Saggio sul capitalismo artistico / Lavoro reputazionale: i proletari dell’immagine post-digitale

8 Dicembre 2020

 

In questo testo non si farà un’avvocatura del lavoro dell’arte, né si parlerà dei modi in cui l’arte sia, in maniera quasi generalizzata, un settore di sfruttamento e precarietà. Piuttosto si guarderà a come le entità instabili dell’arte anticipino tendenze di sfruttamento e auto-sfruttamento”. In Teoria del lavoro reputazionale. Saggio sul capitalismo artistico (Milieu, 2020), Vincenzo Estremo chiarisce subito il punto: partire dalle aporie del sistema dell’arte contemporanea per costruire una teoria del lavoro artistico. 

Il libro si dipana attorno a tre nuclei tematici – tempo, media e immagine – con numerosi esempi tratti da un’ampia cultura del visuale, in particolare dei media e dell’immagine in movimento: fra i casi citati troviamo Harun Farocki, Hito Steyerl, Cao Fei, Ed Atkins, Liam Gillick, Superflex, Forensic Architecture, Alterazioni Video, Elisa Giardina Papa, ma anche Francois Truffaut, Ermanno Olmi e Pier Paolo Pasolini, Black Mirror e BoJack Horseman. Estremo analizza tanto la rappresentazione del lavoro quanto le logiche che presiedono al funzionamento degli apparati e dei protocolli che trasformano “la classe creativa in cognitariato”.

 

“La Sortie de l'usine Lumière” (1895).


La prima immagine su cui si sofferma è La Sortie de l'usine Lumière, l’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière di Lione, atto di nascita del cinematografo ma anche prima mise en scène della storia del cinema: le riprese infatti sarebbero state effettuate di domenica, cosa che spiega l’abbigliamento degli operai. La scena è la principale fonte di ispirazione per Arbeiter verlassen die Fabrik (1995) in cui Harun Farocki, a distanza di cento anni, mostra il lavoro non solo come un fatto economico ma anche “as the very condition of what it means to remain human” (Elsaesser, 2004) ed esplora l’incontro tra una tecnologia e un luogo – il cinema e la fabbrica – (Farinotti, 2017) a cui offre una nuova cornice, quella del museo, in cui per Estremo sembra compiersi il processo di completa smaterializzazione del lavoro e dell’esistenza. 

 

Cao Fei, “Whose Utopia” (2006).


Cattedrale dell’“economia estetica”, lo spazio dell’arte necessita di nuove profanazioni: l’autore cita ad esempio Cao Fei che in Whose Utopia (2006) invita le operaie e gli operai della Osram (nei pressi di Hong Kong) a interrompere il ritmo della produzione impegnandosi in liberatorie pratiche coreutiche; mentre in The Working Life (2013) dei Superflex, l’ipnoterapeuta danese Tommy Rosenkilde interpella il pubblico, accompagnandolo nella presa di coscienza del nesso tra la sua fragilità psicologica ed esistenziale e la precarietà che contraddistingue il lavoro nello scenario neoliberale. Please, stop! Just sitting there, lazy, useless, unproductive… Così Rosenkilde esorta la nuova forza lavoro dello sguardo a forme di resistenza improduttive e anti-efficientiste in grado di inceppare la macchina della produzione immateriale. Un’interpellazione, questa, che richiama subito alla mente l’arringa iniziale del più consapevole ragionier Total in La proprietà non è più un furto (1973) di Elio Petri: 

 

Io, io, io, io, io… Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho, fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere nulla più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. E nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo molti si ammalano di mali vergognosi. Si riempiono il corpo di piaghe, dentro, e fuori. Tanti altri cadono, muoiono. Vengono esclusi, distrutti, trasformati. Diventano bestie, pietre, alberi morti, vermi. Così nasce l'invidia. E in questa invidia si nasconde l'odio di classe, che è composto in egoismo e quindi reso innocuo. L'egoismo è il sentimento fondamentale della religione della proprietà. Io sento che questa condizione mi sta diventando insopportabile, così come lo sta diventando per molti di voi.

 

Flavio Bucci, “La proprietà non è più un furto” di Elio Petri (1973).


Mettendo bene a fuoco una serie di nessi niente affatto scontati come quelli tra immagine e credito, debito e tempo libero, media e governamentalità, reputazione e controllo, l’argomentazione di Estremo è serrata e sostenuta da frequenti riferimenti ai teorici dell’operaismo italiano (Paolo Virno, Maurizio Lazzarato, Antonio Negri), all’antropologia sociale di David Graeber, al pensiero anarchico di Errico Malatesta, alla teoria politica di Chantal Mouffe, alla sociologia politica di Luc Boltanski ed Ève Chiapello e, ancora, alle teorie dei media di Friedrich A. Kittler e Jussi Parikka. 

