Le Lettere a Luisa / Claudio Parmiggiani. Le porte invisibili

1 Luglio 2016

Sono uscite presso le edizioni d'arte Magonza le Lettere a Luisa di Claudio Parmiggiani (pp. 160 su carta piegata a mano in astuccio rigido confezionato a mano, € 78): un carteggio quantitativamente esiguo ma di straordinaria intensità, intrattenuto dall'artista con l'amica Luisa Laureati Briganti fra il 2004 e il 2014. Il testo è corredato da una presentazione di Laura Cantone e da una postfazione di Andrea Cortellessa, che riproduciamo qui per gentile concessione dell'editore.

 

 

Tutto ciò che è manifestato è luce.

Efesini 5,13

 

 

Un’opera è come una porta invisibile attraversando la quale usciamo da un mondo ed entriamo in un altro mondo dove si cominciano ad intravedere la bellezza, la sofferenza e la verità.

 

Così suona la definizione che – della Porta Speciosa da lui realizzata, alla fine del 2013, per il millenario dell’Ere­mo di Camaldoli – dà Claudio Parmiggiani in una let­tera inviata, il 1 novembre di quell’anno, a Luisa Laureati Briganti. E che è lecito leggere come una dichiarazione di poetica valida per tutto il suo percorso. Per comprendere Parmiggiani è da questa porta, insomma, che dobbiamo passare. La lettera fa parte di un carteggio quantitativa­mente esiguo, ma di straordinaria densità e intensità, che, con l’amica Luisa, Parmiggiani ha intrattenuto nell’arco di dieci anni, dal 2004 al 2014. E che (come è suo costume, ogni volta che si trova a rileggere se stesso), in vista della presente pubblicazione, l’artista a più riprese ha riveduto e limato, finendo per espungerne tutte le parti contingenti, aneddotiche, e dunque ai suoi occhi caduche, per seguire l’intuizione – sua e della propria corrispondente – che in queste poche pagine si nascondesse un nucleo segreto e incandescente, una fonte di luce in grado di illuminare di nuovo, tramite la parola scritta, il suo ricchissimo mundus imaginalis. «Ovunque io guardi c’è bisogno di una parola per vivere», si legge in un’altra di queste lettere: e davvero si ha l’impressione che la consuetudine con l’amica, uma­na prima che artistica, molto abbia contato come neces­saria infrazione di un silenzio tanto necessario quanto, alla lunga, annichilente. Un «epistolario intimo», come lo definisce Parmiggiani in una lettera del 2009, che è anche un libro segreto.

 

Fra i nostri artisti è forse proprio lui, Parmiggiani, quello che più scrive (una silloge non certo esaustiva dei suoi testi, dal titolo Una fede in niente ma totale, ho avu­to il privilegio di curare nel 2010 entro la collana Fuori Formato per Le Lettere). Non per ciò venendo meno, appunto, alla sua regola del silenzio. Un silenzio pole­mico: erede dunque, più che della tradizione monasti­ca, del maestro più amato, Emilio Villa. Il quale sempre oppose le sue «parole silenziose» (così s’intitola un suo componimento giovanile che gli faceva da talismano) al frastuono d’un mondo nel quale già ai suoi tempi – e fi­gurarsi oggi… – la promozione di sé, più che della propria supposta “opera”, all’opera stessa si andava sostituendo. È quel vociare, scomposto, che in un’altra delle Lettere a Luisa Parmiggiani definisce (con parole di Carlo Belli) il «pupazzamento dell’umanità». Di contro evocando Eliseo Mattiacci: il quale «non parla, costruisce la parola con la potenza della materia». Autoesiliatosi dalla scena degli “stilisti”, Parmiggiani sceglie di stare con «gli stiliti, i visionari, gli erratici, gli eretici, i mistici, i solitari; coloro che sono pieni di speranza». In un’altra lettera si dice che «Il desiderio è sempre stato non quello di mostrarmi, di esserci, ma di non esserci, né ora, né oggi, né domani, né mai». Una fantasia di sparizione alla quale però lo stesso Parmiggiani si risponde ripetendosi il monito di «Mario, l’adelpho» (Mario Diacono?): «Tu farai la fine di Emilio».

