23-5-1992 / Capaci, la nuova strategia delle stragi

23 Maggio 2022

Ci sono date che segnano le nostre vite private: i matrimoni, le nascite dei figli, le morti dei genitori. Ci sono poi date che segnano le nostre esistenze come membri di comunità: e si tratta tipicamente dei giorni di grandi cataclismi come terremoti e alluvioni, ma anche sciagure come il Vajont, Stava, il crollo del ponte Morandi. E l’Italia, come purtroppo sappiamo, nulla da questo punto di vista si è fatta mancare. Sono però altre, e più numerose, le date che segnano il vivere civile dell’Italia repubblicana. Sono le date di attentati e assassinii, soprattutto di matrice politica: le stragi di destra (piazza Fontana, Gioia Tauro, Peteano, la questura di Milano, piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione di Bologna) e le azioni del terrorismo di sinistra, dal delitto Calabresi (al netto della vicenda giudiziaria, controversa come poche altre) al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. E l’infinito rosario dei delitti targati Brigate rosse o firmati dalle tante altre sigle dell’eversione rossa.

 

Anche qui, lo sappiamo bene, l’Italia non si è fatta mancare nulla, al punto di comprendere nella propria storia civile anche date che, di per sé, non sono state caratterizzate da fatti di sangue in senso specifico: il caso del 7 aprile, cioè il giorno della grande “retata” del 1979 contro la sinistra extraparlamentare, ne è forse l’esempio più clamoroso. Poi i delitti irrisolti, a partire dal mistero dei misteri: l’attentato ad Enrico Mattei. Che solo quarant’anni dopo Bascapè (23 ottobre 1962) si è scoperto essere appunto un attentato: messo in atto da chi, però, l’Italia ancora non lo sa. La morte di Giangiacomo Feltrinelli fa pure parte dei misteri irrisolti: un “incidente di lavoro”, mentre cercava di far saltare un traliccio, o una trappola? Pasolini, poi, non ne parliamo: tra epilogo quasi obbligato di una storia di “froci” alle ipotesi dei complotti più diversi, la scelta è sterminata. E anche qui non ci siamo fatti mancare nulla.

 

Pecorelli, Calvi, Sindona… l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, proseguitelo voi se credete, anche a seconda delle vostre particolari ossessioni. Perché per almeno un certo pezzo d’Italia tutto questo, o singoli casi specifici, sono diventati appunto un’ossessione, proprio perché mai risolti compiutamente. Come negli Stati Uniti il delitto Kennedy: Lee Harvey Oswald o una indicibile cospirazione? C’è una scena di un film di Woody Allen che strappa sì la risata, ma che la dice lunga sull’identità della nazione: è a letto nel buio con Diane Keaton, stanno facendo sesso, o almeno ci stanno provando, perché poi la luce si accende improvvisamente, la cosa non sta infatti andando a buon fine. Lei: che succede? E lui (più o meno, si va a memoria): ma no, è che quella storia della collinetta erbosa non quadra, mi ossessiona… E forse non era la collinetta erbosa di Zapruder, bensì la “pallottola magica”, chissà.

 

Altro che i Balcani di Churchill, che hanno prodotto più storia di quanta riuscissero a consumarne: vuoi mettere l’Italia del secondo dopoguerra? Per non parlare del “processo del secolo” al sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che a un certo punto per il delitto Pecorelli venne addirittura condannato: il bacio a Riina, i rapporti con Salvo Lima (ammazzato pure lui), il senatore a vita sempre presente in aula (a differenza di altri successivi presidenti del Consiglio), quello stesso senatore a vita che a proposito di Ambrosoli disse che “se l’era cercata”. E poi la sentenza passata alla vulgata come assoluzione ma che in realtà, andrebbe sempre ricordato, fino a una certa data per Andreotti sanciva eccome la connivenza con la mafia (prescrivendo il reato). Roba da grande cinema, altroché. E infatti Francis Ford Coppola infilò Andreotti nel terzo atto del Padrino, il protettissimo don Lucchesi capo politico di Cosa nostra, ucciso dall’uomo più fidato di Michael Corleone con uno stratagemma degno di Dario Argento: conficcandogli nella carotide la stanghetta dei propri occhiali e sibilandogli all’orecchio “il potere logora chi non ce l’ha”.

 

Appunto, la mafia. Ma se togliamo il 1° maggio 1947 di Portella della Ginestra, chi conosce e ricorda le date degli assassinii di magistrati, esponenti politici e uomini delle forze dell’ordine che da allora si sono succedute senza tregua per decenni? Per buona parte degli italiani (almeno quelli del “continente”) le tragedie di Sicilia sono state a lungo qualcosa d’altro, qualcosa di irrimediabile e incomprensibile, quasi una dannazione inevitabile, certo da registrare ma anche da accantonare senza troppo struggersi. Neppure l’agguato al generale Dalla Chiesa cambiò le cose. E anzi l’Italia intera assistette alla tremenda guerra di mafia degli anni Ottanta con una certa rassegnazione: è roba loro, roba di “Cosa nostra”, c’è sempre stata, che ci vuoi fare?