 

In tutto il testo riecheggia ad esempio l’analisi di Virno su come le forme di vita contemporanee siano caratterizzate dalla “condivisione di generiche attitudini e competenze linguistiche e cognitive” (Virno, 2002) che non hanno nulla a che vedere con la professionalità o il mestiere, ma con il cosiddetto general intellect della moltitudine post-fordista. Sollecitato da Virno, che riconosce alla moltitudine la possibilità di mettere in pratica un “virtuosismo politico non servile”, Estremo si chiede dunque come questa nuova classe operaia, senza “luoghi speciali” ma dotata di un’intelligenza collettiva, possa sottrarsi al ricatto del lavoro flessibile, ubiquo e deregolamentato.

 

L’autore esplora come il mondo dell’arte contemporanea sia costruito su livelli di ambiguità, fascinazione e commodification – misti ad ansia e inautenticità (Boltanski- Chiapello, 2005) – tali da produrre alienazione mascherata da promessa di emancipazione. Dal suo punto di vista l’arte esprime in massimo grado, e addirittura anticipa, la deregolamentazione del lavoro e la richiesta di flessibilità proprie del capitalismo neoliberale, nonché la sua capacità di assimilare le critiche che gli vengono mosse mettendo a regime finanche il tempo libero, la sfera affettiva e relazionale. 

 

La messa a sistema delle energie creative delle lavoratrici e dei lavoratori si realizza in particolare nella colonizzazione del tempo libero e della sfera emotiva via social media, in cui l’etica del lavoro si riversa definitivamente trasformata in estetica dell’edonismo, in un circuito chiuso e continuo di ripetizione dell’identico e di strategie governamentali in grado di risucchiare la molle esistenza della classe creativa, come accade agli avatar di Ed Atkins.

 

Ed Atkins, “Safe Conduct” (2016).


L’“economia artistica” sembra essere diventata l’epitome di un mondo dove il lavoro è sempre più basato sul modello della gig economy, forgiato sull’inganno dell’autonomia, del self branding narcisistico e dell’iper-competitivà. Per Estremo, la forza lavoro dell’arte agisce all’interno di una temporalità informale e “afasica”, conseguenza dell’alto grado di smaterializzazione e deterritorializzazione che caratterizza il lavoro contemporaneo. È immersa in un costante stato di alterazione che le impedisce di accorgersi d'essere sfruttata, troppo impegnata in una “asintotica” rincorsa verso un posizionamento, che richiede investimenti ad alto valore simbolico nella speranza di alimentare reti sociali in vista di futuri incarichi. Una classe di prosumer intrappolata in un corpo digitale e impegnata nella continua esposizione del Sé e nello “sfruttamento autoindotto” della propria immagine che necessita riconoscimento – come in Nosedive (2016), primo episodio della terza stagione della serie Black Mirror

 

Si tratta di un processo anticipato da un certo atteggiamento narcisistico dell’artista di fronte al video negli anni Sessanta e Settanta (Krauss, 1978) e che per Estremo trova la massima espressione nel “broadcasting tautologico” del Sé che ha luogo sulle piattaforme digitali, prima fra tutte YouTube. Per definire questa pratica l’autore conia un neologismo: l’immcoin, ovvero l’unica moneta di scambio “altamente volatile” di cui dispongono le lavoratrici e i lavoratori dell’arte, la propria immagine riflessa, efficiente e performante anche in assenza di una vera performance. 

Se in un regime di estrema opacità ipermediale il lavoro si configura come “atto estetico e narcisistico dislocato sulle piattaforme dei media”, il personal computer e un account instagram diventano la conditio sine qua non dell’iper-produttivismo artistico e dell’autosfruttamento. Del resto, a fronte della maggiore flessibilità e autonomia nella gestione del tempo lavorativo – che vanno di pari passo con l’erosione di garanzie, tutele sanitarie e premi previdenziali – la governamentalità della vita lavorativa e non, è garantita proprio dai media che plasmano il “proletariato dell’immagine post-digitale”. 

