protagonista di Un uomo che dorme di George Perec (Quodlibet), lo studente che cade in uno stato di torpore e d’indifferenza? Le Breton ci ricorda che condurre la vita quotidiana richiede oggi comunque una certa indifferenza, che a volte diventa una forma di discrezione, “per non mettere a disagio gli altri o non dare pretesto a osservazioni”.

 

Il filosofo Pierre Zaoui l’ha teorizzato in L’arte di scomparire (il Saggiatore). Rinunciare a sé è a volte l’unico modo per sopravvivere alleggeriti dallo sforzo di esistere; i film di Kitano e i romanzi di Haruki Murakami mostrano numerosi esempi di questo. Baratto ha raggiunto quello stato di stanchezza, di cui ha parlato in un saggio alla fine degli anni Ottanta Peter Handke (Saggio sulla stanchezza): la stanchezza del vivere catturati come siamo nel reticolo delle relazioni sociali – come recita la presentazione del libro –, “una stanchezza più sottile, e per questo più inquietante, che s’accompagna alla banalità della vita”. Al termine della novella, Baratto dorme e parla nel sonno; intorno a lui gli amici lo ascoltano. Alla fine sbadiglia e si tocca il ginocchio: “Oh, mi è tornato male al menisco!”, esclama. Si stira e si risveglia del tutto. Fa un largo sorriso e chiede se ha parlato bene. Tutti applaudono. Ha ricominciato a parlare.

 

Questo pezzo è uscito su “La Repubblica”.

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