 


L’ineluttabile, lo sdegno rituale ma che presto immancabilmente svaporava, durò fino al 23 maggio di trent’anni fa, quando a Capaci andò in scena un attentato che nessuno fino a quel momento aveva ancora immaginato. Trasformò l’autostrada che collega l’aeroporto di Palermo alla città in uno scenario da film hollywoodiano, di quelli in cui i piani di sangue più impensabili si realizzano con “geometrica potenza”, per usare un refrain che pure fa parte del vocabolario repubblicano. Il metodo dell’autobomba ancora lo si poteva considerare “accettabile”, d’altra parte la mafia lo aveva già utilizzato con il capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici. Ma era il 29 luglio del 1983: e alzi la mano chi ha contezza di quella data. Fare però saltare un’intera autostrada, far volare automobili e i loro occupanti, ecco, a quello in Italia nessuno aveva ancora pensato (in Spagna però sì: l’attentato dell’Eta a Carrero Blanco). Eppure sempre Coppola lo aveva in qualche modo previsto. È una delle frasi più celebri del Padrino, quella che Michael Corleone pronuncia affidando il compito di far fuori il suo acerrimo nemico Hyman Roth: “If anything in this life is certain, if history has taught us anything, it is that you can kill anyone”.

 

Da quel 23 maggio del 1992 l’Italia si sarebbe dovuta abituare all’inimmaginabile: appena 57 giorni dopo, questa volta a Palermo città, il 19 luglio in via D’Amelio, il tremendo bis. Prima Falcone e la moglie Francesca Morvillo, pure lei magistrato, poi Borsellino, le loro scorte, i due funerali, le terribili parole rivolte ai mafiosi di Rosaria Costa, la moglie dell’agente Vito Schifani caduto a Capaci: “Sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare… ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare...”. E alla cerimonia per Borsellino il film del presidente Scalfaro protetto a fatica dalla folla inferocita, con addirittura il capo della polizia Parisi, spintonato e preso a calci e schiaffi, a frapporre il proprio corpo tra la rabbia della nazione e il Capo della Stato, garante dell’unità della Repubblica. Le ricordate quelle immagini? La ricordate la vostra rabbia?

 

Nelle auto-ricostruzioni individuali della propria esistenza che ognuno di noi elabora, per darne una spiegazione “lineare” e forse anche consolante, a certe date attribuiamo significati precisi. Ad esempio, identificandole come passaggi di snodo tra l’adolescenza e l’età adulta. Per me lo sono proprio le stragi di Capaci e via D’Amelio. Quando ammazzarono Falcone ero su un treno: vi ero salito nel tardo pomeriggio a Verona, dove da pochi giorni avevo iniziato a lavorare in un nuovo quotidiano, “la Cronaca”, che sarebbe uscito i primi giorni di giugno (e che tre anni dopo avrebbe chiuso i battenti). Redazione giovane, con colleghi in molti casi alla prima esperienza: io stesso avevo 23 anni, ero professionista da pochi giorni grazie a una scuola di giornalismo e il direttore che mi aveva assunto, Paolo Pagliaro (il suo “Punto” a “Otto e mezzo” lo conoscete tutti), mi aveva affidato l’incarico di coordinare la redazione spettacoli. Era un sabato, ero salito su quel treno per andare a Rovereto, dove mi aspettavano gli amici con cui allora ancora suonavo in un gruppo rock. Nelle loro automobili, assieme a strumenti e amplificatori, anche la mia batteria. Quello della sera del 23 maggio 1992, in un pub di un paesino poco a nord di Rovereto, fu il nostro ultimo concerto: di lì a pochi giorni il giornale sarebbe finalmente uscito, non era più il tempo di “coverizzare” gli Who, Jimi Hendrix e i Cream.

 

Dalla redazione della “Cronaca” misi fuori il naso per la prima volta solo alla vigilia della strage di via D’Amelio. Lavoravo tutti i giorni fino a notte, andava fatto e mi divertivo pure: non c’era purtroppo il tempo (e la testa) neppure per la mia ragazza di allora. Sabato 18 luglio, però, mi presentai da lei a Champoluc, in Val d’Aosta, dove si trovava a fare la baby sitter per la famiglia milanese che le affittava l’appartamento a Milano, dove studiava all’università. Probabilmente arrivai a notte fonda, partendo da Verona appena chiuse le pagine. Sta di fatto che trascorremmo quella domenica passeggiando nei boschi, risalendo un torrente, prendendo il sole distesi sul greto. Ricordo una gran cena in un rifugio, ma in effetti poco altro. La mattina dopo ripartii per Verona, prima di salire in auto entrai in un’edicola e presi il giornale. E qui invece ricordo benissimo la prima pagina che mi assalì appena ebbi il giornale in mano, io che mi bloccai all’uscita dell’edicola, le auto che suonavano il clacson perché non mi decidevo ad attraversare, paralizzato sulle strisce.

