Contemporanea 2018 / Danzare al tempo del crollo

Corpi (Matteo Brighenti)

 

Un corpo ha tutti gli altri corpi dentro di sé. Tutte le forme, le posture, le direzioni. Oggi, ieri, domani. È il primo e l’ultimo passo, il riverbero iniziale e finale della nostra presenza nel mondo. Dobbiamo imparare ad ascoltarlo per capire se, ora come ora, ci stiamo innalzando, stiamo cadendo o rimbalzando tra verità e racconto, realtà e rappresentazione. Sono le stesse prospettive che ha l’uomo illustrato da Andrea De Santis, l’immagine della XVI edizione del festival promosso dal Teatro Metastasio di Prato (24-30 settembre, doppiozero ha partecipato nei giorni 28, 29 e 30), che ne ha inaugurato la stagione: è a mezz’aria, sopra campeggia la scritta Contemporanea 18 Festival – Le Arti della Scena, sotto si affaccia un rombo di cielo squarciato da tre nuvole.

Tutto intorno il nero la fa da padrone. D’altra parte, il tema, avviato lo scorso anno, è Vivere al Tempo del Crollo. Etico, politico, sociale, artistico. L’oscurità avanza e la manifestazione diretta da Edoardo Donatini prova a contrastarla dando voce a corpi che, nell’incontro con la luce della scena, disegnano spazi di ricostruzione. Danzando. Il moto è (s)composto in atti e attimi, così da riuscire a esplorarlo, indagarlo passo dopo passo, afferrarlo compiutamente. E, infine, riconoscersi.

È il riflesso di una progettazione che, si legge nella nota curatoriale, pone al centro “il ‘processo’ come percorso necessario, come punto d’incontro dell’intera comunità, come confronto critico sull’opera nel suo divenire, come angolo di osservazione e sguardo aperto sul futuro”. Una piattaforma d’indagine che ha prodotto persino un seminario su invito a numero chiuso, La funzione culturale dei festival, varato con un messaggio collettivo d’auguri di matrimonio a Massimiliano Civica, consulente artistico della direzione del Metastasio.

 

Barbara Berti, Bau#1.


La struttura di una presenza 

 

Barbara Berti è immersa nel bianco, un ritaglio nel Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Il museo immaginato che compie 30 anni. Vestita di grigio chiaro e marrone aspetta nell’estremo angolo a destra. Ha i capelli raccolti in una coda che le scende lungo la schiena. Sembra una bambina composta al suo dei quattro cantoni.

Un gesto nel silenzio più rumoroso comincia una serie di aperture, chiusure, avvitamenti, che cercano di intrappolare un crinale, un declivio, uno scivolamento progressivo. BAU#1 – An interactive piece è la struttura (questo significa “bau” in tedesco) di una presenza, una testimonianza di sé, piccola e radiosa.

Sulle labbra le si forma il morso del cane, i denti, e poi il suono, un altro senso del “bau”, mentre il bianco delle luci lascia il posto al verde e al rosso, colori visualizzati da Berti medesima attraverso pratiche legate alla meditazione. Creano per terra un cerchio unito a un rettangolo, possono ricordare una serratura, forse per accedere proprio alla sua percezione.

 

Nello scherzo continuo delle ombre, sembra comparire alle sue spalle la sagoma dell’Italia, la nostra Penisola, dentro una sorta di tricolore critico, slabbrato e sfocato, con il grigio-marrone della danzatrice invece del bianco.

All’arrivo della parola, un filo di voce minuto e raccolto, BAU#1 muta nella didascalia animata del “disembodiment”, nel dialogo coreografico con gli spettatori su separazione e distacco tra l’azione del pensare e il pensiero stesso.

Domande suscitano domande, misurando lo spazio con il corpo e il corpo con il tempo. Se nel progetto di Kinkaleri All! (presenti a Contemporanea con il riallestimento del loro storico <OTTO>) le sequenze corporee restituivano le lettere dell’alfabeto, qui il movimento è la sillabazione di interi concetti, che si attuano nelle espressioni di gambe, mani, braccia, testa.

