1933 - 2020 / Aldo Zargani, un ebreo poco ortodosso

21 Ottobre 2020

L’ecatombe continua. Alle decine di migliaia di sconosciuti, se ne aggiungono ogni giorno alcuni che ci sono vicini o in qualche modo noti. Ieri sera è toccato a Enzo Mari e stamattina a sua moglie Lea Vergine, che conoscevo solo attraverso le loro opere, che spesso ci dicono delle persone ciò che più le caratterizza e più è importante, ciò per cui sono vissute pur non esaurendo mai in esse la loro vita, in particolare gli affetti, anche se poi oltre la vita esse continuano fino a diventare col tempo, di loro, tutto. Poco fa invece mi è giunta la notizia della scomparsa di una persona, Aldo Zargani, che ho prima imparato a conoscere dai suoi scritti e poi non ho potuto che adorare, sin dalla prima volta che ci siamo visti di persona, con la moglie Elena a cui, insieme alla famiglia, va il mio pensiero, e nelle molte altre volte che in questi ultimi anni ci siamo scritti e sentiti per telefono. L’ultima è stata settimana scorsa. Aldo mi ha chiamato per dirmi che stava scrivendo la recensione che gli avevo chiesto per Doppiozero, e che lui aveva accettato di scrivere con entusiasmo a scatola chiusa, perché non aspettava altro che di avere un motivo per scrivere ancora, il modo migliore per essere vivi in questi mesi disgraziati.

 

Mi parlava un po’ allarmato della piega che stava prendendo l’articolo, non una recensione vera e propria ma, come peraltro gli avevo raccomandato, un racconto che procedesse sul filo della memoria, e della sua straordinaria capacità divagatoria, sullo stimolo dei personaggi e dell’ambiente dei libri in questione, due di memorie di grandi famiglie e figure ebraiche, una delle quali legata all’ambiente torinese dove lui stesso era cresciuto in quasi tutta la prima parte della sua vita. Era preoccupato perché temeva di uscire troppo dal seminato comandato dai suoi estri e dalle associazioni portate dalla sua lunga esperienza, cosa peraltro che personalmente mi auspicavo e che costituisce uno degli aspetti più accattivanti specie dei suoi ultimi scritti (al diavolo i libri!), ovvero di essere troppo critico o viceversa troppo parziale. Molto bene gli avevo detto, vai avanti così, non ti contenere. Era contento. “Mi rimetto subito al lavoro, allora.” Non ha finito. 

 

Sentivo la sua voce rauca, lontana, come quando si ricevevano le telefonate transoceaniche decenni fa, che da una parte e all’altra ci si sentiva in dovere di gridare per timore che le parole si perdessero per strada, o venissero deformate dalla distanza, da tutti gli ostacoli, i mostri aerei e marini che rischiavano di inghiottirle, e invece arrivavano intatte, dritte al cuore, dove restavano per sempre. Come a me quelle di Aldo.

 

 

 Aldo Zargani era nato nel 1933 a Torino da famiglia ebraica, di quelle famiglie ebraiche piemontesi con parenti un po’ ovunque, ricche di personaggi strani e memorabili, di cui hanno scritto anche i due Levi, Primo e Carlo, e una terza Levi, Natalia poi Ginzburg, torinese d’adozione e tanti altri ancora, in una straordinaria tradizione che lui rinnovererà con il suo primo libro, Per violino solo. La mia infanzia nell’aldiqua (1938-1945), (Il mulino, 1995, ristampato nl 2004), che resta il suo capolavoro: un libro destinato a durare, che non perderà mai la sua freschezza di tono e di invenzione, la gioia che attraversa le tragedie di cui all’inizio non si è nemmeno consapevoli, la vitalità sconfinata che oltrepassa la morte, le morti di tanti parenti e amici e sconosciuti, per approdare qui, contagiosa, benefica al cospetto di ogni lettore. 

 

Ho conosciuto Aldo che aveva già ottant’anni, sapevo varie cose della sua vita nel dopoguerra, della sua carriera professionale alla radio, della sua partecipazione alla vita pubblica e delle sue amicizie tra i politici della sinistra, dell’amore per Israele che non gli impediva uno sguardo spesso critico, se non feroce, eppure quando ci siamo incontrati faccia a faccia e abbiamo cominciato a parlare, cosa che poi abbiamo fatto praticamente per due giorni quasi filati, è stato subito il bambino del libro che mi sono trovato davanti, cresciuto, maturo, con molte rughe in più e la voce grossa e a tratti ruvida (e ironica e dolce), certo, ma intatto, conservato nella sua inesausta vivacità, nella sua capacità di gioia e incanto, e in qualche modo persino amplificato, purificato, da ciò che era diventato dopo. Reso immutabile come qualcosa che il tempo, invece di trasformare e a volte soffocare come a volte fa, aveva rafforzato e rivelato nella sua essenza più pura, che in esso non si era tanto conservata, ma era piuttosto cresciuta fino a conquistare la sua forma definitiva. 

