Imaging, Technology and the Natural World / On Earth. Le avventure dello sguardo

29 Luglio 2020

“Dopo la Guerra Civile, gli Americani ritornarono ad esplorare il loro continente, specialmente l’eccitante, e poco conosciuto, Ovest. Uno degli strumenti delle loro esplorazioni era la fotografia, che all’epoca era ancora una novità.

Il fotografo-come-esploratore era una nuova tipologia di creatore di immagini: in parte scienziato, in parte reporter, e in parte artista. (…) Esplorando nello stesso tempo un nuovo medium e un nuovo soggetto, ha realizzato immagini nuove, che erano oggettive, non aneddotiche, e radicalmente fotografiche.”

 

Lucas Foglia, Kenzie inside a melting glacier juneau icefield research program Alaska, 2016, courtesy of the artist.


Con queste parole di John Szarkowski si apre l’introduzione del catalogo della mostra “The Photographer and the American Landscape”, tenutasi nel 1963 al MoMa di New York; l’intento era quello di raccogliere e presentare il lavoro di tutta una serie di fotografi che avevano non solo registrato, ma anche ridefinito e plasmato, il concetto di paesaggio naturale (e di fotografia di paesaggio), autori che, al di là dei differenti approcci, condividevano un unico scopo: raccontare, citando ancora le parole di Szarkowsi, “com’è fatta la Terra”.

Dal 1963 ad oggi le cose sono cambiate rapidamente, e il rapporto tra uomo e natura è diventato ogni minuto più problematico, sotto la spinta del massiccio e continuo intervento di trasformazione e modellazione del paesaggio in base alla sempre più complesse necessità delle società contemporanee.

Anche gli strumenti di osservazione e di produzione delle immagini si sono trasformati nel tempo: la rivoluzione digitale ha infatti progressivamente allargato ed ampliato, in quantità e in qualità, la platea delle tecnologie visive a disposizione degli artisti per registrare e raccontare il mondo.

È indubbio che questa svolta abbia ulteriormente cambiato il rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda: le nuove tecnologie hanno reso il mondo più grande e più piccolo nello stesso tempo, diventando uno strumento privilegiato di esplorazione ,di ricognizione della realtà.

Cosa vuol dire allora per un artista provare a raccontare il rapporto tra uomo e natura nell’epoca più antropizzata, artificiale e tecnologica di sempre?

È da questi interrogativi che prende le mosse la mostra “On Earth – Imaging, Technology and the Natural World”, in visione al FOAM di Amsterdam fino al 2 settembre 2020 e prodotta in collaborazione con Les Rencontres d’Arles.

 

Adam Jeppesen, Ar chalten, 2016, courtesy of the artist.


La mostra presenta il lavoro di 27 artisti che riflettono, con mezzi e strumenti eterogenei, sul complesso rapporto tra uomo e ambiente, aprendo la strada a una serie di riflessioni sulla costruzione non solo del paesaggio, ma anche della visione.

Raccontare il nostro rapporto con la natura è diventata una questione complessa e radicalmente differente rispetto a ciò che poteva implicare in passato; basti pensare che molti degli artisti presenti in mostra lavorano da remoto, immensamente distanti dai luoghi di cui ci parlano, utilizzando al posto della macchina fotografica strumenti tecnologici e media visivi contemporanei, come Google Earth, i motori di ricerca delle immagini, e tanto altro ancora.

In Mastering Bambi, Persijn Broersen & Margit Lukács si interrogano sulla rappresentazione, spesso idealizzata e fuorviante, della natura , partendo dal classico Disney Bambi, mentre Melanie Bonajo, in Progress vs. Sunset, Re-formulating the nature documentary, si chiede quanto i video virali con animali per protagonisti, sempre più popolari in rete, abbiano ridefinito la relazione tra gli uomini e la vita selvaggia e abbiano influenzato la visione e le aspettative verso il mondo naturale.

 

Progress vs. Sunset, Re-formulating the nature documentary, 2017, Melanie Bonajo, courtesy of the artist.