Con il gessetto, mentre distoglie lo sguardo, accenna per terra qualcosa come lo “stivale” intravisto poc’anzi, e dei cerchi, quasi i petali di un fiore oppure il gioco della campana, stretti in un occhio di bue. I passi, prima in avanti, adesso sono indietro, la luce si affievolisce e Barbara Berti torna nella posizione di partenza.

 

Gruppo Nanou, Mappe.


Lo spazio generato dai corpi

 

Dunque, è provato che si può “pensare con il corpo”, per citare il libro di Jader Tolja e Francesca Speciani. Già Einstein sosteneva che “abbiamo bisogno di pensare con sensazioni nei nostri muscoli”. Seguendo le Mappe di Gruppo Nanou nella Sala Campolmi dell’Istituto culturale e di documentazione Lazzerini, la danza è, per l’appunto, pensiero in atto, con un vocabolario coreografato da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, agito da Carolina Amoretti, Sissj Bassani e dalla stessa Bracci.

Per terra del nastro nero traccia tre figure (due triangoli e un trapezio), quante sono le danzatrici. Le linee spezzate dei gesti si fanno incontro, traiettoria, vicinanza in piena luce. Lo spazio è generato anche dai corpi e infatti i vuoti di campo lasciati liberi assumono caratteri, densità e calore altrettanto geometrici. “È una mappa – spiega la voce off di Amico – che il danzatore deve rispettare per ottenere quel limite capace di verificare l’evidenza del lavoro, sottolineandone i percorsi da intraprendere”.

Amoretti, Bassani, Bracci, in maglietta e calzoncini come ginnaste, tratteggiano una specie di meccanismo, ingranaggio cosmico, inquadrato qua e là dal commento del coreografo. L’autore è il creatore della nostra visione, guida solo noi, non pure loro: i suoi ragionamenti incidono su come, invece che su ciò che vediamo. In una simile cornice incomunicante, le tre ballerine ci appaiono sempre più straniate, assenti, tipo in trance.

 

Mappe, allora, appare un astratto esperimento di laboratorio, algido e concettuale. La musica (suono di Roberto Rettura) dal rimbombo di un qualche antro percorso dal vento si apre al ritmo, all’elettronica, tuttavia la qualità di diagonali, salti, avvitamenti, rimane immobile. “Compito della coreografia – prosegue Marco Valerio Amico – è evidenziare il limite per trovare le vie di fuga, per afferrarne l’incidente creativo”. Non si fa mai cenno alla risorsa imprescindibile per dare gambe al coraggio dell’inaspettato, ovvero il respiro, il soffio vitale, l’anima e il cuore.

Vanno giù le luci e al buio completo la sua voce torna a spiegare ciò che vedevamo e ora non vediamo più. Resta la sola, vera e propria protagonista, un poco oltre la fine, come le scie che si imprimono negli occhi appena chiusi, a ricordarci che qualcosa c’è stato. In questo caso, la perizia tecnica e la pulizia gestuale.

 

Claudia Caldarano: Sul vedere.

 

Metà incomplete

 

La parte mancante, nascosta alla visione, è il nucleo della ricerca di Claudia Caldarano Sul vedere – quel che resta del non aver ancora visto. Una figura si trascina sui gomiti nel rettangolo del Centro Pecci speculare a quello di Barbara Berti. Pare una contorsionista, perché ha il volto dietro le spalle.

Ma non è il suo, è una maschera messa alla rovescia, a indicare l’espressione nei tessuti della parte del corpo nascosta alla vista. Il volto in carne e ossa è chiuso dai capelli tenuti in una coda. Uno specchio, nero come il suo costume, è appoggiato per terra.

Le braccia sono da una parte, le gambe dall’altra, il davanti è il dietro, e viceversa. L’archetipo del Bifronte ci interroga su quale faccia mostriamo agli altri e quale, invece, celiamo. Siamo metà incomplete, cerchiamo di ricomporci, come descritto da Platone nel Simposio. La difficoltà di spostarsi con “gli occhi dietro la testa” è notevole, lo sforzo di raccontare l’identità di spalle non è da poco.