 

È esattamente questo, ciò che rende incantevole Per violino solo, che parla, cinquant’anni dopo, dell’infanzia e dell’approdo all’adolescenza negli anni che precedono l’ingresso in guerra e poi in quelli in cui le ignominiose leggi razziali che oggi in molti tendono a minimizzare (quando invece a minimizzarsi sempre più è la loro umanità e il loro cervello) costringono la famiglia (padre, madre e due figli) a cercare scampo, inutilmente, prima sballottati per la per la penisola, quindi in Svizzera (si veda quel capolavoro che è il racconto “Profumo di lago”, prima ebook per Doppiozero e poi in In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), Marsilio 2017, che abbonda di altri racconti memorabili), e sulle montagne, con i bambini in un collegio protetti dai religiosi che lo gestivano e i genitori dalla gente del posto, fino alla liberazione, quando si fanno i conti delle perdite e delle responsabilità, della voglia di chiudere con il passato e della sua impossibilità. Conflitto che si trasforma presto nel dovere di memoria e nell’esercizio della testimonianza per ciò che ha vissuto in persona e per quello che hanno subito famigliari e amici e tutti coloro che hanno patito e sono periti nelle persecuzioni nazi-fasciste e nei campi di sterminio, che nel bambino diventato uomo diventerà abito perenne, tragico e leggero, persino sereno si direbbe, almeno in superficie, e che verrà portata con slancio, senza i tentennamenti e le stanchezze della lunga consuetudine, ovunque richiesta, dalle pagine di giornali e riviste, alle sale di conferenze e alle scuole di borgata. Più che un testimone, diceva lui, Zargani era un “attestatore”, sempre prossimo al “luogo dove il profumo della memora [sta per svanire], là, vicino al confine del deficit dove inizia il nulla del dimenticato”, e proprio per questo sempre in lotta con l’oblio, ma anche contro la tendenza a ricordare cose e fatti spogliati dell’emozione e di tutto il carico di vita che portavano con sé, appunto quel profumo che in ogni pagina che Zargani ha scritto continua a spandersi.

 

 

 

Sembra una cosa spontanea, solo un dono (solo!), e rischia di sembrarlo ancora di più per chi lo ha sentito parlare di persona, finendo inevitabilmente affascinato nella sua maestria affabulatoria; mente invece è il frutto di un grande lavoro sulla lingua e i suoi ritmi, che dell’assenza della persona del narratore trae forza, senza cedere al rimpianto di un modello da riproporre, e facendo semmai della costruzione della voce proprio di un affabulatore il suo effetto più efficace. Ciò che a Zargani è riuscito quasi sempre, a parte alcuni momenti del secondo libro, Certe promesse d’amore (Il mulino, 1997), laddove il desiderio di mostrare che il titolo di scrittore non è usurpato rischia di esibire invece il residuo di ingenuità che lo ha mosso. Ma si tratta di momenti sporadici; per il resto anche questo “romanzo”, che ripercorre la fine del conflitto e gli anni '50 del novecento, cioè l’adolescenza, i primi amori, la presa di coscienza della realtà italiana e internazionale, e i primi passi nel mondo del lavoro, alla Radio non ancora televisione italiana di Torino, del narratore, conserva, e per certi aspetti amplia la gamma delle situazioni e dei personaggi, la varietà dei toni e dello spettro narrativi del primo libro. E lo stesso faranno anche i racconti raccolti in In bilico, e in quelli che Zargani,  – assieme a interventi e a riflessioni sull’attualità e sul recente passato, sempre acuti, brillanti, divertenti e teneri, e insieme intransigenti per quanto sempre aperte alle ragioni e alle debolezze degli altri, mai proni a nessun senso comune, fosse pure quello degli amici e di coloro che hanno condiviso la sua sorte –, ha continuato a scrivere per "Doppiozero" e altre testate, in particolare “Pagine ebraiche”, fino agli ultimi giorni. 

 

Lo so che l’omaggio migliore che potrei fargli è parlare ancora dei suoi scritti e delle sue idee, ma in questo momento, in questi tristissimi momenti che si protraggono da mesi, mettere un po’ da parte le ragioni letterarie e lasciarsi andare per un po’ alla debolezza del rimpianto, all’inutile ma necessaria consolazione del dolore condiviso, al senso di vuoto che una morte sempre procura, non è da meno. E qui, tutti noi che abbiamo conosciuto Aldo Zargani e a cui già manca, indugiamo. 

Shift, l’ultimo testo che ci ha mandato un paio di mesi fa, comincia così: “Gli accadde dunque di spirare, morire come tutti, dopo una di quelle solite lunghe vite che si possono definire 'senza costrutto'. E, con tutto il tempo che aveva avuto a disposizione, non era neppure riuscito a capire il perché delle gioie e dei dolori, della salute e della malattia". Forse Aldo pensava anche a se stesso, perché spesso quanto più si è generosi con gli altri tanto più si è spietati con se stessi; ma se c’è stata una vita, lunga ma non solita, che invece di costrutto ne ha avuto molto, è stata la sua. E se qualcuno qualche perché “delle gioie e dei dolori, della salute e della malattia” ha saputo capire e comunicare agli altri, è stato di sicuro lui.

 

Leggi anche:

I testi di Aldo Zargani pubblicati su Doppiozero

Aldo Zargani | Profumo di lago, ebook, Doppiozero 2015

Luigi Grazioli | Aldo Zargani narratore. La sintassi e il libero arbitrio

Emilio Jona | Aldo Zargani, In bilico

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