Prima lezione di semiotica / Fiori, cappelletti, Peanuts: il senso collettivo

2 Giugno 2018

Certe volte per capire come funziona una cosa occorre perderne la prospettiva individuale. Dichiarazione forse sempre un po’ sospetta e irritante in una cultura e in un’epoca, le nostre, in cui vige una psicologia popolare che esercita con convinzione idee quali quella di “trovare noi stessi”, “credere nella nostra unicità”, “esprimere il nostro stile” e così via. Anche a fronte di fenomeni tipicamente collettivi, come il sorgere e il tramontare dei colori nella moda, stagione dopo stagione, o come quello che investe il modo in cui un neologismo si stabilizza nell’uso dei parlanti di una lingua, è arduo accettare che la dimensione di un evento o di un processo trascenda le nostre preferenze e convinzioni. 

 

Qual è stato l’esito delle crociate attorno a “petaloso” di due anni fa? Pare di poter dire nessuno, ed è questo il dato interessante. La disputa attorno al vituperato aggettivo ha mostrato, cioè, quale resistenza esista davanti all’opportunità di concepire un problema come intersoggettivo. “Petaloso” era orrendo per uno, squallido per un’altra, teneramente fanciullesco per un altro ancora. A chi è poi interessata la risposta della linguista dell’Accademia della Crusca, che spiegava con disteso agio al bimbo delle elementari: “una parola nuova non entra nel vocabolario quando qualcuno la inventa (…). Perché entri in un vocabolario bisogna che la usino tante persone e che tante persone la capiscano. Se riuscirai a diffondere la tua parola e tante persone in Italia cominceranno a dire e a scrivere “Com’è petaloso questo fiore!” (…) ecco, allora petaloso sarà diventata una parola dell’italiano.

 

A quel punto chi compila i dizionari inserirà la nuova parola fra le altre e ne spiegherà il significato”? In queste righe c’è una cura particolare per l’età del proprio destinatario e perciò l’autrice impiega un’immagine un po’ utopica: quella della campagna personale a favore dell’adozione collettiva del termine. In realtà il giovane poeta botanico può fare ben poco: il destino dei segni nella vita sociale, della loro diffusione e della loro scomparsa, siano essi vocaboli, pratiche, colori o comportamenti è arbitrario e mai scontato da prevedere. Nel caso di “petaloso” pare che dunque, fattesi periture le impressioni di tanti, abbia vinto un repentino appassire. 

In Prima lezione di semiotica (Laterza) Gianfranco Marrone si occupa di questo genere di problemi. Semiologo, scrittore, giornalista, massimo studioso italiano di Roland Barthes, Marrone dà alle stampe un volume in cui l’esistenza dei segni e la loro significatività nel mondo si fa oggetto di un lungo racconto. Né manuale, né studio, Prima lezione di semiotica è più che altro il vivo rilancio di una programma analitico che investe le cose che amiamo, odiamo e capiamo, dall’arte visiva ai fumetti; dal discorso scientifico a quello giornalistico, storico, pubblicitario; dai comportamenti ai divieti.

 

A proposito di odio, amore, collettivo e individuale, può valere un altro esempio coevo. Entriamo nel vivo della guerriglia etico-politica sul vegetarianesimo e sul veganesimo, dove i fronti sono frastagliati, e la loro dimensione e tenuta localmente variabili. Come negare che esista un universo di strategie e modi di fare i attraverso cui si operano sabotaggi, alleanze, riconoscimenti tra carnivori, vegani e vegetariani? Al telefono con un fratello si ricorda magari che lo scorso venticinque dicembre una nuora vegana ha posto fine alla tradizione familiare dei cappelletti in brodo e ci accorda per andare al più presto a gustarne un po’, estromettendo commensali inadeguati; in un ufficio poco lontano invece si costituisce una cordata per pranzare piacevolmente nel bistrot vegetariano dove i prodotti sono proprio freschissimi; da un’altra parte ancora si dileggiano le scelte etiche di chi rifiuta le proteine animali ma continua a nutrirsi di pesce. Le cordate sono rinsaldate da articoli di costume, film, libri, meme e attacchi commerciali più o meno politicamente corretti, come per esempio la targa oltraggiosa posta da un oste all’ingresso del suo ristorante di ciccia in Toscana: “Il fioraio è da quell’altra parte”. Se questo provocatore può fare quello che crede, aggiunge però la semiotica, sul futuro della diffusione del vegetarianismo a livello collettivo a nessuno, individualmente, oggi è dato sapere.

 

Per parte sua Marrone, che da anni conduce un programma di ricerca su trend gastronomici e trasformazione culturale, propone di allargare lo sguardo e di riflettere sulla relazione globale tra umani e animali. Ricorda cioè come da alcuni decenni nel nostro mondo ci sia senza dubbio una rivoluzione in atto, una rivoluzione per la quale negli studi filosofici e antropologici, nella coscienza ecologica, nel sentimento popolare, nell’ambiente mediatico e nel diritto, la vita degli animali è stata del tutto trasformata. Da nemici dell’uomo, da strumenti di lavoro o di sostentamento, in ogni caso da inferiori, oggi gli animali sono sempre più simili a individui, e la loro progressiva emancipazione chiede di ripensare i valori in gioco nella dimensione collettiva di quello che consideriamo umano. Da sempre in dialogo con un’antropologia culturale che parimenti rivolge alla vita dei collettivi domande sul senso, la semiotica offre per quest’indagine modelli e strumenti rigorosamente interdefiniti.