I capelli via via si slacciano, la maschera allenta la presa e s’intravede il vero volto di Caldarano. Nel respiro affannato, una volta sdraiata per terra, c’è tutto l’impegno che ha profuso per tentare di liberarsi dell’altra e ritornare in sé. La stanchezza ha maturato la possibilità dell’essere una.

I movimenti ricalcano quelli dell’inizio, a visi adesso invertiti. Lo scontro interiore di questa danzatrice “cubista” pare giunto a una sintesi, con la ricomposizione e superamento del doppio. E invece, di nuovo spalle al pubblico, veste allo specchio sé stessa e la maschera con una maglietta nera. È pronta per “uscire”, e se avanza, indietreggia, e se indietreggia, avanza, perché ha due orizzonti e un corpo soltanto. Così, Sul vedere diventa un “solo a due”, diciamo, lungo e insistito: l’ingresso della musica segna la fine della narrazione e l’avvio di pura azione. Ciò che rileva è l’effetto visivo, piuttosto che quello percettivo o interpretativo.

Terminati i giri e rigiri, si toglie definitivamente la maschera: lo specchio, attraverso cui ha danzato fino ad adesso, è ancora là. Non è bastato voltarsi dall’altra parte.

 

Siro Guglielmi, P!nk Elephant.


Il desiderio è un’estate al mare

 

Di spalle, Siro Guglielmi si riflette nella sua ombra, un’attesa carica, pensante, con moventi impercettibili della testa, dei glutei. P!nk Elephant parte nel Pecci che è stato di Barbara Alberti da un ordine calmo, una simmetria esibita. Guglielmi ruota il capo come se qualcuno lo chiamasse: ha un costume da bagno a vita alta e la luce tratteggia di fronte a lui quella che può rimandare a una fila di cabine. Il desiderio è un’estate al mare nell’ambivalenza tra presenza e assenza.

La flessuosità si impadronisce di lui, un fuoco mai uguale a sé stesso. Bellezza è anche forza. La musica (Alessio Zini, Cristiano de Palo) lo prende per mano, lo porta come in spiaggia, tra gli ombrelloni e le onde. Fa surf, e non solo perché ce l’ha scritto sul costume. Sono posture leggibili, caricaturali, il danzatore ha tecnica, eleganza, controllo, eppure il fine, a questo stadio, pare di nuovo l’esecuzione di un esercizio.

L’oggetto amato, attorno a cui Siro Guglielmi intende danzare, si direbbe essere la danza medesima. Predominante, quindi, è la volontà tautologica di mettersi alla prova, volare più in alto, cercando una forma che è semplice slancio, effetto. Un trampolino che ci consegna unicamente le vibrazioni di una sfida.

 

Silvia Gribaudi, Primavera contemporanea.


Ciò che si vede e ciò che è

 

Alle radici del corpo, alla sua essenza, cioè la nudità, risalgono Davide Valrosso e Silvia Gribaudi, con esiti peraltro opposti: compiacimento, da un lato, liberazione, dall’altro.

Nella piena luce dello Spazio K, Valrosso esibisce la sua corporatura atletica. Lo sguardo è anch’esso nudo. Un’esposizione di micromovimenti è l’introduzione alla Biografia di un corpo, sottolinea le pressoché infinite possibilità di attenzione che muscoli e tendini possono attirare su di loro e dilatare nello spazio. È il principio del gioco di prestigio: scoprire le carte, mostrarle nella loro innocua naturalezza, e poi coprirle per fare la magia. Ciò che si vede non è tutto quello che c’è.

Difatti, il danzatore avvolge presto il suo corpo nell’oscurità. Soltanto alcune pile ne impediscono la completa negazione al nostro sguardo. Quella pudica penombra è quasi un ritorno al grembo materno, all’assenza di fisionomia delle origini. La poca luce scolpisce il corpo nei dettagli, universo di presenze suggerite da un crescendo continuo di avanzamenti, torsioni, indietreggiamenti. Un teatro di ombre e mistero in cui l’uomo sembra poter riscrivere il proprio destino.