 

In ogni caso questa è stata, da molto presto, la regola che s’è imposto Parmiggiani. Le cui parole sono appun­to silenziose: e solo di rado, per interstizi lampeggianti, commentano il suo lavoro. Semmai certe parole – penso soprattutto ai versi: che col tempo sintomaticamente sem­pre più si sono ristretti, sulla pagina, sino a galleggiarvi come minimi cenni appunto sottratti al silenzio – alle sue opere possono essere accostate come un testo a fronte. Al modo sottilmente allusivo, cioè, col quale in un suo libro straordinario dal titolo Incipit (pubblicato da Allemandi nel 2008) alle proprie opere Parmiggiani ha voluto acco­stare fotografie del paese che gli ha dato i natali, Luzzara, così com’erano riportate in un celebre libro pubblicato nel 1955 da un suo concittadino, Cesare Zavattini; le foto­grafie erano state scattate dal grande Paul Strand, e quel libro s’intitolava Un paese. Da quelle immagini remote, inneschi da lui stesso dimenticati e poi d’improvviso riconosciuti, Parmiggiani aveva tratto – o così adesso, retro­spettivamente, gli pare – gli stimoli originari di alcune sue immagini cruciali: «Figure, motivi, reliquie di una totalità perduta. Sorgente prima, per me, dell’immaginazione e della poesia; archetipi ed emblemi, un giorno, dell’univer­so spirituale del mio lavoro».

 

Per esempio una porta, che si apre su una parete bianca e introduce a un paesaggio astratto immerso in una tinta dorata (Luce, Luce, Luce è il titolo di quest’opera del 1968), “rimerebbe”, nelle immagini di Un paese, con un portone li­gneo semiaperto, lungo il muro di quello che parrebbe un edificio ecclesiastico, che lascia intravedere lo scorcio, per­fettamente quotidiano, di panni stesi ad asciugare: immer­si però in una luminosità folgorante. Oppure l’immagine fra tutte più complessa, fra quelle raccolte nel volume, ri­sultante com’è dall’accostamento di due diverse opere (Pit­tura pura luce, sempre del ’68, e Salita della memoria, del ’76 – esposte insieme a una mostra del ’98 alla Promotrice delle Belle Arti di Torino): con una successione lineare di contenitori metallici riempiti di pigmenti, disposti in una fuga prospettica che conduce a una scala di pietra, la quale a sua volta introduce a un ulteriore ambiente: dove una scala fatta di pane si appoggia a una tela a forma di dode­caedro sulla quale si vede un firmamento stellato. Questa costruzione complessa, stando all’incipit proposto dall’arti­sta, rinvierebbe a un’immagine invece semplicissima, quasi umiliata nella sua sostanza feriale: di una scala dai gradini mal sbozzati, all’interno di un’abitazione modesta, accanto alla quale è stata abbandonata una bicicletta arrugginita.

  

Il titolo Salita della memoria definisce a meraviglia lo spirito di Incipit: dove la ricerca di radici segrete del proprio immaginario rappresenta per l’artista uno spro­fondamento aux sources du poème («La poesia – si legge in un’altra delle Lettere a Luisa – si rivolge all’ombra, alla propria origine»), ma anche un innalzamento: il segno d’un desiderio d’ascesa cui da sempre il simbolo della sca­la allude. Coll’ossessiva circolarità che sempre connota il lavoro di Parmiggiani, quell’antica scala di umanissimo pane, poggiata – con qualche ironia, forse – su un cielo solo raffigurato, è tornata in una delle opere più vertigino­se fra le ultime che ha realizzato Parmiggiani: l’altissima scala di metallo luccicante che egli ha poggiato su una roccia, nel terreno dell’Abbazia di Pierredon, in Provenza, tenendola lievemente inclinata in modo che – ha anno­tato con ammirazione Dom Alessandro Barban, Priore Generale dei Monaci Camaldolesi, nel presentare la Porta Speciosa all’interno del volume dedicato all’opera – «certo appoggia sulla roccia ma non si vede come, mentre trova un sostegno invisibile nel cielo». Davvero quella scala pare poggiata direttamente sullo schermo azzurro del cielo. Il titolo dell’opera – Luce, Luce, Luce – è lo stesso di quella, in apparenza da questa così diversa, del 1968.