 

Per tutto il giorno precedente non avevo sentito nulla: i telefonini allora erano una rarità, mentre di tv e radio in quella romantica domenica non avevamo certo avvertito il bisogno. Un paio di mesi dopo quella ragazza, la mia prima ragazza fin dai giorni del liceo, mi lasciò. Lo aveva fatto altre volte ma l’avevo sempre ripresa, diciamo così: ero tra l’altro finito alla scuola di giornalismo di Milano proprio per lei. Forse in quell’estate del 1992 il mio superlavoro non c’entrava, probabilmente neppure il fatto che vivessimo in città diverse, lei ancora studentessa e io sempre più travolto dalle notizie. Andò così, fine. Ma nella mia auto-ricostruzione individuale, quel 19 luglio del 1992 segna il passaggio definitivo all’età adulta, in qualche modo preannunciato dall’ultimo concerto dietro piatti e tamburi. Con le tremende morti di Falcone e Borsellino era finita per sempre la mia personalissima età dell’innocenza.

 

Per l’Italia tutta, l’età dell’innocenza era terminata già da anni. Da sempre lo si dice per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, ma a ben vedere quello snodo esiziale andrebbe fatto risalire a molto prima, a una cornice guarda caso siciliana: certo, Portella della Ginestra. L’innocenza spazzata via dalle stragi e, soprattutto, dai depistaggi che le caratterizzarono in tutte le relative indagini. E vale la pena di ripeterlo ancora una volta, qui più che mai: nulla ci siamo fatti mancare, in tanti decenni in cui, forse, abbiamo preferito andare a letto presto. E preferendo, negli ultimi anni, appassionarci a storiacce di cronaca nera ammannite a reti quasi unificate: Erika e Omar, il plastico di Cogne, Marta Russo, la strage di Erba, il delitto di Garlasco, Sarah Scazzi… Anche qui, se lo ritenete proseguite voi.

 

Tornando invece a Verona, non ricordo più quando avvenne, ma una sera in redazione ci arrivò una notizia inquietante: la segnalazione di un’auto sospetta nel quartiere di Borgo Trento. Sarà stata l’estate del 1993? Chissà, la memoria inizia a difettare. Ma se così fosse, sarebbe una circostanza notevole: quella fu infatti l’estate delle stragi di via dei Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano, oltre che degli attentati romani a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro. Ed erano sempre autobombe. Qualche mese dopo, a gennaio del 1994, l’Italia sarebbe invece scampata a una strage ancora più bestiale, all’uscita dello stadio Olimpico. Ancora un’autobomba, ma in quel caso l’ordigno non scoppiò per un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescarlo.

 

Ma si diceva di Verona. E che fosse l’estate del 1993, o l’autunno, o che si trattasse di un qualche mese del 1994 tutto sommato non cambia molto, visto il concatenarsi implacabile degli eventi. A tardissima sera di quel giorno imprecisato, con mezzo quartiere di Borgo Trento illuminato dai fari blu della polizia, si seppe che quell’auto era sospetta perché si trovava parcheggiata davanti all’abitazione di un signore la cui residenza a Verona era qualcosa di simile a un segreto di Stato, per ragioni di sicurezza: il super poliziotto Arnaldo La Barbera, già capo della Squadra mobile di Palermo alla fine degli anni ’80, poi responsabile della sicurezza di Falcone prima e Borsellino poi. E qui si deve dare la parola a Enrico Deaglio, autore di un libro pubblicato appena quattro giorni fa da Feltrinelli (Qualcuno visse più a lungo) che in un racconto appassionante, ma senza nulla risparmiarci, dipana l’intera matassa che va da quella tremenda estate (ma anche prima) ai giorni nostri. Scrive infatti Deaglio, partendo da Capaci:

 

Quanti sapevano? Probabilmente centinaia, basti dire che le famiglie di Cosa Nostra avvertivano da settimane di prendere la strada interna, per andare a Punta Raisi. Brutto affare per Arnaldo La Barbera, responsabile della sicurezza del giudice e che si vantava di aver costruito la migliore rete di informazioni mai vista. Cosa Nostra teneva sotto controllo gli autisti palermitani della sua scorta: se si muovevano, voleva dire che il giudice stava arrivando da Roma all’aeroporto di Punta Raisi. Quel mestiere lo faceva la famiglia Ganci, che aveva stretti rapporti con i carabinieri.

