Vanni Codeluppi e la vetrinizzazione sociale / Il divismo: mettersi in mostra

28 Dicembre 2017

Lo scorso 5 Ottobre, il New York Times ha messo nero su bianco quello che tutti sapevano, dando la stura a uno scandalo di dimensioni globali, destinato – speriamo – a non esaurirsi troppo presto: Harvey Weinstein, famoso produttore e degno rappresentante nell'empireo hollywoodiano di tanti potenti in giro per il mondo, ha per anni abusato del suo ruolo per molestare sessualmente attrici e collaboratrici.

C'è, in un'altra galassia, Favij. Il suo canale Youtube conta più di quattro milioni di follower e si offre come orizzonte ambito da ogni ragazzino. All'apertura delle scuole, non sono stati pochi gli studenti che hanno preferito lo zainetto personalizzato con il suo nome a quello dei soliti cartoni animati giapponesi. Quest'anno, così è andata: meno tartarughe ninja e più Youtubers

 

È l'incrociarsi casuale di queste due evenienze nella mia agenda di ordinario lettore dei fatti di cronaca e di papà interessato a risparmiare il più possibile sul costoso apparato di ammennicoli a corredo della frequentazione scolastica dei propri piccoli, a mettermi voglia di prendere in mano il nuovo lavoro di Vanni Codeluppi dedicato al divismo (Il divismo, Carocci, 2017), alla ricerca del fil rouge che li tiene insieme. Si capisce, infatti, che, lungi dall'essere archiviabile come oziosa attività per nostalgici dei vecchi merletti, andare a fondo del problema del divismo rappresenti, oggi più che mai, un modo per tagliare trasversalmente alcune dirompenti questioni della nostra socialità. Interessante è, a questo proposito, il percorso attraverso cui Codeluppi arriva a una tale consapevolezza. Sociologo dei consumi fra i più apprezzati in Italia, egli fa dell'interesse verso "lo spettacolo della merce" (2000), la chiave di volta della propria ricerca. Dalla pubblicità (1997) al brand (2001), dalle vetrine dei punti vendita a quelle dei social network (2007, 2010), i suoi lavori mostrano come sia proprio la dimensione del mettersi in mostra a costituire un'inesorabile linea di fuga fra passato e presente, in grado di comprendere in un'unica traiettoria le grandi trasformazioni dell'universo dei consumi, dal punto vendita fino alle ultime tendenze della rete. Che lo si chiami "vetrinizzazione sociale" (2007) o "era dello schermo" (2013), si tratta del medesimo assunto ovvero la progressiva (e forse, messa così, anche un po' distopica) resa dell'umanità al potere dei media, di cui il divismo rappresenta la teoria, l'impalcatura di base. 

 

Il libro di Codeluppi, da questo punto di vista, è doppiamente utile, intanto perché, intelligentemente, segnala la connessione fra ambiti di indagine in genere separati (chi direbbe che studiare il mito di Marylin Monroe possa essere utile per capire le nuove forme di comunicazione online di influencer e sedicenti tali?) oltre che di dominio di "specialisti" dal pedigree differente (storici del cinema, sociologi, economisti, semiologi). D'altro canto, perché, come di consueto, Codeluppi ci risparmia la fatica di documentare l'evoluzione del fenomeno, offrendo una panoramica ampia, a volo d'uccello, sui principali autori che, dalle origini fino ai giorni nostri, si sono confrontati con il divismo, con il risultato di orientare i lettori in un ambito di studi ampio e complesso, in poche pagine (un centinaio). Ci sarà sempre tempo per approfondire, magari soffermandosi su uno dei tanti suggerimenti che il libro dissemina lungo il suo svolgimento.

 

Andando nel merito dell'interpretazione proposta, il libro individua tre momenti fondamentali di articolazione del divismo, mettendoli, mcluhaniamente, in relazione con i mezzi di comunicazione che di volta in volta si sono succeduti a interpretarne le sorti. Si riconoscono, così, una fase di fondazione, parallela alla nascita della settima arte, una intermedia, legata alla progressiva egemonia della televisione e un ulteriore sviluppo associato alle tecnologie digitali e al web sociale.

 

Il divismo – è cosa nota – fa tutt'uno con Hollywood. Funzionale all'alone di sacralità che ognuno di noi sarebbe naturalmente tentato di riconoscere al divo di turno (parola che non a caso deriva dal latino divus, divinità) è la separazione dal mondo. Hollywood rappresenta a tutti gli effetti un doppio del mondo, una gabbia dorata, dotata di regole proprie, che vive come rappresentazione e sublimazione dei desideri dell'uomo qualunque, a patto di esserne fisicamente separata. Questo ruolo lo svolge fin dagli inizi: già negli anni 10 del novecento, viene regolarmente battuta da orde di turisti in cerca di un qualche contatto con il suo mondo luccicante, dominato dal lusso e dalla pacchianeria. Ma è negli anni 30 e 40 che si consolida il "sistema", con il sopravvento degli studios sugli attori. Essi diventano proprietà delle loro produzioni, che sono pronte a infarcirli di denaro, pur di poterne controllare ogni ambito della vita pubblica. È questo il momento in cui si creano delle identità feticcio costituite da un calcolato incrocio fra elementi biografici dell'artista, stereotipi di genere e personaggi interpretati: d'ora in poi, ogni uscita pubblica dell'attore e, più in generale, della macchina produttiva che gira intorno a lui, non potrà che concentrarsi a rafforzare questa sovrapposizione.

 

È così che Humprey Bogart finisce per essere l'Humprey che tutti conosciamo, ovvero a partire dalla coincidenza della sua biografia da ribelle (espulso dall'università per indisciplina), dello stereotipo del maschio burbero ma in fondo buono, dei suoi ruoli sul grande schermo che andranno a confermare una tale identità. Ai produttori hollywoodiani è, così, subito chiaro che il loro empireo deve proporsi come spazio morale, rivolto alla veicolazione di significati ideologici legati ora alla perpetuazione del sistema capitalistico (individualismo piccolo borghese) ora ai precetti morali dominanti. Fanno sorridere le "clausole di moralità" che avrebbero comportato la risoluzione dei contratti nel caso in cui gli attori fossero stati accusati di adulterio, salvo osservare che lo spazio sovraesposto del piccolo mondo dello star system non può che costituirsi come quadro simbolico per milioni di persone. In questo senso, a Hollywood, il privato è necessariamente politico, ieri come oggi. 

 

Fra gli anni 40 e gli anni 50 avviene un indebolimento di questa attitudine "totalitaria" con la famosa rottura del monopolio verticale delle major ad opera della corte suprema e il progressivo diffondersi della tv. Codeluppi attribuisce l'emergere di figure di antidivo come quella di James Dean al mutato assetto aziendale delle più importanti compagnie di produzione (che, dopo l'intervento della corte suprema, non sono più in grado di ingaggiare per lunghi periodi i loro attori) e, d'altra parte, alla concorrenza delle tv che riduce drasticamente il numero di spettori nelle sale, sposando un determinismo economico e tecnologico che, alcune volte, finisce per sembrare eccessivo: ogni scelta di carattere simbolico appare determinata da questioni di tipo economico e organizzativo, vera impalcatura sociale che usa il sistema mediatico e le sue rappresentazioni come sovrastruttura per sottomettere gli spettatori-cittadini alle sue necessità. In una visione di questo genere, non sembra esserci spazio per la contingenza (Rorty). 

È proprio a partire dalle preferenze mediatiche (i più anziani stanno a casa a vedere la tv mentre i giovani continueranno a frequentare le sale cinematografiche) che il cinema, negli anni 60-70 cambia pelle, dando spazio a nuove icone come Robert De Niro, Dustin Hoffman o John Travolta, ai nuovi auteur provenienti dall'Europa (Godard, Truffaut, Rohmer etc) o ancora ai nuovi registi della Nuova Hollywood (Scorsese, Coppola, Spielberg...). Sebbene, questi ultimi si rivelino conservatori nel loro modo di fare cinema, riproponendo formule stilistiche fortemente influenzate dal cinema classico, il loro lavoro contribuisce a segnare un ulteriore passo avanti verso la brandizzazione del cinema. Titoli come Il padrino (1972), Guerre Stellari (1977) o Lo Squalo (1975) sbancano sicuramente al botteghino ma propongono una nuova forma-brand del film dall'altissimo potenziale commerciale: basti pensare al successo del merchandising derivato da alcuni di essi che arriva – altra linea di fuga verso l'attualità – fino ai giorni nostri. Se è vero che negli anni 70 il divismo perde centralità, sostituito dalla retorica del "talento dell'attore", si può segnalare, dagli anni 80 in poi, un riscatto dei divi propriamente detti che si propongono sempre più spesso come personaggi a tutto tondo e non di rado mostrano di sposare cause politiche e umanitarie, rendendosi autonomi dalle majors

 

 

Lo scenario contemporaneo, infine, sembra caratterizzato da un approccio più complesso, post-moderno, che prova a raccogliere la sfida intermediale, puntando sul montaggio e sul ritmo a discapito della compattezza narrativa. Quelli che stiamo vivendo, secondo Codeluppi, sono anni di indebolimento della "fabbrica" dei sogni, in cui il cinema perde centralità e la produzione di miti risulta sempre più difficile. 

Terminata la riflessione sul divismo cinematografico, si passa alla seconda parte del libro dedicata alla televisione. I divi, le cui sorti siano riconducibili a tale medium, si caratterizzano per il fatto di rompere l'isolamento sacrale in cui quelli cinematografici erano stati confinati da Hollywood. Il mezzo televisivo si inserisce nel tempo della vita quotidiana, scandendo il ritmo della giornata dei suoi spettatori, con il risultato di mettere in crisi proprio il regime di separazione che divideva l'olimpo divistico dalla trivialità della vita quotidiana. La televisione, come suoi eroi, propone figure di mediatori, personaggi senza un talento preciso che mostrano di saper rappresentare l'uomo medio, dismettendo progressivamente le formalità di rito. È il caso dei conduttori storici, come Mike Bongiorno, la cui "fenomenologia" di middle-class hero viene tracciata da Umberto Eco, o Pippo Baudo che, secondo Omar Calabrese, si propone come soggetto in grado di agire concretamente (chiama la telecamera!) per rappresentare i gusti del pubblico. L'avvento della neotelevisione sposta il potere sui telespettatori (il telecomando!), smorzando la centralità del presentatore, che più spesso, più che come figura paternalistica, tende a mostrarsi come consigliere. La posizione defilata di Maria De Filippi, nei suoi show, potrebbe essere un buon esempio di questo ridimensionamento.

 

A completare questo movimento, il reality show che punta tutto sulla centralità del telespettatore e dei suoi emuli portati di fronte alla telecamera. È a questo punto che il cerchio si chiude. Il telespettatore è, in questo caso, sia soggetto guardante che visto. Sarà lui a decidere le sorti dei concorrenti, eliminandoli con il televoto o, al contrario, conducendoli, passo dopo passo (ed eliminazione dopo eliminazione) alla vittoria. Perché questa immedesimazione funzioni, però, bisogna che scatti il riconoscimento di fondo fra spettatori in scena e spettatori a casa. È attraverso questa ennesima ricerca di corrispondenza che la televisione finisce per inseguire un'estetica del brutto, al ribasso, popolata da concorrenti senza competenze. Per vincere, in questo tipo di trasmissioni (talent-show compresi), il vero talento che i concorrenti devono mostrare è, infatti, quello di saper trasformare in spettacolo la loro vita quotidiana. 

Ma la televisione è stata storicamente in grado di promuovere l'accesso di grandi masse a contenuti provenienti da altri ambiti mediali. Basti pensare al ruolo che essa ha avuto nel rimodellare il senso della musica pop, dello sport e della moda.

 

Nel settore della musica, divi come Elvis Presley o i Beatles rappresentano l'archetipo del rapporto adorante che spesso i giovani assumono nei confronti dei loro beniamini. Man mano che la televisione si attrezza per accompagnare visivamente la musica che propone, ne trasforma le sorti, promuovendo un modello pubblicitario che punta tutto sull'immagine e mette in secondo piano la qualità della musica stessa. Sono gli anni di MTV e dei videoclip che favoriscono l'exploit commerciale di divi musicali, istrionici alfieri di una visione consumista in cui "l'immagine esteriore riveste un ruolo più importante del contenuto". Il medesimo movimento verso la mediatizzazione si può di riconoscere nel mondo dello sport. Il momento della performance sportiva viene completamente assorbito dall'orizzonte del piccolo schermo e ciò incide sulla sua stessa struttura (il tie-break, nel basket, è figlio della televisione!), sui luoghi della sua celebrazione (gli stadi si sono trasformati in grandi centri commerciali), sulla fruizione dello spettacolo da parte degli spettatori che, grazie alle mille telecamere presenti, possono accedere a informazioni ulteriori rispetto a quelle accessibili a partire dalla presenza fisica sugli spalti: lo sguardo arrabbiato di un giocatore a margine di un gol mancato, i suggerimenti dell'allenatore alla squadra, sono tutti momenti dello "spettacolo" sportivo a cui siamo abituati ma che non sarebbero stati nemmeno immaginabili prima dell'"era dello schermo". Ancora si approfondisce il divismo nel mondo della moda. Se il punto di massima realizzazione delle top-model, vere dive di questo ambito, corrisponde agli anni 90, l'esplosione intermediale e la globalizzazione trasformano le modelle in caratteri a disposizione del brand di turno per impersonare il cangiante e instabile universo emozionale dei brand che rappresentano. 

 

Ma è Internet – e siamo alla terza parte del volume – a cambiare le carte in tavola. Con il web 2.0 gli ultimi residui della parete della specialità che separava il pubblico ordinario dai divi crolla completamente. Il divismo diventa partecipativo. Grazie a social network come Facebook o Twitter, i divi intrattengono un rapporto quotidiano con i loro fan ma, in fin dei conti, si tratta soltanto di un "effetto conversazione". Un divo è un divo (poco importa se della porta accanto come Favij con cui abbiamo aperto o, invece, già noto come Vasco Rossi) nella misura in cui riesce a creare intorno a sé una comunità di utenti asimmetrica in cui egli si rivela destinatario dell'attenzione di un numero di persone quanto più ampio possibile, attenzione che, anche volendo, non potrebbe mai essere ricambiata. Succede così che il vero divo dell'era 2.0 ha molti follower ma non segue nessuno e non partecipa alle discussioni online: non ne avrebbe il tempo. Si limita piuttosto a rilanciare alcuni frammenti della sua identità, con l'obiettivo di capitalizzare su di essi in termini di visibilità ulteriore. 

 

Il "cazzeggio" è lo strumento di costruzione delle leadership internettiane. Youtubers con milioni di follower come PewDiePie, proprio come i loro colleghi cinematografici e ancor di più quelli televisivi, si rivelano bravi a costruire la propria vita come spettacolo, agendo in uno scenario fortemente individualistico dominato dalla competizione sui numeri e sul potere di influenza. 

 

Sorvolando sull'intermezzo di approfondimento dedicato ad alcune figure emblematiche di star in grado di rappresentare il senso del divismo (si va da Rodolfo Valentino a David Bowie passando per personaggi eterodossi come Kate Moss e Maurizio Cattelan o ancora Carlo Cracco) si giunge all'ultimo capitolo che offre ai lettori una summa delle interpretazioni filosofiche e sociologiche del fenomeno. Già Max Weber si era occupato della questione, provando a circoscrivere le caratteristiche del carisma e le sue ricadute sociali, in specie quando esso divenga strumento di costruzione della leadership. C'è poi la scuola di Francoforte che sottolinea il ruolo di ingranaggi del sistema dei divi: essi, nell'interpretazione di questi studiosi, non sono altro che uno strumento di potere del capitalismo. Promuovendo valori come l'individualismo eroico o il miglioramento progressivo della propria condizione di vita, non fanno altro che contribuire all'omologazione sociale. Baudrillard si sofferma, invece, sul modello seduttivo del divismo. La seduzione della fiction, secondo lo studioso, distrarrebbe le persone dal soffermarsi sulla propria realizzazione sentimentale, raffreddando il rapporto fra i sessi e indirizzandolo verso la finzione della rappresentazione. Ancora Gabler sostiene che i divi, con le loro storie, rappresentino un surrogato di quelle che Lyotard avrebbe chiamato "grandi narrazioni", costituendo un'alternativa alle religioni e al pensiero magico, utili, levistraussianamente, a conciliare le contraddizioni della vita quotidiana. 

Fondamentale mi pare, fra quelle proposte, la riflessione di Alberoni citata qualche pagina più avanti a proposito del divismo come "élite senza potere".

 

Secondo Alberoni, che segue Wright Mills, i divi dello spettacolo sarebbero caratterizzati da un'alta visibilità a cui corrisponde, di regola, una scarsa capacità di incidere sulle dinamiche di potere. Essi, da questo punto di vista, si configurerebbero come meri esecutori di strategie la cui responsabilità ricade su altri, con scarsissimo margine di manovra. Ciò, in parte, potrebbe aiutare a capire gli abusi compiuti sulla pelle di molti attori, costretti per anni a subire i danni di comportamenti poco dignitosi dai "veri potenti" del sistema. D'altra parte però, nota Codeluppi, sempre più spesso, al giorno d'oggi, le figure politiche emergenti tendano a costruirsi convogliando su di sé il linguaggio del divismo. Figure come quella di Silvio Berlusconi, Barack Obama o Matteo Renzi costituiscono un nuovo orizzonte politico, costituito da una forte carica carismatica (spesso frutto di raffinate strategie di comunicazione) unito a un effettivo potere di incidere sulla società. Questi "divi forti", artefici del loro destino comunicativo, sono una novità nello scenario politico: predatori, piuttosto che prede, hanno cambiato, ancora non si capisce chiaramente in che termini, la forma stessa la forma delle nostre democrazie. 

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