 

Tanto nella compartecipazione di memoria individua­le e archetipi collettivi che nell’ambivalenza di questo ina­bissarsi che è anche un’ascesi, un volo; e poi nel ritornare a distanza sugli stessi elementi, sulle stesse figure, sugli stessi simboli, il funzionamento di Incipit – e di tutte le parole con le quali Parmiggiani accompagna le sue opere – ap­pare analogo a quello del sogno. Proprio il racconto di un sogno contiene una delle ultime Lettere a Luisa, quella da­tata 17 gennaio 2014. Un sogno, o piuttosto una serie di sogni che si susseguono l’uno all’altro, l’uno dentro l’altro anzi: «Giorno dopo giorno, di pietra in pietra, di stella in stella». Le immagini che scorrono, in questa carrellata ra­pidissima, sono ancora e sempre quelle originarie, quelle dell’Incipit luzzarese: «Sogno terra nera e fango, terra di cimitero. Case senza porte, case sventrate, sgretolate. Fine­stre dai vetri rotti, povere, umide, umilissime camere, letti di ospedale, lazzaretti, garze intrise di sangue raggrumato, urina, tosse, fiato, volti di patimento, cucine rancide, pa­reti di cartone, ragnatele, reti da pesca appese ovunque, rossi gamberi su bianchi piatti». La scena non è quella anni Cinquanta, povera e umanissima, del neorealismo trascendentale di Zavattini e Strand; risale a qualche anno addietro ancora; risale davvero, allora, all’incipit: ai primi brucianti fotogrammi rimasti impressi nella me­moria del piccolo Claudio, nato nel ’43 (e che spesso ha alluso, nelle sue parole silenziose, al marchio a fuoco delle violenze intraviste in quegli anni, in quei mesi). Ed ecco infatti l’infanzia apparire, candida e assoluta; bruciante come un flash appunto: «Cammino nella primavera av­volto da una moltitudine di farfalle.

 

Mi vedo nella bianca luce correre a piedi nudi accanto ai vecchi platani men­tre cerco di catturarle, splendenti e palpitanti, premere dentro il palmo della mia mano». Sino all’immagine ónfalos, all’immagine-archetipo già altre volte evocata: «la casa rossa dolorosamente amata che ritorna». Per poi così concludere: «sogno un sogno perduto e irraggiungibile». In uno dei testi da Parmiggiani scritti per sigillare Una fede in niente ma totale, e che reca il titolo Nella bianca luce, si potevano leggere quasi alla lettera le medesime parole (ma mi accorgo, risfogliando quel volume, che la definizione dell’opera quale «porta invisibile» risuonava nella conversazione con Sylvain Amic ivi intitolata Silen­zio, per esempio, dal catalogo della mostra Sculture d’om­bra, tenutasi a Montpellier nel 2003; e poi – a conferma dell’infinito fluire e rifluire delle parole dell’artista – anche qui tornavano espressioni in origine formulate altrove…). È questo un esempio del «meccanismo del pensiero» immaginale di Parmiggiani: questo tessuto inesauribi­le di rimandi interni – dal microcosmo al macrocosmo, dall’oscuro al limpido, dall’astratto e concettuale al reale più concreto possibile (al di là delle convenzioni di qual­siasi “realismo”), dal remotissimo all’assolutamente imme­diato – che si costruisce come territorio senza confini rigi­di, e senza cronologie lineari, quale è appunto il territorio del sogno. Nel quale l’aneddoto individuale, e in sé più o meno significativo, sprofonda lungo latitudini vastis­sime, e per tenebrosissimi scoscendimenti; e, viceversa (ancora una volta coll’ambivalenza di ciò che s’inabissa e insieme ascende), l’immagine netta, folgorante, in appa­renza campita sui quarti araldici d’uno scudo perfetta­mente impersonale, si scopre radicata nel profondo d’un sostrato terroso, rugoso, d’un vissuto concreto, materico, incancellabile.