 

Spinto alla ricerca della forma assoluta, Davide Valrosso finisce per incontrare un lezioso manierismo. Ripetizioni su ripetizioni non vanno oltre il dato sensibile, non svelano altro di quanto non sia già trattenuto dalla luce. È come se, da un certo punto in poi, fosse rimasto ad ammirare la prestanza dell’idea coreografica, lasciandola nuda, simbolo affatto di pienezza, quanto di apparenza. Una maschera, alla stregua di quella dibattuta da Claudia Caldarano. Un costume (per fare) della scena.

A guardare e sentire Silvia Gribaudi nel campo del Centro Pecci di fronte a quello di Siro Guglielmi, il nudo rappresenta il modo più autentico di essere e accettare sé stessi. Tanto che gli applausi finali li prende così com’è, senza coprirsi. Il “clown” incarnato da Gribaudi è (diventato) quel seno, pancia, braccia, gambe, un’abbondanza di cui non ha vergogna, né paura, né chissà cosa, semplicemente perché esprime i segni lasciati e attesi dal tempo. È vita. Come disse, una volta, Anna Magnani al suo truccatore: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele venire”.

Primavera contemporanea brilla per la capacità di oltrepassare l’evidenza meccanica del corpo, grazie all’ironia, che permette un distacco ancora maggiore del “disembodiment” di Barbara Berti. Il solo è un estratto da What Age Are You Acting? The Relativity Of Ages – Le età relative sul tema delle trasformazioni corporee durante la vecchiaia, un lavoro condiviso in scena con Domenico Santonicola. Le primavere passano per tutti: la bruttezza non risiede tanto nello sfiorire della gioventù, quanto nella perdita di consapevolezza che il corpo, di per sé, non è mai impacciato, è il giudizio che lo rende tale.

L’energia parte da dentro, la grazia sta nell’intenzione prima ancora che nel risultato. Gribaudi spiega le varie posizioni che assume, misurandone la difficoltà in base all’età. L’evoluzione che raccoglie più entusiasmi è quando scorre da parte a parte aprendo le braccia e incrociando i piedi sulle punte come una ballerina classica. Tutto addosso le si muove come in una centrifuga. Ciò che conta è far cantare il corpo, farlo “esultare”, come intona Franco Battiato.

 

Un’ulteriore dote che la contraddistingue è il suo sorriso: non abbandona un istante le labbra e gli occhi. Non solo perché Primavera contemporanea è anche una canzonatura bonaria della vuota seriosità della danza odierna, cui, in parte, non sfugge nemmeno quella presentata al festival pratese, ma soprattutto perché essere vivi è una felicità. La fatica è il prezzo per meritarsela. E farla durare.

 

Kinkaleri, <OTTO>.


<OTTO>: danzare nel vuoto cadere cadere ancora (Massimo Marino)

 

Nel bianco del Centro Pecci, su un tappeto grigio va in scena la riedizione di <OTTO>, spettacolo di culto dei Kinkaleri, nato tra il 2002 e il 2003. Guardandolo oggi, ci rendiamo conto che allora si chiudeva una fase, quella dei “nuovi gruppi anni ‘90”, esplosione algida di nuovi furori d’avanguardia per interpretare e destrutturare un mondo minaccioso, in rapida terribile trasformazione, momento di sperimentazione e lacerazione su linguaggi e formati. <OTTO> era un prodotto maturo della danza novissima, della scena concettuale, di una ricerca dolorante di realtà attraverso il graffio, la ferita ma anche l’ironia e addirittura il sarcasmo destrutturante. Alle sue spalle c’erano l’11 settembre e tutti i crolli precedenti. Un mondo che si disfa e il buio del vuoto davanti. Lo raccontavo (più o meno) così sulla prima rivista di teatro online, “tuttoteatro.com”:

 

