Goethe Institut Turin / Che cosa registra un’immagine?

5 Aprile 2017

Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo?

Un testo di Riccardo Panattoni per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

 

In un testo dedicato all’amico Walter Benjamin, Hannah Arendt afferma che la memoria sarebbe di per sé conservatrice, mentre il ricordo sarebbe distruttivo. Nel senso che la memoria sarebbe continuamente impegnata après coup a ritramare il senso di ciò che abbiamo vissuto, di quello che ci è capitato o in cui siamo precipitati, ristabilisce cronologie a cui attenersi per sapere collocare gli eventi nel loro sostrato di apprendimento. Al contrario, il ricordo in quanto tale sarebbe ciò che buca questa trama su cui la nostra identità cerca di strutturarsi, rimane un’esperienza pura, uno sguardo reale su di una contingenza assoluta. Questa discrepanza tra memoria e ricordo getta una luce particolare su ciò che le immagini rappresentano per noi, perché non sappiamo dire con esattezza se siano funzionali alla memoria o al ricordo. 

 

Se le immagini fossero funzionali alla sola memoria, alla sua azione conservatrice, dovrebbero cedere ogni volta la loro presenza al proprio significato; quello che sono in grado di mostrare sarebbe dettato dal senso di ciò che possono trasmettere, mentre se il luogo della loro permanenza si installasse in un puro ricordo, il loro affiorare sulla superficie del visibile si rivelerebbe ogni volta come inassumibile dalla sola trama del senso, rimarrebbero solo se stesse, delle pure immagini in quanto tali. Da qui il rapporto non lineare che instauriamo con la loro presenza, tanto è vero che il più delle volte introdurre il tema dell’iconoclastia porta fuori strada, perché in fondo la nostra tradizione è sempre stata a base iconoclasta, abbiamo cioè sempre inteso le immagini come una forma di linguaggio, di comunicazione. Ogni volta che le abbiamo incontrate ci siamo chiesti che cosa volessero dire, che cosa rappresentassero, sottoponendole alle inevitabili regole della grammatica che il nostro sguardo conosce perfettamente, mentre il problema che ancora oggi abbiamo è semmai quello di doverci misurare effettivamente con una cultura visuale. 

 

Ph Kenro Izu.


Così, se le immagini contrassegnano in modo inequivocabile la nostra memoria, la punteggiano delle loro impressioni, senza per questo essere immediatamente riconducibili a dei veri e propri contenuti della nostra memoria, è per il fatto che esse continuano a vivere dentro di noi.  Tutti quanti siamo infatti degli involontari collezionisti di immagini, perché una volta che le immagini sono entrate in noi, cessano di essere percepite soltanto come il passaggio di una concatenazione senso-motoria incentrata sul senso e non smettono di trasformarsi e di crescere attraverso la loro persistenza. D’altra parte, come scrive Jean-Louis Schefer, non possiamo non tenere conto di come la durata delle nostre stesse passioni si misuri proprio rispetto alla persistenza in noi delle immagini, è il loro potere d’iterazione, di ricorrenza, a dettarne la forza d’insistenza. Così, la loro fissità cresce e si trasforma perché ritornano come attraversate da una vibrazione interna d’intensità, come se cercassero in noi l’autonomia di una loro vita propria. La trasformazione di un’immagine nel suo doppio mnestico, il suo farsi puro ricordo, si accompagna infatti a un lento movimento di cancellazione della scena che l’ha determinata, che le ha dato senso. È l’emergere dell’unicità dell’immagine su uno sfondo d’indeterminazione, un evidenziarsi che non si lega più al significato che richiama, all’immaginazione che è in grado di suscitare, ma apre a un’intensità temporale in cui la memoria rimane come avvinta a se stessa. 

