Conversazione con Franco Piavoli / 'Festa' a Locarno

26 Agosto 2016

Quello di Franco Piavoli, scriveva tempo fa Tommaso Isabella su Doppiozero, è un cinema «orgogliosamente marginale». Definizione azzeccatissima, per un regista che opera al di fuori dei grandi circuiti produttivi, che costruisce i propri lavori a partire da spunti occasionali, elaborandoli man mano, un giorno dopo l'altro, una stagione dopo l'altra, con una cura e una pazienza più simili a quelle di un botanico o di un agricoltore che a quelle di un regista cinematografico. Anche quest'ultimo Festa è nato così, «quasi spontaneamente» dice lo stesso Piavoli, che per alcune estati ha seguito e filmato sagre e feste di paese. Il risultato è un poemetto visivo (meno di un'ora la durata) che è anche una sorta di originale “viaggio intorno all'uomo” in cui si mescolano senza problemi il sacro e il profano, il divertimento e la malinconia.

Abbiamo incontrato il regista a Locarno, dove Festa è stato presentato fuori concorso, durante il 69mo Festival del Film.

 

 

Perché proprio le sagre?

 

Beh, prima di tutto perché sono una specie di “teatro vivente” sopravvissuto ai secoli. Per me è stato un po' come tornare sui luoghi dell'infanzia e della giovinezza per scoprire la forza di permanenza di questi eventi, che hanno radici antichissime. In una sagra si concentrano i momenti essenziali, le attività primarie dell'esistenza, a partire dalla convivialità: il mangiare insieme, in famiglia o semplicemente in compagnia, ci rallegra, rende il cibo – diciamo così – più “fertile”... In queste feste di paese si realizza proprio questo scambio vitale. E poi c'è l'amore...

 

L'amore?

 

Certo! C'è anche chi va alle sagre per trovare un compagno o una compagna, non lo sai? Perché lì si balla, e ballare in coppia comporta un contatto, una percezione della simpatia “fisica”... e magari persino un'attrazione reciproca. È un momento d'intimità, una “corrispondenza d'amorosi sensi”, come dice Foscolo, da cui può anche nascere un sentimento profondo.

 

 

Eppure nel tuo film si vedono molte coppie di mezza età, e oltre...

 

È vero: i primi che vediamo ballare sono proprio due anziani. E hai ragione, i vecchi non vanno certo a ballare per incontrare il nuovo amore. Però sai, attraverso la danza riescono a far rivivere la giovinezza, gli amori passati, possono dare ancora una volta prova della loro vitalità. Lo fanno così, istintivamente. E si esibiscono, anche! Nel film compare una coppia di vecchi ballerini che ho inseguito da una sagra all'altra, veramente straordinari. A un certo punto c'è un casqué particolarmente “rischioso” fra i due, che ho dovuto in parte tagliare perché avrebbe potuto risultare un po' troppo comico, e avrebbe scompensato l'equilibrio poetico del film. Ma la tentazione, credimi, è stata fortissima...

 

In effetti, è un momento piuttosto comico. Come quei volti di persone che si abbuffano di salamelle e di carne alla brace. È un elemento che si trova spesso nei tuoi lavori, soprattutto nei primi: un gusto espressionista, quasi lombrosiano per i dettagli un po' ripugnanti, animaleschi, del comportamento umano, che talvolta trascolora nel comico, appunto.

 

Nel tragicomico, semmai. Purtroppo anche in questi casi ho dovuto scartare molto materiale, proprio perché alcune immagini erano veramente impressionanti, troppo grottesche. Però esplorare questa “animalità” dell'uomo mi piace molto. Anche l'uomo, in fondo, è un animale, no? Per questo ho voluto inserire all'inizio del film le immagini del circo ambulante, con le scimmie che ballano, che saltano, che giocano fra loro. Ho cercato di creare una sorta di collegamento con il mondo animale, come se anche anche gli animali in qualche modo partecipassero alla festa.

 

Poi però accanto al grottesco hai voluto inserire addirittura il sacro, aprendo il film con una funzione religiosa.

 

Sai, si dice spesso “sacro” e “profano”, come se l'uno andasse a contrapporsi all'altro. Ma sagra ha la stessa radice etimologica di sacro! Per come la vedo io, esiste una continuità: l'istinto sacro è presente in ciascuno di noi, anche in quelli come me, che si professano non credenti. La parola religione deriva dal latino res ligo. Ecco, la religione è proprio questo: il bisogno di trovare un legame fra le cose e fra le persone. Così la sagra, come il rito religioso, è un altro modo di creare e rafforzare questi legami. E questo al di là del fatto che uno possa criticare l'istituzione religiosa, i preti e così via... Nella cerimonia religiosa ho voluto sottolineare proprio il bisogno di condivisione di cui stiamo parlando e che poi continua lungo tutto il film.

 

Tu però nel film mostri anche coloro che in qualche modo sono esclusi o si autoescludono, come l'uomo alla finestra, che non partecipa al momento comunitario...

 

Sono personaggi che rispecchiano la componente ombrosa della mia personalità, l'aspetto solitario, un po' melanconico del mio carattere. Anche questo è un sentimento che abbiamo più o meno tutti, no? Un sentimento antico, per cui a volte l'individuo si chiude in solitudine, si allontana dagli altri... Ma è una cosa che non dura, non può durare oltre un certo limite, altrimenti si scivola nella patologia. Tra l'altro, l'uomo di cui parli tu, quello che spia da dietro le sbarre della finestra, è un mio carissimo amico che ha proprio questo problema. È stato molto compiacente, molto disponibile... anche se, di fatto, ha semplicemente interpretato se stesso. Ho utilizzato anche altri amici, per brevi scene di finzione che poi ho tagliato un po'...

 

 

Avevi intenzione di fare un film più narrativo?

 

Sì, per certi aspetti sì. Però, sai, alla fine rifuggo da queste cose, ho sempre preferito fare un lavoro di composizione “ritmico-sinfonica”. È un po' come in musica, dove c'è la lirica, il melodramma... e poi c'è Bach, che fa musica strumentale. Ecco, non vorrei sembrare troppo ambizioso, ma mi sento più vicino a Bach, anche se il melodramma mi piace molto.

 

Come si sviluppa questo tuo lavoro di composizione?

 

In genere non ho una sceneggiatura scritta, solo degli appunti, anche se ho in mente un progetto abbastanza preciso. Naturalmente, strada facendo emergono degli elementi che non avevo previsto né scritto, ma che in qualche modo rientrano nella mia ricerca, stimolano il  desiderio di catturare una realtà. Io cerco continuamente questi elementi, soprattutto all'interno di immagini apparentemente minimali. Mi metto lì, osservo... Poi sì, c'è anche la ricostruzione, la recitazione: perché tutti i miei film sono un misto di documento e finzione. Come nei film sovietici, che per me hanno contato molto. Ancora adesso, per dire, il film che rivedo più volentieri è La terra di Dovženko. Non avrà la carica, il dinamismo del Potëmkin, ma sicuramente mette in scena la lotta dell'uomo per la sopravvivenza, l'amore per la terra come nessun altro. La scena in cui il vecchio contadino va a morire in mezzo alle mele è straordinaria...

 

Non vorrei sbagliarmi, ma da un po' di tempo mi sembra che il tuo cinema si sia fatto più “antropocentrico”: prima con Affettuosa presenza, adesso con questo film...

 

Beh, sì, qui mi sono concentrato sull'uomo, indubbiamente. Chissà perché... Forse ci si umanizza con l'età.

 

Si ringrazia Cecilia Ermini per la collaborazione.

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