Brutto affare. E più brutto ancora la strage Borsellino, appena cinquantasette giorni dopo. Di nuovo, era La Barbera ad avere la responsabilità della sicurezza del giudice, al quale arrivavano, giorno dopo giorno, annunci che la sua fine era vicina. La Barbera guidava le indagini sulla morte di Falcone, eppure non si era neppure premurato di ascoltare Borsellino, l’amico fraterno, che avrebbe avuto molte cose da dirgli, né di proteggerlo. L’idea che i telefoni di via D’Amelio potessero essere controllati non lo sfiorò neppure. Bocciò anche l’idea che fosse necessario vietare i parcheggi davanti al palazzo; la scorta che accompagnava il giudice si muoveva abbastanza alla cieca, rischiando a ogni viaggio.

Dopo le stragi, questore e prefetto di Palermo vennero sostituiti da Roma, ma nessuno pensò di sostituire chi doveva garantire la sicurezza dei due giudici e non l’aveva fatto. E invece, dal governo – sponsor sempre gli stessi: il prefetto Rossi, il prefetto De Sena – lo nominarono “dominus” delle indagini, capo del gruppo indagini Falcone-Borsellino, quaranta uomini a disposizione e i servizi segreti.

 

Chissà se quell’automobile sotto casa La Barbera c’entrava, con il sangue scorso a Palermo. E chissà se era un depistaggio (ci credette clamorosamente “L’Arena”, il quotidiano storico di Verona) l’informazione secondo cui l’abitazione non era di quel La Barbera, bensì dei familiari di un altro, l’omonimo Michelangelo, super boss di Castelvetrano. Ma sono cose di Sicilia, che in continente appaiono inconoscibili. E quindi altro non può essere che una coincidenza la data dell’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano a Milano, in un ristorante che frequentavano da tempo: 27 gennaio 1994. Cioè giusto all’indomani dell’indimenticabile “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, consacrata nell’immaginario collettivo degli italiani da quel discorso alla scrivania ripreso da una telecamera filtrata da una calza di nylon, per rendere più calda l’atmosfera. Quei Graviano che, se si crede ai racconti di Giuseppe, avevano messo a disposizione del Cavaliere fiumi di denaro per Milano 2 e la nascita del suo network televisivo, fino al punto – in quel gennaio del '92 – di veder emergere la propria quota come legittima nel capitale Fininvest. Il tutto garantendo il sostegno della potente famiglia di Brancaccio alla nascente Forza Italia. E proprio nel ventennio berlusconiano delle leggi ad personam la memoria delle stragi di Capaci e via D’Amelio è via via svaporata: l’emergenza allora stava altrove. E poi Riina l’avevano preso, no?

 

La vicenda di Scarantino e delle indagini sulla strage di via D’Amelio, cioè il depistaggio più grave della storia giudiziaria italiana, ci dicono però un’altra cosa. Scrive ancora Deaglio che “l’impostura di Scarantino, ordita dalla Procura di Caltanissetta, da Arnaldo La Barbera, con il tacito assenso di un centinaio di magistrati, del Csm e dei vari governi che si succedettero, durò quindici anni”. Anche questa sarebbe roba da film, se qualcuno avesse il coraggio di girarlo (e produrlo). Un film su mafia, soldi, potere e politica, con atto conclusivo ambientato temporalmente proprio nel gennaio 1994 e, in ipotesi, più finali tra i quali scegliere, a seconda del contesto a cui voler soggiacere. Il primo: strage allo stadio Olimpico e legge marziale. Il secondo: grande balzo della lotta alla mafia e arresto di Marcello Dell’Utri. Il terzo: vittoria elettorale delle sinistre. Infine il quarto, poi concretizzatosi nella realtà (e quello che secondo Deaglio appunto sceglierà il “produttore”):

 

Il telecomando che deve azionare la bomba all’Olimpico non funziona. Dell’Utri non viene arrestato. I Graviano vengono arrestati il 27 gennaio a Milano. La realtà ha scelto la sceneggiatura e il produttore è contento perché è quella che costa di meno. Non ci sarà nessun attentato. Le elezioni si svolgono con tranquillità… and the winner is: Silvio Berlusconi. La Sicilia gli ha portato fortuna, i suoi candidati hanno tutti stravinto su quelli presentati dalla sinistra. Forma un governo zeppo di dipendenti della Fininvest, la sua azienda, pronto a ricambiare i favori ricevuti dagli amici.

 

Perché in Italia lo abbiamo imparato da tempo: la realtà supera sempre l’immaginazione.

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