Uno davvero tutto solo / Il fantasma di Odradek

10 Luglio 2020

Non c’è alternativa. Non si può che giungere alla psicoanalisi attraverso la porta del sintomo. È una delle poche verità che riguarda questa pratica e che emerge, per così dire, sia dalla sua filogenesi che dalla sua ontogenesi: sono state le isteriche alla fine del XIX secolo a “inventarsi” un sintomo che la scienza medica non riusciva a comprendere e di cui non riusciva a ricostruire la causa fisiologica; ma è anche vero che ogni esperienza della psicoanalisi ancora oggi inizia da un sintomo soggettivo, quando una forma di sofferenza non riesce a essere risolta in nessun altro modo, né con i farmaci, né con la psicologia, né attraverso le proprie relazioni e nemmeno nelle forme collettive del vivere sociale. Il sintomo è un messaggio enigmatico di cui non si conosce il senso né la causa e che fa soffrire il soggetto. In questo senso si potrebbe dire che è come una parola di cui non si conosce il significato e di cui non si è mai sentito il suono. Per la psicologia il compito della scienza dovrebbe essere quello di scoprire la causa nascosta del sintomo: cioè riportare il messaggio enigmatico al suo significato nascosto. Per la psicoanalisi no. Non c’è significato nascosto del sintomo. È per questo che Lacan l’ha chiamato un significante: cioè un enigma che però non può essere svelato una volta per tutte, ma che conduce soltanto a un altro significante, e poi a un altro ancora… e così via all’infinito. Il significante può solo condurre a un altro significante, in modo orizzontale. Non può essere ricondotto verticalmente al suo significato nascosto una volta per tutte. 

 

Se usassimo i concetti canonici dello strutturalismo, potremmo immaginarci di considerare due serie di elementi, ad esempio le parole e le cose, in cui a ogni cosa è associata una parola: ogni parola ha cioè un referente nella realtà alla quale è saldamente legata. Cosa succederebbe se all’improvviso comparisse una parola alla quale non è possibile associare nulla? Cosa succederebbe se una volta finite le parole rimanessimo con un oggetto in più, spaiato e senza nulla a cui poterlo associare? Il significante non è nient’altro che questo: una parola spaiata, che è rimasta da sola. Che cosa vuol dire dunque questo significante? A cosa è possibile associarlo? Qual è la causa di questa sofferenza? E qui già c’è un paradosso, che Gilles Deleuze non manca di riconoscere in Logica del senso: una struttura dove non esistono parole “spaiate”, come lo sono i significanti con cui ha a che fare la psicoanalisi, sarebbe un assurdo. Se ogni singola parola venisse associata a ogni singola cosa e la loro corrispondenza biunivoca non avesse alcun’eccezione, le due serie finirebbero inevitabilmente per sovrapporsi e quindi per cancellarsi. Le parole non sarebbero “staccate” dalle cose ma sarebbero indistinguibili dalle cose stesse (o viceversa). Affinché vi siano due serie e venga messo in moto l’eterno gioco delle loro associazioni e separazioni, è necessario che le due serie non combacino perfettamente, che siano minimamente “rotte”: è necessario che un piccolo elemento le separi. È questo piccolo elemento – che è rimasto fuori dalla serie degli oggetti, o parola che non si saprebbe a cosa associare – che fa sì che la struttura venga messa in moto, e che possiamo chiederci a che cosa associare un elemento di una serie con l’altro. 

 

 

Il gioco della psicoanalisi, quanto meno quello delle nevrosi, è tutto qui: c’è un significante che non si sa che cosa voglia dire e che attraverso il processo analitico viene messo in moto – associato prima a una cosa e poi a un’altra, e poi a un’altra ancora … e così via. E nel continuo rincorrersi di queste associazioni qualcosa del legame delle due serie viene spostato e l’equilibrio soggettivo trasformato, “come quel celebre rompicapo in cui un’immagine risulta spezzettata in tessere disordinate, e si tratta di ricomporre l’immagine facendo transitare con giri più o meno tortuosi tutte le tessere attraverso una casella rimasta vuota” (p. 61). Il significante non avrà trovato il suo significato nascosto, ma avrà comunque prodotto dei cambiamenti. Certo, alla fine ci si troverà comunque con un significante enigmatico e una casella vuota, e con il “gioco” delle due serie sempre in movimento, ma qualcosa sarà accaduto. 

