Al MAST la prima antologica / Richard Mosse: immagini scomode

19 Maggio 2021

“Ma Marlowe non era il tipico marinaio (se non per la tendenza a raccontare storie); per lui il significato di un episodio non andava cercato all’interno del guscio come un gheriglio, ma all’esterno, avvolgendo il racconto che lo generava come un bagliore genera intorno a sé una zona di penombra, allo stesso modo in cui l’illuminazione spettrale del chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi.”

Joseph Conrad, Cuore di tenebra

 

Artista irlandese con una formazione in Letteratura inglese e Studi culturali, oltre che in Belle Arti, Richard Mosse si situa in una zona di confine tra fotografia documentaria e arte contemporanea, in un luogo dove questi due ambiti si incontrano e si scontrano, dando vita a nuovi immaginari.

Displaced, prima mostra antologica del fotografo, presentata dalla Fondazione Mast e curata da Urs Stahel, propone un percorso cronologico che parte dai lavori realizzati nei primi anni 2000 fino ad arrivare a quelli più recenti, tra cui la serie Tristes Tropiques realizzata nel 2020 nell’Amazzonia brasiliana. Attraverso 77 fotografie di grande formato, due suggestive videoinstallazioni e altre due significative opere video, la mostra traccia l’itinerario di ricerca di Richard Mosse, che si dipana lungo tre assi principali, individuabili nel significativo sottotitolo: Migrazione, Conflitto e Cambiamento climatico.

Una grande fiducia nel potere delle immagini di innescare un cambiamento sul piano della coscienza collettiva, che lo lega idealmente ai primi pionieri della fotografia documentaria, coesiste nell’artista con una piena cognizione dei limiti e delle criticità di questo genere di rappresentazioni, che ha come conseguenza la ricerca di modalità operative diverse da quelle classiche, a partire della scelta dei media da utilizzare.

 

Nella consapevolezza sia della crisi del fotogiornalismo e della fotografia documentaria comunemente intesa, acuita dall’avvento del digitale, sia del concetto stesso di fotografia e di immagine, Richard Mosse fa dei limiti della narrazione fotografica tout court i suoi punti di forza. Ogni narrazione, anche quella più descrittiva, comprende infatti un aspetto evocativo, che rimanda a qualcosa che va oltre il visibile, e che è in grado di potenziare la comunicazione, il messaggio, ed è lì che si situano queste immagini, è lì che risiede la loro forza. Nel libro del 2014 di Robert Shore Post-Photography: The Artist with a Camera è Mosse stesso che fa riferimento alla concezione dell’arte di Hans Belting, vista come “ultimo rifugio per l’inesprimibile, l’indicibile”.

 

© Richard Mosse - Pool at Uday’s Palace, Salah-a-Din Province, Iraq, 2009, Courtesy of the artist and Jack Shainman Gallery, New York Truppe della Compagnia Alfa, Secondo Battaglione, 27° Fanteria “Wolfhounds” a riposo vicino alla piscina del palazzo di Uday Hussein, sulle montagne Jabal Makhoul, nella provincia di Salah-a-Din, Iraq centrale. Questa residenza estiva affacciata sulla valle del fiume Tigri è stata distrutta da bombe anti bunker JDAM americane all’inizio dell’invasione alleata dell’Iraq nel 2003, poiché si pensava che Saddam e il figlio potessero nascondersi in questa località remota. Noto per la sua crudeltà, Uday Hussein era il primogenito di Saddam.


I primi lavori di Mosse appartengono a quel genere di fotografia documentaria definito aftermath photography, la fotografia dell’indomani, quella che documenta ciò che accade (e che resta) dopo l’evento traumatico, dopo la catastrofe, rifuggendo la rappresentazione del momento culminante della Storia. Si tratta di immagini sospese, scattate in Bosnia, in Kosovo, nella striscia di Gaza e lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti, in cui raramente si vedono figure umane, ad eccezione della serie del 2009 Breach, che racconta l’occupazione dei palazzi imperiali di Saddam Hussein in Iraq da parte dell’esercito americano attraverso scatti stranianti, come quello che ritrae alcuni soldati che riposano al sole vicino alla piscina di uno di questi edifici distrutti. 