Nella lettera a Luisa del 3 maggio 2008, Parmiggiani riporta le impressioni d’una visita fatta nella grande miniera di sale di Wieliczka.

 

Un luogo che a suo tempo impressionò Goethe (e che, per quel che vale, ha lasciato un ricordo indelebile anche in me, che la visitai a tredici anni): «Un tempo, legati insieme, uomini e cavalli veni­vano fatti calare con funi e carrucole attraverso questo squarcio, fin dentro le viscere della terra. Labirinti, galle­rie, statue di sale sulle rive di un lago senza sole. Ancora oggi, miraggi, arcobaleni, fantasmi di luce e bagliori nel riflesso del bianco accecante. Campane che si destano dal loro sonno e dal cuore della terra chiamano con la loro voce; dolce, dolorosa e disperata». L’immagine vista cogli occhi si raddensa, in un lampo, negli emblemi cari, da sem­pre, alla mente dell’artista: le campane, la polvere… Facen­dosi insieme allegoria lampeggiante di quello che davvero, con de Chirico, si può definire il meccanismo del pensie­ro: del suo pensiero, cioè. Un pensiero abissale, verticale: che trascende di continuo la soggettività individuale per ascendere, cioè sprofondare, nel mareggiare dei simboli.

 

Precisamente un territorio di confine viene defini­to, il sogno, da quello che è stato il più grande mistico dell’immagine del Novecento, Pavel Florenskij. Non sorprende che (come annuncia nella lettera a Luisa del 3 maggio 2006) Parmiggiani abbia voluto accogliere un suo testo inedito, da lui definito un «libro vero» (quello poi uscito nel 2008, col titolo Stratificazioni, per le cure di Nicoletta Misler), nella collana Lo Spazio e il tempo da lui diretta per l’editore Diabasis. Uomo dal multiforme ingegno e dal tragico destino (verrà fucilato dagli stalini­sti nel ’37), Florenskij: i cui innumerevoli scritti, dopo la glaciazione sovietica, hanno ripreso a circolare – tanto in Russia che in Occidente – solo a partire dagli anni Settan­ta e Ottanta. Le prime pagine del suo incompiuto saggio sull’icona, Ikonostas (che risale al 1922 e venne reso noto in Occidente da Elémire Zolla, col titolo Le porte regali), sono dedicate appunto al dispositivo onirico. Nel sogno, annota il sacerdote-scienziato, «il tempo davvero può esse­re istantaneo e fluire dal futuro al passato, dagli effetti alle cause, teleologicamente»; perché appunto esso rappresen­ta il confine, la linea sottile che separa, e insieme congiun­ge, i due regni dell’umano: «quando la nostra vita passa dal visibile all’invisibile, dal reale all’immaginario». Per questo, pare a me che la Porta Speciosa di Camaldoli finisca per riassumere – in sé, al di là dei simboli su di essa scolpiti – il nucleo più fondo e radiante della poetica di Parmiggiani.

 

Proprio come nel volume Incipit, nel «tempo capovol­to» del sogno secondo Florenskij «i singoli eventi […] ven­gono posti in rapporto […] con dei nessi causali» sino a un evento-origine il quale retroagisce, a ritroso, «andando dalle conseguenze alle cause […], dall’attuale al trascorso fino a un iniziale e ordinario, e del tutto insignificante, nient’affatto memorabile evento a». E tale tempo capovolto ha il proprio equivalente in ambito visivo, secondo lo stu­dioso, nella «prospettiva rovesciata» propria, appunto, delle icone medievali russe.

Quella rovesciata delle icone è una prospettiva certo “non realistica”, immaginaria appunto, ma che appare del tutto reale a «coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spiri­tuale che è più autenticamente reale di loro stessi»: pro­prio come gli «stiliti» nel cui novero si mette Parmiggiani. Le immagini oniriche (fra le quali Florenskij menziona quelle in cui c’è «mescolanza delle immagini della salita e di quelle della discesa») «separano il mondo visibile dal mondo invisibile, e in tal modo congiungono i due mon­di». Sono queste, appunto, le porte regali: le immagini-tramite, i simboli (nella lettera dell’etimo – symballein, “congiungere”), fatti nella stessa misura di realtà sensibile e realtà immaginale, di luce mistica e materia concreta.