 

È dunque la psicoanalisi una pratica del Due? Del sintomo come messaggio indirizzato all’Altro? Del significante aperto alla sua infinita e metonimica interpretazione? In una parola, della dialettizzazione del sintomo? Eppure il Due dell’inconscio lacaniano non è quello della specularità, dell’equilibrio e delle complementarietà di Jung. Il Due è, per così dire, dispari. E che cos’è che rende le due serie dispari? Che cos’è che fa sì che le due serie si rincorrano all’infinito per poi ritrovarsi ancora alla casella di partenza con un significante spaiato di cui non si conosce il significato? Per Federico Leoni la risposta è semplice quanto enigmatica: è l’Uno. Basta infatti spostare l’angolo prospettico per vedere che il problema non è quello del rapporto “impossibile” tra le due serie – l’S1 e l’S2 come si dice tra lacaniani –: i giochi del loro rincorrersi infinito “sono tanto appassionanti quanto monotoni: […] da dove vengano quei giochi, questo resta sostanzialmente fuori quadro, nella psicoanalisi lacaniana” (p. 30). Il problema è il punto d’insorgenza di tutto il campo, il separarsi delle due serie in quanto tali. Non già una causa vera e propria, ma l’atto del loro differenziarsi. Insomma, se prendiamo il punto di vista dell’elemento soprannumerario che rende possibile la disparità delle due serie, forse le serie non sono più nemmeno soltanto due. Quello che vediamo è semmai il processo infinito del loro differenziarsi. 

 

Sta qui il cuore della tesi di Jacques Lacan, una scienza di fantasmi (Orthotes, pp. 180, €18), uno dei più belli e originali libri su Lacan uscito in Italia negli ultimi anni, che ha soprattutto il grande merito di non limitarsi a fare una glossa alle scritture lacaniane, ma che propone una tesi forte e originale. Leoni propone di spostare lo sguardo dalla staticità della struttura e dai suoi più o meno stabili equilibri, al processo del suo strutturarsi. Bisogna quindi congedarsi da quell’approccio che vorrebbe adottare lo sguardo della partizione categoriale dell’essere, della differenza statica di enti già individuati “per dire l’accadere simultaneo della molteplicità” (p. 35). D’altra parte non fu già Kant che negò la possibilità dell’intuizione, cioè della conoscenza dall’interno delle cose stesse, per fondare tramite il trascendentale un regime della separatezza, cioè di una distanza tra il soggetto e le cose, da colmare in modo provvisorio tramite la rappresentazione? Non fu Lévi-Strauss a usare un’idea statica di struttura, dove il concetto di mana doveva incarnare proprio quell’elemento soprannumerario ed eccedente che stava per la struttura simbolica in quanto tale, pena il crollo dell’edificio strutturale stesso? E non è forse l’immaginario lacaniano nel campo visivo proprio quel regime dell’esperienza fondato sulla separazione, dove il soggetto guardante e l’oggetto guardato sono irrelati l’uno dall’altro, e continuamente permutabili l’uno con l’altro? Tutte figure del Due, della separazione, della staticità, della divisione categoriale.

 

 

Leoni invece ci propone di assumere “che l’essere non sia dell’ordine del discreto ma dell’ordine del continuo” e “che gli esseri non siano separati, non abbiano identità e consistenza autonoma, ma che ogni essere sia un’emergenza momentanea del sistema, che ogni singolarità sia tutto l’essere anche se transitoriamente ricapitolato nella figura di quella singolarità” (p. 87). Non sorprende allora che uno dei riferimenti sia proprio la monade leibniziana, secondo cui ogni punto dell’universo esprime l’intero universo, proprio perché non esiste un regime della separazione, dove un elemento possa essere tagliato fuori dal resto dell’universo e costituire uno sguardo non partecipato nelle cose. L’unico sguardo è allora quello che sta dentro alle cose (o meglio che è indistinguibile dalle cose stesse), e dove l’immagine non è un rispecchiamento o una percezione di qualcosa che sta al di fuori, secondo il regime della rappresentazione, ma è un “vibrare” visivo dell’universo stesso in sé stesso (secondo una prospettiva molto simile a quella del Deleuze dei libri sul cinema). 