 

Accade in questo modo che quando un’immagine incontra la singolarità di uno sguardo che la fa essere ciò che già è, il suo momento visivo, ciò che di sé mostra, continua senza interruzione ad anticipare virtualmente ciò che dovrà seguirla e ricorda ciò che ancora continuerà a precederla. È questa sospensione del tempo che l’immagine sembra trattenere senza in realtà riuscirci, perché pur mostrandosi nella sua perfezione, essa appare tuttavia presa in quello che in realtà dovremmo riconoscere come un fallimento, come un evidente errore nel continuo del divenire. Questo non significa che guardare quella singola immagine porti a interrogarsi su ciò che l’ha anticipata o su ciò che l’avrà seguita, interrogazione che risponderebbe al solo registro di una ricostruzione mnestica, alla necessità di significare attraverso una capacità immaginativa, narrativa, ciò a cui pensiamo possa rimandare la descrizione interrogativa che la grammatica del nostro sguardo porta direttamente sull’immagine. In realtà l’immagine non manca mai di niente, è tutta lì, completamente esposta, si tratta solo di guardarla, ma lo sguardo che le permette di essere se stessa, di essere l’immagine che già è, la precipita nel farsi puro riflesso nel fondo dei nostri occhi.

 

Lo sguardo perde in quel momento ogni capacità grammaticale, rimane totalmente preso nel solo scorrere su quella perfetta superficie riflettente, ed è proprio in quello scarto tra sguardo e occhio che si può cogliere come in realtà quella singola immagine sia carica di tempo. Del tempo della propria sopravvivenza, dell’aurora immemoriale del momento in cui ha preso luce, di tutto il tempo, altrettanto immemoriale, in cui un numero indeterminato di altri sguardi si sono posati su di lei penetrandone il corpo come una ninfa. 

 

Se leghiamo tutto questo al fatto che il vero paradigma della vita rimane la struttura temporale che lo porta a determinazione, allora non vi potrà che essere anche una vita delle immagini. Certo, le immagini che vengono a costituire la nostra memoria tendono di per sé, nel corso della loro trasmissione storica, sia individuale sia collettiva, a irrigidirsi nell’icona della loro spettralità, si tratterà allora di restituirle, in ogni incontro con esse, all’autonomia della loro vita. Perché le immagini pur essendo vive, essendo cioè costituite di tempo e memoria, sono anche delle sopravvivenze, nascono cioè da sempre minacciate dall’assumere una forma spettrale e dal farsi icone di se stesse. Liberare le immagini dal loro destino spettrale, per restituirle invece a tutta la loro forza fantasmatica, è ciò che dovrebbe impegnare la nostra capacità di sguardo. La sopravvivenza fantasmatica delle immagini, la loro stessa vita, non consiste perciò né nella loro perfetta fissità, né nel movimento di ciò che significano, quanto piuttosto nella tensione temporale di cui si caricano nella pausa in cui continuano, attraverso il nostro sguardo, a precipitare in se stesse, perché il loro cristallizzarsi in monadi non può che continuare a portare impresso in sé l’urto che le ha rese tali. 

 

Si tratterà allora, in funzione della persistenza a cui quella singola immagine darà corpo, di evocarne la componente fantasmatica e simultaneamente a questa evocazione, di lavorare il suo stesso fantasma, di dettagliarla in ogni suo particolare, al fine di liberarla da ogni pretesa originarietà e perché si mostri in tutto ciò che in effetti non è mai stata. Questa regressione archeologica si presenterà allora intessuta di tutta la propria elusività, non tenderà cioè mai a ripristinare uno stato precedente, quanto piuttosto a spostarlo, ad aggirarlo, a risalirne sì i suoi possibili contenuti, ma soprattutto a lasciarsi prendere nel dipanarsi delle sue modalità, nelle circostanze e nei momenti perduti di una scissione, da non pensarsi come luogo di ciò che rimane nascosto, ma come il lascito di un segreto in cui l’insorgenza di ogni forma di vita continua ad accadere in quel solo riflesso. L’immagine registra allora nella propria temporalità, insieme a ciò che mostra, anche tutto ciò che in realtà non è mai accaduto, non si è mai realizzato, ed è proprio da questo suo permanere nella potenza del proprio atto che possiamo ogni volta essere toccati dalla reale esperienza di ciò che di sé ancora mostra. 

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