“Otto di Kinkaleri è una danza sul vuoto in forma di caduta. Un meccanismo basato sulla ripetizione e sulla variazione, sull’attesa e sulla sorpresa improvvisa, materiato di rari oggetti emblematici estratti dal nostro quotidiano consumismo, con azioni e suoni ridotti a riflessi, echi, brusii, incidenti. Un ‘atto senza parole’ beckettiano e post-pop, minimale. Un attore entra e cade facendo precipitare piccole cose che rimbombano sul pavimento con rumori amplificati da casse acustiche. Si alza. Esce. Rientra. Cade… Una donna passa, accenna esercizi ascoltando in cuffia la sua musica che si diffonde, attutita, fino alle nostre orecchie. Un altro uomo irrompe apparentemente più deciso, ma poi si trova a combattere col vuoto e, alla fine, cade anche lui. La danza è rifiutata pure dagli accenni di evoluzioni della brava danzatrice. Ma soprattutto si trasforma in un’opaca forza gravitazionale che porta ogni atto a finire rovinosamente sul pavimento, in un’anticipata, ritardata, rallentata inevitabile caduta. Patatine, yogurt, palloncini, un salmone, una figura in bianco e nero, disegnata, che punta qualcosa contro il pubblico, rotoli di scottex, perfino una tenda da campeggio entrano come supporti di un vuoto passare, come riempitivi di atti implacabilmente meccanici. Al microfono la voce emette solo respiri, ansimi e la musica si lascia amplificare dalle cuffie che a loro volta riproducono da un’altra fonte sonora… La ripetizione, la storditaggine di clown senza belletto chiamano le risate del pubblico: prima evidentemente nervose, a disagio, autoprotettive, poi più rilassate quando gli accenni alla recita diventano via via più espliciti. Il vuoto viene riempito da esibizioni, baffi finti, accenni di desideri che crollano inevitabilmente, come gli attori, fino alla caduta più da slapstick, il volto nella torta alla panna, in terra. In questo deserto illuminato bene da una luce secca, senza modulazioni, tanto più ansiogeno quanto più divertente, tanto più crudele quanto più aggrappato a oggetti, atti, distrazioni d’uso comune, si può perfino provare a segnare strade per inventare misure, tragitti, riferimenti: ma ogni percorso porterà sempre là, alla caduta, allo smarrimento. Con cattiveria spensierata. Senza enfasi”.

 

La magia di quello spettacolo, a pensarci oggi, era lo sberleffo alla tragedia incombente con spirito di impassibile clownerie alla Buster Keaton, intinta in un decennio di sperimentazioni e sfregi ai linguaggi normativi. Oggi cambiano gli interpreti: al posto di Cristina Rizzo, Marco Mazzoni e Luca Camilletti troviamo tre giovani, bravi performer, che il programma del festival non nomina (la concezione è sempre dichiarata della formazione storica della compagnia). Si legge: “Dopo 15 anni riprendiamo e riportiamo in scena un lavoro nella necessità di capire quanto ci sia ancora di vero in uno spettacolo che navigava nel vuoto, facendo del crollo l’emblema di una nuova era”. Aggiungerei del crollo e della riproduzione: tutto era serializzato, dalla musica rubata a un diffusore attraverso le cuffiette, poi “dimenticate” sul microfono e amplificate, alle cadute, agli oggetti di scena emblemi del mondo più pop, agli albori di un nuovo oscuro millennio ormai svuotati, nella loro inflazione, di investimenti simbolici. 

A rivederlo oggi, questo spettacolo sembra una lezione di anatomia sotto fredde luci su un passato prossimo che non passa e trascolora in inquietante presente, con meno divertimento e più “lentezze”: ma i ritmi sembrano gli stessi dell’originale, cambia l’occhio e la coscienza di chi guarda. Di crolli il nostro sguardo è ormai pieno e questo crudele rito di perdita e smarrimento parla anche alla nostra coscienza postuma di consunzione degli stessi sfregi ai linguaggi, causata negli anni dalla ripetizione di modalità espressive. Il “contemporaneo”, grazie alle affilate trame iterative di <OTTO>, dimostra tutta la sua capacità di consumarsi, di ripetersi, di correre continuamente il rischio di precipitare negli stessi buchi neri che scoperchia. Eppure lo spettacolo, per accumulazioni, ancora diventa irresistibile e conquista, con la forza della ricerca che, giocando con i linguaggi, sfregiandoli, diventa per sapienza ritmica e compositiva narrazione seducente.

 

Le foto degli spettacoli sono di Ilaria Costanzo.

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