 

Quello che infatti in modo diverso sia Lacan sia Deleuze mostrano del campo visivo, è che se vogliamo rimanere in una tipologia di relazione immaginaria basata sull’Altro che separa soggetti e oggetti, guardati e guardanti, immagini e cose, dobbiamo supporre un punto di eccezione – un po’ come il mana di Lévi-Strauss – che è appunto l’occhio che guarda, escludendosi dal visivo. Non è possibile che l’occhio che guarda sia anche guardato, perché non è possibile mostrare il punto da cui tutto il campo visivo prende corpo, nonostante in quell’aggettivo – visivo – ci sia già l’inclusione di quel punto di insorgenza (che l’immaginario, se vuole essere consistente, deve escludere). Leoni mostra la genealogia tutta filosofica di questo problema: quello dell’impossibilità che “il dire” possa emergere nel “detto”, o che – come diceva Lacan – si possa dire il vero sul vero. 

 

Il fantasma del titolo, che poi è quello che è al cuore dell’esperienza psicoanalitica, non è allora il fantasma dell’alterità, quello che spesso si vede al cinema e che è nascosto in qualche anfratto del campo visivo, come elemento inquietante che viene da un altrove. Ma forse non è nemmeno quella finestra che media l’esperienza soggettiva del mondo, come spesso si legge nella vulgata lacaniana che vorrebbe che il fantasma mostrasse le condizioni “a priori” del desiderio. Pensare “al” fantasma, come se fosse un oggetto, vorrebbe dirle pensarlo a partire da qualcosa che è al di fuori di esso, cosa che è evidentemente impossibile dato che il fantasma è già, per così dire, incluso nel gesto di “pensare” stesso. Forse allora converrebbe partire invece che dalla struttura delle due serie o dell’alterità separata – che nella sua staticità deve continuamente supporre eccezioni e punti di “esclusione interna” (e che cos’è la logica del fallo lacaniana, se non una logica dell’eccezione interna che sostiene la consistenza della struttura?) – dal divenire stesso della differenza. Quella che Deleuze definiva una differenza “pura” che sta al di qua degli enti già differenziatisi e già separatisi gli uni dagli altri. 

 

Parrebbe di essere finiti quasi “oltre” la stessa psicoanalisi, come spesso accade alle filosofie vicino a Deleuze, ma l’intenzione di Leoni ci pare tutt’altra: il fantasma infatti attiene a quella paradossale logica pulsionale secondo cui, per Freud, l’attivo e il passivo si fondevano l’uno nell’altro, come nell’immagine a lui cara della bocca che bacia sé stessa (a cui potremmo aggiungere quella dell’occhio che guarda sé stesso spingendo l’immaginario verso il suo limite logico). Eppure la logica freudiana del fantasma è paradossale solo se continuiamo a ragionare a partire dalle contraddizioni di enti già individuati da una struttura. Non lo è in quel mondo popolato da personaggi come quello di Odradek, con cui si chiude splendidamente il libro di Leoni. Rocchetto di filo, resto di una macchina, forse di origine vegetale eppure dotato di una voce, Odradek è una figura sfuggente che non ha alcuna modalità di apparire nella logica statica dell’immaginario proprio perché è una singolarità. “Non ha un altro: eppure, anzi proprio perciò, non è l’altro di un altro, non è qualcosa di identico, non ha un’identità. Solo avendo un altro di cui essere l’altro, potrebbe infatti essere identico a sé, o avere un’identità, o anche avere una differenza, dall’altro o da sé. Un Uno, un Uno davvero tutto solo, un Uno che sia davvero senza altro, un Uno nell’unico senso in cui la filosofia abbia mai pensato l’Uno, non è affatto l’Uno di un due, rimasto però senza due […]. Privo di qualsiasi paradigma, privo di qualsiasi cosa che possa dirlo, come rocchetto di filo, come ingranaggio di una macchina, come pianta dotata di foglie, è lui stesso paradigma di sé, è sé stesso e insieme il proprio esempio” (p. 170). 

 

Federico Leoni, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes.

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