 

Attraverso queste «porte della vita», «come attraverso una finestra», la luce metafisica «entra in questo mondo tenebroso»: così si leggeva già nelle pagine del mistico pa­lamita del Trecento, Nicolas Cabasilas, commentate da Massimo Cacciari in pagine davvero ispirate del suo Icone della Legge.

Ho definito un mistico Florenskij, ma è una defini­zione insieme imprecisa e insufficiente. Egli fu infatti, in pari tempo, uno scienziato: un matematico convinto che la rivoluzionaria fisica del suo tempo riabilitasse il pensiero discontinuo della mentalità medievale contro quello razio­nale e continuo, introdotto in Occidente dalla modernità (con dispositivi quali, appunto, la prospettiva). Per questo possono coesistere, nei suoi scritti, la più spericolata spe­culazione scientifica e quella che, a un miscredente come me, appare la più cieca professione di dogmatismo. Ma proprio per questo la sua personalità, che negava ogni va­lore all’arte “moderna”, dal Rinascimento in poi, affascinava l’estrema avanguardia di quegli anni. Per questa via infatti, per dirla con la sintesi di Cacciari, «la teologia dell’icona incontra di necessità lo spirituale nell’arte» di Kandinskij e il «mondo senza oggetto» di Malevič (è nel suo Quadrato nero, prosegue Cacciari, «l’unica, paradossale e disperata imma­gine dell’Oro dell’icona»; allo stesso modo è nelle sculture d’ombra di Parmiggiani, di fumo e fuliggine, che si trova l’unica, paradossale e disperata immagine della Luce di là da quel muro che ci separa dall’Oro dell’infanzia; non è un caso che in una delle Lettere a Luisa si legga – non senza un richiamo implicito al mistico rovesciato Dino Campa­na – di «tele nere, di vele nere. Icone nere issate contro il cielo»…).

 

Nelle accorate pagine autobiografiche Ai miei figli, dettate dal fondo del gulag, precisa Florenskij: «il positivi­smo mi disgustava, ma non meno mi disgustava la meta­fisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata. Qualcuno vorrà chiamarlo materialismo. Non si tratta, però, di materialismo, ma della necessità del con­creto, o simbolismo». Anziché negare la realtà del visibile, come nella tradizione mistica propriamente detta, sempre Florenskij volle inseguire «la rappresentazione del lato in­visibile del visibile» (una definizione questa che risuona in una delle ultime Lettere a Luisa di Parmiggiani…). Il sottotitolo di Agli spartiacque del pensiero, opera cui lavorò tutta la vita lasciandola infine incompiuta, sarebbe dovuto essere Lineamenti di metafisica concreta (frammenti se ne leggono nel magnifico volume Il simbolo e la forma, a cura di Natalino Valentini, Bollati Boringhieri, 2007). Meta­fisicamente concreto – cioè propriamente umano – è per Florenskij (che s’ispirava ai numeri “immaginari”, come le radici quadrate dei numeri negativi; vale la pena ricordare che una plaquette pubblicata nel ’77 da Parmiggiani s’inti­tolava √-2, l’arte è una scienza esatta) lo spazio del transfi­nito indicato da Georg Cantor: in costante relazione tanto col finito, il visibile, che con l’infinito, l’invisibile. Questa, appunto, la sua dimensione simbolica.

Florenskij intravede la via d’accesso al Numinoso, dunque, ma non la percorre. Egli si batte per impedire che questa soglia venga murata, sacrificandosi perché le icone non vengano profanate. Ma dall’apertura, lui, non può passare. Significativa la citazione, dalla più memo­rabile delle lettere di Paolo di Tarso, nel saggio Le porte regali: «l’icona è un’immagine del mondo venturo; essa […] consente di saltare sopra il tempo e di vedere, sia pure va­cillanti, le immagini – “come enigmi nello specchio” – del mondo venturo». In modo non così diverso – ho provato a mostrare in Una fede in niente ma totale – le parole di Parmiggiani evocano le sue stesse immagini come loro prefigurazioni: seguendo la logica figurale che, spiegò Erich Auerbach in un celebre saggio, è tipica dell’ermeneutica medievale. Nella stessa Prima lettera ai Corinzi, gli Ebrei nel deserto sono definiti «figure di noi stessi» (10:6). Non solo le parole di Parmiggiani sono umbra futurorum.