Ma un breve passo può portare a conclusioni anche più controintuitive, per il nostro senso comune. A un certo punto, in Prima lezione di semiotica, si afferma che “ognuno di noi vive al crocevia di molteplici storie”. Sono coinvolti due ordini di fatti. Da una parte quello per cui ciascuno legge, vede, pensa, vive, ama sempre in un intricato sistema di riferimenti, consumi e opzioni diffuse, valide per tutti. Se attraversiamo, più o meno bene, l’intero corso delle nostre azioni quotidiane traendone lezioni, fissando attimi memorabili, valutandone la piacevolezza o la difficoltà, Marrone spiega che è perché siamo in grado di astrarre dei modelli di tipo narrativo.

 

Arriva una notifica: è un’amica disperata che si lamenta che il collega di cui è invaghita questa mattina ha fatto colazione con un’altra ricercatrice. È un attimo e siamo al topos più tipico dei Peanuts, la scena in cui Lucy trova Frieda distesa davanti al piano di Schröder, al posto suo. Ci comporteremo come Snoopy, suggerendo che la nostra eroina si munisca di un’aggressività animale, per farsi valere, o magari come Charlie Brown, filosofeggiando sulla tristezza dell’amore non corrisposto? Le alternative ovviamente non sono solo due, anche se forse queste sono le più tipiche. Quello che importa è che il legame tra le traversie amorose della nostra interlocutrice e l’intelligibilità della striscia di Schultz è garantita da un’ossatura molto profonda di ruoli e azioni, che la semiotica ha da tempo avuto modo di formalizzare. La stessa ossatura che nei sogni manca, dandoci al mattino impressioni anche ricchissime, ma sempre in parte indecifrabili, proprio perché il vissuto onirico non è ancorato a questa grande griglia di scopi, attori, scene che conosciamo nelle ore di veglia. La stessa ossatura infine che ci fa ridere o sorridere, quasi sempre, se sentiamo uno sconosciuto che impreca in mezzo alla strada, proferendo in direzione di un automobilista un altisonante “cretino”. L’ilarità deriva dal fatto che anche qui immaginiamo, conosciamo una specie di storia di massima, orientata nel tempo, di cui quell’imprecazione è il momento finale.

 


Il secondo ordine di fatti è quello per cui pare possibile concludere che è solo a partire da questo volume condiviso, squisitamente e a volte drammaticamente sociale, di senso, che si può parlare di esperienza dei singoli. Qui c’entra il problema di un’esperienza perlopiù involontaria, di un comunicare incessante, che a volte non riusciamo affatto a controllare nei suoi effetti, né comprendiamo, in un altro o altra, secondo quanto da lui o da lei atteso. L’equivoco insomma non è l’eccezione, ma forse rappresenta uno degli annessi più patenti delle regole che definiscono una cultura. Poniamo di essere in vacanza su un’isola mai visitata prima. Abbiamo noleggiato una macchina e ci siamo spesi in una lunga perlustrazione, finché per un colpo di fortuna, da uno spiazzo lungo la strada, abbiamo visto il mare azzurro e un sentierino nella macchia. Parcheggiamo e in pochi minuti siamo immersi nell’acqua, felici. Poi succede qualcosa. All’orizzonte spunta una macchia di colore, un’altra: piedi umani, un ombrellone a righe, delle voci. Il paradiso è ora in condivisione, e nell’arco di qualche ora si popola ulteriormente.

 

Ogni nuovo arrivato aumenta le possibilità di essere scoperti e privati di ancora una porzione di pace, perché le automobili lasciate sullo spiazzo segnalano a altri vacanzieri il trofeo di una ricerca simile alla nostra. Magari non ce la faranno tutti: una coppia di svedesi penserà forse che le macchine ferme sotto il sole siano il segno nefasto di un terremoto. Qualcun altro equivocherà immaginando che siano parcheggiate perché dalla macchia parte un sentiero di trekking, e quindi verrà depistato con nostro inconsapevole vantaggio. Resta il fatto che non è né nella somma consapevole delle volontà di tutti, né al cuore di quella di ognuno, che si trova la chiave per descrivere quello che è accaduto. È al contrario in una “stabilizzazione di modi collettivi di pensare e di agire, di desiderare e di preferire” che si sviluppa l’inesauribile capacità umana di far fare senso al mondo, di conservarne e di produrne di nuovo. 

Se diventeremo tutti vegetariani? Marrone ricorda che per studiare il senso culturale si può partire solo dalla fine, dalla chiusura di una storia, dal giudizio di un fenomeno o di processo, e da lì risalire all’indietro a una serie di tappe che ne costituiscono l’evoluzione logica e narrativa. Per ora basti che è proprio quello che Prima lezione insegna a fare. 

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