 

Estremo pone particolare enfasi sull’immagine video in quanto “oggetto mediatico ubiquo” e, con Lazzarato, “strumento per la definitiva deterritorializzazione del capitalismo”, chiave di volta di questa governamentalità algoritmica. Inizialmente usato come tactical media dalle compagini più critiche e radicali del media-attivismo dentro e fuori l’arte contemporanea – grazie alla diffusione negli anni Sessanta delle prime SONY Portapack – il video sarebbe stato convertito in vero e proprio mezzo di produzione e assimilato all’interno dei flussi digitali dell’economia neoliberale e della cultura convergente. Per l’autore il video ha anticipato il “nuovo paradigma della produttività umana” dando luogo a uno “tsunami documentario di dati e immagini”. 

 

Per descrivere questo processo Estremo riprende l’analogia marxiana tra vampirismo e capitalismo, sottolineando come lo sfruttamento del capitalismo digitale consista nel fare delle persone stesse un surplus, attingendo sempre più alla sfera emotiva, facendo leva sull’affezione e la passione per alimentarne la dedizione al lavoro. A garanzia di tutto ciò la colonizzazione indistinta di vita pubblica e privata da parte delle reti mediali. Cita ad esempio Technologies of Care (2016) di Elisa Giardina Papa, la quale intervista lavoratrici e lavoratori - users (un redattore di testi, un grafico, una social media follower, una bot-fidanzata etc…) mostrando come la questione dell’economia reputazionale si intreccia con il problema delle discriminazioni di genere, della globalizzazione e dell’esternalizzazione nelle fabbriche del lavoro digitale nel sud del mondo. 

 

Il turco meccanico, stampa tratta da J. Racknitz, "Ueber den Schachspieler des Herrn von Kempelen und dessen Nachbildung" (1789). Nel 1769 Wolfgang Von Kempelen costruisce per conto della regina Maria Teresa d’Austria, un automa azionato umanamente e in grado di giocare a scacchi. La figura seduta a gambe incrociate davanti a una scatola su cui era poggiata una scacchiera, aveva le fattezze stereotipate di un ottomano e per questo motivo viene ricordato come il turco. Oltre al razzismo e ai cliché sugli avversari ottomani rappresentati come automi – la battaglia di Vienna del 1683 aveva fatto proliferare tracce caricaturali simili in tutto il Sacro Romano Impero – l’automa di Von Kempelen rivive oggi in forma di simbolo di tutte quelle attività vendute da Amazon Mechanical Turk come servizi informatici che non possono essere implementati da nessun software.


Anche se la genesi del libro si colloca in uno scenario pre-pandemico, nondimeno esso si inserisce perfettamente nell’attuale dibattito sul lavoro culturale generato dalla pandemia di Covid-19. Infatti, la disamina di questa crisi permanente del lavoro e dell’etica del lavoro, assume particolare rilievo e significato all’interno di un nuovo regime di separazione che ha prodotto una vera e propria domesticazione dell’esperienza culturale (sinora inedita per il settore dell’arte contemporanea). Questa consiste nel paradossale rito quotidiano del lavoro non necessario, che abbandona i luoghi fisici dell’industria culturale per trasferirsi nell’infrastruttura digitale che ha comunque bisogno di macinare contenuti ed essere sempre perfettamente lubrificata. 

Nei fatti stiamo assistendo a un climax di tutto ciò che Estremo descrive nel suo libro: un movimento ambiguo e contraddittorio fatto di stasi e accelerazione che, se da una parte inibisce sempre più l’agency e sterilizza il processo di soggettivazione invisibilizzando il cognitariato, dall’altra permette nuove e più intense forme di controllo (reciproco!) dello sguardo, dando alla metafora del “bordello senza muri” di Jean Genet un significato nuovo e inaspettato.

 

Specie nei passaggi più narrativi e di piacevole lettura in cui riecheggia un senso di viva partecipazione e testimonianza diretta di ciò che descrive, Estremo ci ricorda il Bianciardi di La vita agra (1962): “Nel nostro mestiere […] occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impianto sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare, fare polvere, una nube di polvere possibilmente e poi nascondercisi dentro”. 

Certo, la sua analisi è impietosa ma l’esito, a ben vedere e contrariamente a quanto ci si possa aspettare, è sinceramente affermativo. “Con la testa fra le nuvole, ma con i piedi ben saldati a terra”, Teoria del lavoro reputazionale propone infatti uno sforzo di immaginazione politica che riguarda il non-ancora-qui, qualcosa che è ancora in potenza e che “nel superamento dell’ossessione reputazionale ed egoica, guardi alla riappropriazione della libertà del tempo libero dal lavoro e ad azioni radicate nella solidarietà”. 

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO