Speciale

Le esperienze di Federico Moroni / Arte per gioco

12 Maggio 2022

Se fossi un bibliotecario, e dovessi classificare questo libro – Federico Moroni, Arte per gioco, a cura di Simonetta Nicolini, postfazione di Michele Caputo, Vallecchi, 206 pp. – sarei molto imbarazzato: non è un’autobiografia e nemmeno un testo teorico, non è un manuale didattico (come a prima vista potrebbe anche sembrare), non è un’indagine sociologica sulla campagna romagnola, tantomeno un saggio di estetica. È un po’ tutto questo assieme, in una successione – volutamente asistematica – di riflessioni, digressioni artistiche, descrizioni di personaggi e di oggetti, pensieri – ora estemporanei, ora ben meditati – sulle forme e i colori.

 

Curatissima dal punto di vista grafico (un centinaio tra disegni in bianco e nero e immagini a colori), la prima edizione del libro apparve a Bologna presso Calderini nel 1964, col titolo Arte per nulla. La scelta dell’editore di cambiare questo titolo in Arte per gioco nelle successive versioni economiche, è il segno della difficoltà di fare i conti col testo di Moroni: “gioco” invece di “nulla”, dava al libro un tono rassicurante e lo spingeva verso quella dimensione manualistica che caratterizzava in quegli anni le edizioni Calderini. L’idea, più o meno esplicita, era di far apparire Arte per gioco come una sorta di guida per la didattica artistica nelle scuole primarie, tema del resto che aveva assicurato a Moroni, già dagli anni Cinquanta, una certa notorietà.

 

 

Come accadeva spesso ai maestri elementari, anche lui era passato per diverse sedi scolastiche sull’Appennino e nelle campagne di Romagna, prima di avvicinarsi al proprio paese, Santarcangelo; dal 1946 insegna infatti nella scuola di Bornaccino, appena fuori dal centro urbano. Il tema dell’espressività artistica infantile Moroni non lo incontra per via teorica, ma il giorno in cui vide disegnare uno dei suoi bambini, quel Severino Guidi che all’improvviso, ai primi di ottobre, riesce a trasformare il maestro in alunno. Severino – che parla solo in dialetto e ha una madre che “l’ha tosato con le forbici attorno agli orecchi perché senta meglio a scuola e impari di più”, vorrebbe stare nei campi. I suoi invece lo rimandano a scuola e allora lui, con “le dita violacee” dei giorni della vendemmia, si mette a tracciare sui fogli pampini, grappoli e viti. Insomma, disegna in sostituzione del suo andare nei campi in autunno, “quando i moscerini e le vespe vengono ai tini pieni di brodo d’uva”.

 

 

Erano anni in cui esisteva ancora una critica d’arte e il giudizio di qualità artistica era un passaggio ineludibile, si parlasse di arte antica o contemporanea. In questo senso, i disegni di Severino dovettero apparire sorprendenti al maestro Moroni, tanto più che il bambino non aveva avuto la minima educazione in questa direzione. Molto presto, però, il maestro dovette rendersi conto che non si trattava di svelare e coltivare un enfant prodige, ma di osservare i meccanismi che portavano Severino e i suoi coetanei a disegnare in questo modo. Il problema non era di scoprire l’espressività dei bambini, quasi fossero artisti in erba, ma rendersi conto della misteriosa semplicità con cui avveniva lo scambio tra la loro esperienza di vita, il disegno e il gioco: dipingere come si cammina per i campi, o si gioca in cortile.

È l’inizio di un’esperienza didattica che va ben al di là della piccola scuola romagnola: nel 1952, Tonino Guerra presenta a Firenze i disegni dei bambini di Bornaccino, poi altre mostre vengono fatte a Roma e a Milano. Grazie a una borsa di studio (“Fullbright Award”) Moroni va negli Stati Uniti tra 1953 e 1954; a New York la sua esperienza didattica viene accolta con grande interesse (abbiamo già parlato dell’articolo e delle illustrazioni che gli dedicherà il settimanale “Life”). Nonostante Viktor Lowenfeld (1903-1960) gli offra la possibilità di una carriera accademica e nonostante Tonino Guerra tenti di convincerlo a rimanere negli USA, Moroni decide di tornare in Romagna. 

 

Sapeva bene, del resto, che la vita culturale di Santarcangelo era in movimento, prima di tutto grazie a quello che più tardi verrà chiamato “e’ circal de giudéizi” (“il circolo del giudizio”): Raffaello Baldini, Gianni Fucci, Nino Pedretti, Tonino Guerra, Flavio Nicolini, Rina Macrelli. Ad essere al centro era la poesia dialettale (e per alcuni anche il cinema). In diverse foto Moroni compare con l’uno o l’altro del gruppo, con l’aria un po’ divagante di chi si trova lì quasi per caso. Tutte le mattine, invece, sapeva bene la strada verso la sua scuola “fra i campi”, e conosceva bene i bambini che vi avrebbe trovato:

 

 In prima classe gli scolari parlano dialetto come a casa e rivolgono il tu come al babbo. Quando s’accostano, sanno di fieno e di frutta; le mele sull’armadio nella camera dove dormono, l’odore del vino e del grano per i corridoi e l’odore del fumo del camino. 

Nel fondo delle tasche hanno le briciole del pane. Il pelo del cane che salta su di loro e li annusa è sul grembiulino stinto e malandato. 

I ragazzi di Bornaccino vivono nei campi assieme al sole, agli alberi, al grano, alla frutta, agli animali, all’odore dei polli e del rosmarino. Conoscono la fatica delle giornate lunghe e si riposano a scuola. Invece di zappare o di legar le canne col vimine alle viti, prendono la penna per fare delle aste, delle parole o dei numeri.

 

E prendono la penna per tracciare disegni, quelli stessi che – a colori o in bianco e nero – ornano il libro ripubblicato oggi. È straordinario come il maestro Moroni sia riuscito ad evitare tanto il resoconto delle proprie esperienze didattiche, quanto la spiegazione del proprio metodo educativo. C’è invece il continuo rivolgersi a un imprecisato “tu” – potrebbe essere un bambino, ma potremmo essere anche noi adulti – con cui l’autore dialoga un po’ su tutto. Se gli argomenti cambiano – uso un termine proprio di quel jazz che Moroni aveva imparato ad amare negli USA – c’è un continuo e insistente riff: l’invito a guardare attorno a sé.

 

 

A guardare, ad esempio, l’inizio delle gare ciclistiche che si svolgevano a Santarcangelo. Le motociclette che vengono da Ravenna, Cesena, Gambettola, Lugo, Bertinoro e altri paesi attorno portano sui sidecar i corridori, con la bici smontata tra le mani; ancora con la giacca addosso, li distingui solo perché hanno in testa il berrettino bianco. I guidatori delle moto, con il bavero della giacca rialzato, fanno da aiutanti, meccanici, e tengono i cartocci con il cibo. In mezzo alla folla, i corridori si spogliano e finalmente si vedono le maglie delle società sportive. Tutto questo, quasi nel silenzio:

 

Il chiasso, le scommesse, gli urli, i fischi e i versi osceni, le frasi sboccate, il ridere incontenibile, le bestemmie fantasiose sono stati tutti il giorno prima fino a sera: nel caffè, nell’osteria, sulla porta del meccanico, nei cortili dove tutti aiutavano a lavare col petrolio telaio, catena, pedali, moltipliche, raggere e cerchi in legno; a lubricare i mozzi; a smuovere col palmo della mano il cuoio della sella, legata davanti col tirante di spranga al tubo orizzontale; a passare il mastice denso alla tela del tubolare, ai cerchi di legno; a cambiare i cinturini ai fermapiedi; a dare il grasso alle moltipliche da 52, 50, 48, alle ruote libere da 16, 18, 23; ad avvolgere col nastro isolante manubrio e leve dei freni, mandando via ragazze e bambini intorno per vedere.

 

Come non pensare al linguaggio del cinema, in questo alternarsi di tempi diversi, di campi larghi e di close-up, in questa attenzione al sonoro? Bisogna imparare a guardare, sembra dire a ogni pagina il maestro Moroni. Allora anche la bottega del “marangone” Guido Guidi sembrerà un luogo speciale, a cominciare dall’artigiano stesso: 

 

Quando piove non vuole lavorare. Sta con un piede sul gradino della soglia, l’altro in basso sul fondo della bottega, un braccio appoggiato allo stipite. Ascolta la pioggia e assapora gli odori del legno bagnato: il legno rosso del ciliegio, quello umido dell’abete, del melo, del noce, del corniolo. Non pensa al legno del gelso, il legno stoppa da botte, perché è un legno sciocco. Con le setole corte del labbro egli gusta gli odori. Come quando apre l’armadio da aggiustare, o i cassetti del canterano, sente il bucato della biancheria, e trova nel colore del legno chiuso la vecchia casa patriarcale, i pranzi domenicali, il calesse col cavallo bianco del padrone, tutta la famiglia al mare dopo la cresima delle figliole, i racconti delle parenti sposate, gli schioppi e le piume piccole dei verdoni sparse nell’aria di settembre, le cene sotto il tiglio nelle serate d’agosto, il lume di luna sui mobili nelle camere con le finestre aperte alla brezza notturna.

 

 

Qualunque cosa merita di essere contemplata (Moroni usa proprio questa parola), merita cioè di essere studiata in quello spazio circoscritto e allo stesso tempo spalancato che è l’aula scolastica. In Arte per nulla-Arte per gioco ci sono alcune fotografie a colori di vecchie case di Santarcangelo o di qualche borgo vicino. Sono le rovine della civiltà contadina: “Muro villoso, muro da formiche, muro da Galla Placidia, da basilica e da somarello. Muro del mattino, muro della nostra infanzia”.

Muri e case che sono sempre più residui. A Santarcangelo come ovunque in Italia, stanno affacciandosi nuove palazzine e villettine, nuove materie e nuovi colori, fòrmica, bachelite, alluminio anodizzato, moplen... Nessuna invettiva contro questo nuovo fronte di forme e di pratiche di vita a esse legate, solo l’invito a considerare tutto ciò che è residuo, ciò che è scarto. Per esempio i “barattoli vuoti da conserva”, che puoi vedere gettati in un fosso, fra le ortiche, tra le immondizie gettate dalle famiglie; è qui che i ragazzini vanno a rovistare prima che arrivi il “cenciaiolo”, un luogo che “attrae come un paradiso terrestre”, e ci si pensa prima di addormentarsi:

 

Vedere il re barattolo da conserva nella terra dei campi, circondato da gusci di chioccioline, col coperchio corona ammaccato, il leone rugginoso sull’ottonella del manto con le lettere lette a rovescio: Estratto di Pomodoro. Pensarlo durante la notte, prima d’incamminarci nel sonno, ascoltando la pioggia.

 

Quattro anni dopo l’uscita del libro, nel 1968, Flavio Nicolini gli dedica un bellissimo documentario in cui possiamo finalmente vedere la (nuova) scuola del Bornaccino e i bambini. La prima scena si svolge in una discarica vicinissima alle case (ci sono panni stesi su un filo), accanto a un cumulo di vecchie bottiglie, boccette e vasi. Il maestro accarezza e scruta il grande vetro di quella che era una damigiana da vino, ci si specchia, e guarda il paesaggio che vi è riflesso. Poi si allontana, la prende di mira e la colpisce: i frammenti possono diventare specchietti da contemplare e da disegnare, insieme ad altri residui presi qua e là possono servire per “costruzioni e figure, piogge, palazzi e Luna Parks; drapperie, broccati e giostre roteanti con carrozzine azzurre e cavallini bianchi, rossi e neri”. Insomma, arte per nulla. 

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