In queste fotografie serpeggia già la consapevolezza della difficoltà di rappresentare l’attualità attraverso le immagini, della complessità di questa impresa, una riflessione diventata ormai centrale per molti artisti e teorici (significative in tal senso, anche se convergenti verso risultati estetici e strategie operative di diverso tipo sono le considerazioni di Hito Steyerl, che arriva a coniare l’espressione documentary uncertainty per dare conto della problematicità delle immagini documentarie e della, per utilizzare le parole dell’artista, “intensità del problema della verità”).

 

Il percorso espositivo segue l’itinerario geografico di questo fotografo-viaggiatore, che si inoltra in territori in cui il peso della storia è evidente, e dove il legame tra territorio, popolazione ed eventi storici è inevitabile ed inestricabile. 

Tra il 2010 e il 2015 Richard Mosse ha concentrato la sua attenzione sul Congo, un territorio meraviglioso quanto difficile, un paese con un complesso passato coloniale e con una situazione politica instabile. Dopo il genocidio in Ruanda del 1994, infatti, c’è stato l’insediamento di diversi gruppi di milizie ribelli, che ancora oggi continuano ad alimentare scontri, guerre e violenze, e che secondo l’International Rescue Commitee hanno causato più di cinque milioni di morti, dovuti in gran parte a malattia e fame, un vero e proprio disastro umanitario. Questo vastissimo stato è anche ricchissimo di risorse minerarie, tra cui il coltan, un minerale altamente tossico che viene estratto nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Kivu Nord, e da cui si ricava il tantalio, che viene largamente utilizzato nell’industria elettronica. È proprio in queste zone che il fotografo si è recato per indagare e raccontare la complessa situazione socio-politica del luogo, a cui sono dedicati il progetto Infra e la videoinstallazione immersiva in sei parti The Enclave, commissionata per il Padiglione Irlandese alla 55.Biennale di Venezia. In questa occasione Richard Mosse intraprende quella che è una vera e propria riflessione sulla fotografia documentaria e sui dispositivi di rappresentazione della realtà, all’interno della quale la ricerca e la scelta di questi ultimi assume un ruolo fondamentale, non unicamente funzionale, bensì significativo dal punto di vista concettuale.

 

© Richard Mosse - Platon, eastern Democratic Republic of Congo, 2012, Collection Jack Shainman Fattoria vicino a Bihambwe, territorio di Masisi, Kivu Nord. Questi pascoli meravigliosi sono oggetto di uno scontro senza quartiere nell’ambito di un conflitto territoriale che non accenna a cessare. Già appartenenti a tribù congolesi indigene che vivono di agricoltura e caccia, queste terre sono state espropriate da milizie costituite da esponenti di tribù pastorizie come i tutsi provenienti dal vicino Ruanda, che hanno abbattuto le foreste primordiali per ricavare pascoli per le loro greggi. Le popolazioni locali sono state private delle loro proprietà con l’intimidazione e la violazione dei diritti umani. La valle è stata teatro di recenti scontri che hanno coinvolto gruppi armati quali M23, Nyatura, APCLS, Raiya Mutomboki, saccheggi ed estorsioni da parte dell’esercito nazionale congolese (FARDC). Serie Infra.