 

Tali sono, altresì, le sue immagini: il rincorrersi, nell’opera, delle medesime figure – o simboli, come abbiamo imparato a definirli – indica come questi non siano semplicemente suoi “temi” bensì, appunto, successivi adempimenti d’una medesima tensione immaginativa. Quella concretezza che Auerbach definiva, per esempio nella Commedia dantesca, «mescolanza di senso della realtà e di spiritualità» – è, pure, la metafisica concreta di Florenskij (a sua volta, fra l’altro, acuto lettore di Dante). Ma è anche, appunto, il senso tutto fisico, materiale della terra che mai, nell’arte di Parmiggiani, si disgiunge dalla tensione “mistica” al suo superamento. L’uno non avrebbe senso senza l’altra. Sono dunque, queste, componenti entrambe evidenti, ed en­trambe indispensabili, della sua ispirazione.

Acquista ai nostri occhi un senso preciso, allora, una caratteristica della Porta Speciosa sottolineata da Dom Alessandro Barban: «La Porta Speciosa deve rimanere chiusa, non per escludere coloro che vengono all’Eremo e bussano (si può entrare da un ingresso laterale), ma perché giunti davanti a essa si comprenda che custodisce un segreto». Quella dell’Eremo, come dice Jean-Luc Nancy, è dunque davvero una «porta moltiplicata». Ove essa ve­nisse una volta per tutte varcata, «il passo che entrerebbe nell’altro mondo, nel rovescio del mondo» finirebbe per decifrare, quel mondo, «come un libro che si aprirebbe, un libro aperto al fondo di una foresta di segni». Anziché «per speculum et in ænigmate», allora, davvero vedrem­mo il libro del mondo «facie ad faciem»: come contem­pla Dante, all’apice del Paradiso, «legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna». Perché lui, Dante, davvero ha varcato la Porta regale: e ha con­seguito la Visione… Non può che essere diversa dalla sua la condizione di uomini che al Medioevo magari guardino con insistenza – consapevoli, tuttavia, di farlo da un altro secolo. Scriveva ai suoi figli Florenskij: «l’ignoto è la vita del mondo. Perciò era mio desiderio conoscere il mondo proprio in quanto incognito, senza violare il mistero, ma spiandolo. E il simbolo era spiare il mistero. Poiché dai simboli il mistero del mondo non viene celato, ma anzi rivelato nella sua vera sostanza, cioè in quanto mistero».

 

Allo stesso modo, la Porta dinnanzi alla quale si ar­resta il cammino di Parmiggiani – e col suo il nostro – è simile forse, anziché a quella dell’Empireo, e se non a quella sarcasticamente sempre aperta e insieme chiusa della famigerata 11, Rue Larrey, a quella su cui si conclude una certa, tormentosa poesia (che proprio a quest’opera di Duchamp s’ispira, forse) d’un altro cultore di Dante, Samuel Beckett:

 

je suis ce cours de sable qui glisse 

entre le galet et la dune 

la pluie d’été pleut sur ma vie 

sur moi ma vie qui me fuit me poursuit 

et finira le jour de son commencement

 

cher instant je te vois

dans ce rideau de brume qui recule

où je n’aurai plus à fouler ces longs seuils mouvants

et vivrai le temps d’une porte

qui s’ouvre et se referme1

 

Perché – lo sa chi appartiene alla razza di chi rimane a terra – ogni Porta non può che dare accesso a un’altra Porta.

 

Nota:

 

1. «scorro quel corso di sabbia che frana / fra i ciottoli e la duna / piove sulla mia vita pioggia estiva / su me la vita che mi sfugge e insegue / e finirà nel giorno del suo inizio / caro istante ti vedo / nella cortina di bruma che arretra / dove più non dovrò calcare queste lunghe mobili so­glie / e vivrò il tempo d’una porta / che s’apre e si richiude» (traduzione di Gabriele Frasca).

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