Vita pubblica e privata / The Happines Philosophers

24 Settembre 2017

L’utilitarismo filosofico, non l’edonismo, né il fanatismo, ci potrebbe venir d’aiuto, oggi più che mai. Invece viene snobbato. Una biografia, da poco pubblicata, ce lo racconta in termini chiari e forti.

Balza fulmineo agli occhi sia dello scrittore, sia del lettore che la biografia, non romanzata, costituisca un genere difficile, un costante work in progress. Da scrittore cosa vi metto dentro, il lato pubblico, il lato privato, o un miscuglio tra i due, e fino a quali dettagli, pure intimistici o intimi, mi spingo? Da lettore cosa vado a setacciare in quella biografia? Forse colui o colei che vorrei essere diventato e non sono mai stato; o forse una parte di me gioca il ruolo del sovrano guardone; o ancora mi trovo nella laboriosità pirandelliana di uno dei personaggi in cerca d’autore? 

 

La biografia filosofica presenta, a tutt’oggi, maggiori difficoltà. Solo un esempio, tra i tanti, l’iperpremiato Ray Monk per il suo Wittgenstein. Il dovere del genio (trad. it., ora in tascabile 2000, Bompiani) ha ricevuto parecchie frecciate dai filosofi e dai cultori di Wittgenstein. Perché come recita Michele Ranchetti nella prefazione italiana, “... è difficile trovare nella storia delle grandi vite di filosofi, di musicisti, di scrittori, di artisti, una vita che sia stata fatta coincidere con un esercizio così assoluto della ricerca della perfezione”. E, in particolare, Ray Monk si confronta con la tragicità intellettuale, nonché umana di Wittgenstein, quale la sua lacerata omosessualità, in un discorso parallelo: l’evoluzione del pensiero di un genio e la sua esistenza privata. 

 

 

Del resto, però, come ben inculca in mente Bart Schultz in The Happiness Philosphers. The Great Lives and Works of the Great Utilitarians, volume biografico corposo da poco uscito per la Princeton University Press, in una certa filosofia il distinguo tra vita pubblica e privata risulta assai arduo. 

Per utilitarismo, oggi, nel linguaggio comune si intende tutt’altro, ovvero strumentalismo all’“American style”. Benché preoccupante, per ignoranza dilagante, ciò non dovrebbe sconcertare più di tanto.

La regina Vittoria e i suoi precedenti in materia di etica venivano indiscutibilmente amati dal popolo, non dal circolo utilitarista – e rimane vitale che si trattasse di un circolo alla ricerca e alla teorizzazione della felicità di tutti, non certo del singolo, edonismo sempre alla “American style” –  a partire da Mary Wollstonecraft, femminista dichiarata e nota autrice di A Vindication of the Rights of Woman: with Strictures on Political and Moral Subjects (1792). Non la si pensi come una Valerie Solanas che dichiara in Scum: “In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile”. Probabilmente, Wollstonecraft avrebbe concordato, non su tutto però, senz’altro non sulla sua distruzione del sesso maschile. A lei interessavano i diritti delle donne. E, difatti, non ha impedito a sua figlia di sposarsi un poeta brillante, Percy Shelly, ateo e per i tempi scandaloso, né che questa figlia scrivesse l’ormai classico Frankenkestein, non ben visto ai tempi, mentre attualmente è giustamente considerato un capolavoro. 

 

Nel circolo, o meglio in una sorta web-ragnatela, si ritrovano, tra l’altro, coinvolti e coinvolgenti, oltre Wollstonecraft, sua figlia e il marito, intellettuali del calibro di William Goodman, Aron Burr, Amerlia Curann, Jeremy Bentham, John Stuart Mill. Sebbene per alcuni versi storicamente da contestualizzarsi, le loro battaglie in virtù della difesa di norme etiche, in filosofia come nella vita pratica, che concedano la maggiore felicità, o, ad ogni modo, il maggiore piacere al maggior numero di persone al mondo, rimangono la loro lezione più preziosa, ma purtroppo assai perduta in questi tempi grotteschi in cui ci si avvinghia solo al proprio bene privato, pure quando si praticano fanatismi in gruppo con un qualche “ism” incollato.

 

Ciò che John Suart Mill ha sempre denominato un “experiment in living”, influenzato (e chi l’avrebbe immaginato? Io, da vera sciocca ho approfondito solo il suo libro di logica e il libro di filosofia femminista con la moglie Harriet Taylor: a questo servono davvero le biografie migliori, ad assumere consapevolezza dei propri limiti per porvi rimedio) dalla filosofia greca antica, cosicché propugnava una conduzione di vita mai separata dall’esercizio filosofico, come se l’esistenza del circolo costituisse un continuum coi loro pensieri. In tutta onestà. E l’onestà della difesa di diritti, come ci ha sempre ricordato Stefano Rodotà, nel nostro paese, pur con diverse modalità, è consistita pure nella costruzione utilitarista dei studi gender, Lgbtg e sulla sessualità. Sempre in relazione utilitarista stretta con la loro vita e le loro battaglie. Sovversivi e trasgressivi? Per i loro tempi, forse. E per i nostri italiani pure. Da non dimenticarsi che, poco dopo, Virginia Woolf gioiva nel citare le osservazioni di William Godwin, pure lui legato alla ragnatela, quale la seguente: “La nostra non è un’inutile felicità, un paradiso di egoismo e piacere transitorio”.  Pare di confrontarsi, in un certo qual senso, con Simposio di Platone, nonostante là vi comparisse purtroppo un’unica donna, Diotima.  

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