Anche il lavoro di Anouk Kruithof è un’indagine della rappresentazione online di temi sociali: in Ice cry baby l’artista realizza il montaggio di una serie di video di ghiacciai che si sfaldano e crollano trovati su Youtube, mostrando come un problema climatico potenzialmente disastroso possa essere trasformato in uno spettacolo, anche fortemente estetizzante: è difficile infatti non rimanere affascinati dalle grandi masse di ghiaccio e di acqua che si succedono sullo schermo in maniera quasi coreografica, almeno fino a quando non ci si ricorda qual è la causa e quali sono le conseguenze di quello che succede davanti ai nostri occhi.

Alcuni autori, quindi, utilizzano un tipo di approccio mediato per svelarci i meccanismi di percezione e costruzione del reale, come quelli su cui si interroga Thomas Albdorf in I Know I Will See What I Have Seen Before, o le conseguenze, spesso disastrose, dell’intervento dell’uomo sul paesaggio, come avviene ad esempio nel lavoro di Mishka Henner Feedlots.

Altri artisti, tuttavia, hanno sentito il potente bisogno di ritrovare fisicamente un senso di connessione con la natura e, macchina fotografica in mano, hanno intrapreso lunghi e spesso solitari viaggi di documentazione.

Adam Jeppesen, ad esempio, ha impiegato 487 giorni per spostarsi, via terra, dal Polo Nord all’Antartide, restituendo questa esperienza attraverso una serie di immagini che ci traghettano in una dimensione di spiritualità, tranquillità e solitudine, forse possibile solo in completa comunione con l’ambiente naturale. Sensazione che pure ritroviamo nei paesaggi silenziosi e senza tempo di Awoiska van der Molen.

 

Guillaume Simoneau, invece, in Experimental Lake ha esplorato e documentato una regione scarsamente popolata dell’Ontario nord-occidentale, focalizzandosi sulle attività di ricerca condotte da un laboratorio circa l’impatto dell’uomo sulla natura.

Nonostante trascorriamo gran parte del nostro tempo davanti a uno schermo, il desiderio di esplorazione e di natura  è ancora presente, come testimoniano le storie fotografiche presentate da Lucas Foglia in Human Nature, racconti da cui traspare il nostro bisogno di luoghi incontaminati e selvaggi, anche se poi spesso si rivelano essere anch’essi delle costruzioni umane.

 

Drew Nikonowicz, This World And Others Like It, courtesy of the artist.


Il fotografo-come-esploratore, dunque, è vivo e vegeto, ma in un mondo e in un modo completamente diverso. E forse l’esploratore del XXI secolo è quello immaginato da Drew Nikonowicz nella serie This World And Others Like It, in cui l’artista ci guida in un percorso che attraversa panorami a volte reali, a volte generati virtualmente, consapevole dell’esistenza di, per usare le sue parole, “migliaia di realtà esplorabili”. 

Tante sono le prospettive e le visioni presentate da questi e dagli altri artisti della mostra “On Earth”; come riuscire allora a dare un senso a queste immagini, a queste riflessioni, ad una relazione complessa, come quella tra l’uomo, la natura e la tecnologia, che pone ogni giorno di più interrogativi urgenti e improrogabili?

Forse ci sono due possibili strade da intraprendere: da un lato quella della riflessione lenta, del soffermarsi dello sguardo sul significato delle cose che guardiamo, pensiamo e facciamo; e dall’altro qualcosa di apparentemente opposto, ma in realtà complementare e necessario: il recupero del senso dell’avventura, nell’accezione data da Emilio Varrà nella prefazione del libro Le zattere della medusa. Scrive l’autore che “l’avventura è sempre anche educazione al senso di alternativa, a nuovi scenari possibili, a diversi stili di vita, all’agire politico”; è forse allora solo in questo modo che il presente può trasformarsi in “occasione di esplorazione, dura e difficile, sempre più complessa, ma ancora possibile”.

 

On Earth – Imaging, Technology and the Natural World, 20 March - 2 September 2020, Foam Amsterdam.

On Earth è stato curato da Foam e prodotto in collaborazione Les Rencontres d’Arles.

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