Per realizzare queste opere, l’artista ha utilizzato Kodak Aerochrome, una pellicola sensibile ai raggi infrarossi sviluppata a scopo militare durante la Seconda Guerra Mondiale per localizzare i soggetti mimetizzati, ora fuori produzione. Questa tecnologia è capace di registrare la clorofilla presente nella vegetazione, trasformando l’immagine in una straordinaria visione allucinata, in cui il verde intenso si trasfigura nei toni del rosa e del rosso. I paesaggi, le scene con i ribelli o con i civili, i rifugi di fortuna costruiti dalle persone del luogo, diventano elementi di un immaginario sublime, in cui la bellezza e la durezza di ciò che osserviamo si rafforzano a vicenda. Come ha ben spiegato il curatore della mostra Urs Stahel, “L’artista è estremamente determinato a rilanciare la fotografia documentaria, facendola uscire dal vicolo cieco in cui è stata rinchiusa. Vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”. 

 

Nella successiva serie di lavori, focalizzata sul fenomeno della migrazione di massa e realizzata tra il 2014 e il 2018, Mosse ha deciso invece di utilizzare una termocamera in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi, assemblando quelle che sono delle vere e proprie mappe termiche. Anche in questo caso si tratta di una tecnica di ripresa sviluppata in ambito militare, e utilizzata sin dalla guerra di Corea, in grado di visualizzare fino a una distanza di 30 km, e classificata come arma. Il fotografo si reca in diversi campi profughi, tra cui quello di Skaramagas in Grecia, registrando la complessità della situazione vissuta da queste persone, che vivono in una dimensione sospesa, in balia della mai risolta tensione tra accoglienza e rimpatrio, tra politiche di apertura e di chiusura, e contrapponendo la loro situazione di immobilità alla marcia invece inesorabile e inarrestabile delle merci, sempre libere di circolare, come evidenzia Urs Stahel nel catalogo. Sotto lo sguardo impassibile della termocamera,i luoghi e le persone perdono la loro definizione e si trasformano in astrazioni in bianco e nero, definite dal calore che emanano i loro corpi, come vediamo nella serie delle Heat Maps, nella videoinstallazione Incoming e nel video wall Grid (Moria).

 

© Richard Mosse - Skaramagas, Athens, Greece, 2016, Collezione MAST Skaramagas, situato accanto a un porto per navi container, è considerato uno dei campi profughi meglio organizzati della Grecia. Qui 3000 rifugiati, di cui la metà minori, sono ospitati in piccoli container dotati di acqua corrente, elettricità e aria condizionata. Serie Heat Maps.


La scelta di utilizzare questo tipo di tecnologie non è certo casuale. Come osserva Kevin Robins nel breve saggio Into the image: visual technologies and vision cultures, “Le capacità di queste nuove tecnologie visive sono sicuramente impressionanti. Ma quanto sono significativi questi sviluppi? E, anzi, qual è la vera natura del loro valore? […] Quello che mi sembra davvero importante è la ricerca delle forze sociali e culturali che hanno stimolato lo sviluppo della visione automatica e cibernetica. Queste nuove tecnologie visive sono state modellate da alcuni particolari valori della cultura occidentale: sono state influenzate dalla logica di razionalità e di controllo, e da una cultura che ha ambizioni militaristiche e imperialistiche.” Richard Mosse crea immagini che richiedono di essere guardate due volte, per ciò che rappresentano, e per la tecnologia visiva che è stata utilizzata, che viene privata del suo scopo originario e impiegata per creare immagini potenti, coinvolgenti, in grado di restituire le zone d’ombra della realtà, e di far vivere all’osservatore una sensazione di complicità e di disagio verso ciò che sta guardando, come spiegato dall’artista stesso.

 

© Richard Mosse - Still from Incoming #27, Mediterranean Sea, 2016, Private Collection SVPL Battello gonfiabile a chiglia rigida (RIB) guidato dalla Guardia di Finanza trasferisce i migranti salvati su una nave della Guardia costiera croata al largo delle coste libiche.


Ed è proprio Urs Stahel che rimanda al concetto di sensor realism (realismo dei sensori), coniato da Rune Saugmann, Frank Moller e Rasmus Bellmer in riferimento alla serie Heat Maps, termine con il quale si intende “[…] un realismo estetico basato sulla replica visiva delle tecnologie introdotte per la visualizzazione e la gestione di un problema, piuttosto che la rappresentazione fotorealistica di un problema.” La domanda che si pongono gli autori è decisiva: “Che tipo di intervento politico si innesca quando gli artisti coltivano quello che teorizziamo come realismo dei sensori – un’estetica post-fotografica che può essere utilizzata come strategia per impegnarsi, ed indurre gli osservatori ad impegnarsi, nei confronti delle politiche di produzione dei dati visivi?” 

 

Tra il 2018 e il 2019 lo sguardo del fotografo si rivolge alla foresta pluviale sudamericana, dove affianca alla visione aerea dei crimini ambientali perpetrati dall’uomo nell’Amazzonia brasiliana mostrata in Tristes Tropiques, quella più analitica e di dettaglio, focalizzata sulla complessità della biodiversità riscontrabile in Ultra. Nel primo caso, Mosse utilizza droni per riprese aeree e una pellicola multispettrale impiegata nel campo della più avanzata tecnologia satellitare per mappare il degrado ambientale risultante dall’attività organizzata e pianificata dell’uomo in questi luoghi, rilevando le tracce della deforestazione, degli allevamenti intensivi, delle miniere illegali. In Ultra, invece, si avvale della tecnica della fluorescenza UV per ispezionare il sottobosco, raccontando attraverso immagini dall’indubbio fascino estetico le dinamiche e gli equilibri del mondo naturale, che, tra convivenza e parassitismo, si mostrano in tutto il loro splendore e la loro inestimabile, e oggi minacciata, ricchezza.

 

© Richard Mosse - Dionaea muscipula with Mantodea, Ecuadorean cloud forest, 2019, Courtesy of the artist and carlier | gebauer, Berlin/Madrid Serie Ultra.


La formazione letteraria di Richard Mosse riecheggia in maniera suggestiva nei titoli di alcuni dei suoi lavori, come ad esempio in Tristes Tropiques, in cui è inevitabile il riferimento al saggio del famoso antropologo francese Lévi-Strauss pubblicato nel 1955. Un libro che racconta dei viaggi compiuti dall’autore dal Brasile al Pakistan, che è anche un vero e proprio viaggio nella memoria, “denso di meditazioni sul senso della civiltà umana e sul destino di essa”, come scrive Ugo Fabietti. The Enclave è invece ispirato al celebre Cuore di tenebra, che Joseph Conrad ha scritto avendo ben in mente i sei mesi trascorsi in Congo nel 1890, quando la regione era sotto il giogo della politica di sfruttamento di Leopoldo II del Belgio. “L’esperienza africana” scrive Silvia Fiorini nella prefazione all’edizione del 2005, “marcata dalle atrocità e dalla violenza del colonialismo, è devastante per Conrad […]. Questo mondo di immagini ‘scomode’ diventa il bagaglio di ricordi che nove anni dopo danno vita alle intense pagine di Cuore di tenebra, romanzo che ci introduce, come osserva Italo Calvino, ‘nel nodo dei problemi che dominerà la cultura occidentale del Novecento’.” Il valore di questi riferimenti letterari non è casuale o secondario, ma piuttosto fondativo nella poetica dell’artista.

 

Richard Mosse ci conduce attraverso un itinerario di immagini scomode, che mettono in luce tutta la complessità e l’ambiguità insita in ad ogni narrazione, e nella realtà, in una costante tensione tra etica ed estetica che rende le sue opere potentemente rivelatrici, capaci di mostrare quelle che Lévi-Strauss chiama le “forme più infelici della nostra esistenza storica”. E guardando queste immagini, non possiamo non convenire con l’antropologo francese quando, proprio in Tristi Tropici, osserva che “questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo, non è certo riuscita a produrle senza contropartita.”

 

Richard Mosse, Displaced

Fondazione Mast - 7 maggio 2021-19 settembre 2021-05-15.

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