Si può vivere senza, ma mica tanto bene / Ironia: non aderire alle convinzioni

14 Aprile 2017

“Non c'è da meravigliarsi se l'ironia presenta alcuni pericoli, sia per l'ironista che per le sue vittime. La manovra è arrischiata, e come ogni gioco dialettico, riesce solo di stretta misura: un millimetro in meno, - e l'ironista diventa lo zimbello degli ipocriti; un millimetro in più, - e persino lui si inganna insieme alle proprie vittime; far causa comune con i lupi è pura acrobazia e può costar caro a chi è maldestro. L'ironia, pena il naufragio, deve così bordeggiare pericolosamente tra la Cariddi del gioco e la Scilla della serietà: la prima di queste trappole è lo slittamento dell'ironico nel ludico, la seconda la ricaduta dell'allegoria in tautegoria ingenua; talvolta l'ironia cede alla vertigine dell'ambiguità, e l'andirivieni fra gramma e pneuma finisce col farla impazzire del tutto; talaltra aderisce alla lettera della grammatica rinunciando all'equivoco con una scelta univoca.
D'altronde a che ci serve una simile prova di abilità?
A liberarci, dicono, dalle illusioni...
Ma le illusioni sono così funeste che, per distruggerle, dobbiamo arrampicarci su questo trapezio volante?” 

 

La domanda di Vladimir Jankélévitch, dal suo libro "L'ironia", rimane tutta intera nella sua portata, provocatoria e ironica.

 

L’ironista e l’ironia si muovono su una linea da equilibrista, da funambolo della parola.

A pensarci, più che ad un funambolismo della parola siamo di fronte a un graffio alla verità, un graffio carezzevole. L’ossimoro si rende necessario perché se il graffio fosse davvero tale scadrebbe nell’offesa e invece quello che accade nell’ironia riuscita è un’esposizione senza dolore, un intervento al limite che

sfiora con decisione, ma allo stesso tempo lo fa con garbo, salvaguardia e tutela. È una questione di tempo e di velocità. Un po’ come diceva Luigi Pagliarani: “tra uno schiaffo e una carezza è questione di velocità”.

Quel graffio alla verità lo hanno ben descritto, tra gli altri, anche Michel Foucault e Aldo Giorgio Gargani.

Occupandosi di forme della politica e del potere, ambiti in cui l’ironia è tanto rara quanto necessaria, Foucault scrive: “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” (Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984).

Ecco: un antidoto al rischio di imposizione del silenzio della servitù è proprio lo spazio sottile da cui può insinuarsi e alfine affermarsi l’aria pulita dell’ironia. Per questo l’ironia è temuta e oltremodo avversata dal potere dispotico e, in particolare, dalle cattive forme nell’esercizio del potere, come il dominio, il monopolio e l’esclusione.

 

Se il compito di dire il vero è infinito, Aldo Giorgio Gargani lo aveva riconosciuto alla sua maniera, dopo un lungo travaglio di ricerca su se stesso e sul mondo, giungendo a scrivere:

“E il vero, allora, lo perdiamo? Ma no, il vero sarà, come sempre sarà e come è sempre stato, la conseguenza tardiva di un gesto sociale che l’ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all’ordine della sua costituzione” (Il vincolo e i codici simbolici, in AA. VV., Il vincolo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006).

Non rispecchiamo mai perfettamente la realtà traducendola in una verità come glassy essence; più che altro il vero scaturisce da una prassi in cui l’ironia svolge la funzione di filtro, di lima, corrosiva quanto basta, capace di affinare percorsi e accessi, di renderli meno credibili di quello che pretenderebbero, di aiutarci a cercare sempre senza crederci mai, appunto.

 

Richiamando William James potremmo giungere a dire che l’ironia è il modo in cui il linguaggio si ripercuote sul parlante tenendolo all’erta rispetto ai propri e agli altrui effetti di attrazione di certezza.

Il potere delle immagini e le immagini del potere sono una manifestazione più che evidente del ruolo che può avere l’ironia nella propensione rassicurante alla conferma.

 

Ogni immagine, infatti, è, in un certo senso, politica: uno strumento di potere. Come ricorda Carlo Ginzburg, siamo soggiogati da menzogne di cui noi stessi siamo gli autori, citando Tacito e le sue parole indimenticabili. È possibile infrangere questo rapporto? È possibile e l’ironia aiuta. Scrive Ginzburg:

“Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato” (Paura, reverenza, terrore, Adelphi, Milano 2015; p. 53).

L’ironia è un modo di guardare di sbieco, di non aderire al pieno della certezza e al saturo delle convinzioni: quel gioco che ci porta a vincere due volte con noi stessi neutralizzando le voci di dentro che sarebbero capaci di aprire varchi inattesi e spazi inconsueti. Una dissimulazione nel discorrere può generare, infatti, inediti ordini del discorso, interni ed esterni a noi, con effetti salutari nel mondo intrapsichico e relazionale.

 

 

Una misura dell’ironia e della sua funzione si può facilmente ottenere pensando a tutte le volte, a tutte le relazioni e a tutte le situazioni in cui non ce la possiamo permettere.

È forse proprio lo spazio sottile dell’ironia a renderla tanto più rara quanto più alligna il conformismo e la difesa a oltranza del quieto vivere..

Eppure si può vivere senza ironia, ma mica tanto bene!

Nella selva dei significati a cui le parole possono dare vita, è raro e difficile che vi sia una perfetta corrispondenza tra espressione e attribuzione di senso. Proprio in quello spazio si generano le condizioni dell’ironia.

L’ironia assume perciò le caratteristiche di un dispositivo che illustra un significato spesso opposto alle parole dette o scritte. Non senza componenti di amarezza e di scherno, ma anche con efficaci esiti costruttivi. Se un insegnante interviene per congratularsi con un allievo che sta sbagliando o una donna scrive una lettera d'amore a un corteggiatore che sa di essere respinto, lo spessore di quelle espressioni è essere ironico - amaramente ironico. Un testo ironico è quello che utilizza significati opposti per illuminare qualche aspetto di una questione a favore proprio e di chi ascolta almeno secondo l’intento reale dell'autore. Gli interventi ironici significano l'opposto del loro contenuto; significano quello che non dicono, e dicono il contrario del significato letterale delle parole. Ma sarebbe non così rilevante il ruolo dell’ironia se ci soffermassimo sulla sua figura formale e sulle sue caratteristiche retoriche.

Il fatto è che essa apre interi universi di significati e concorre a costruire opportunità di conoscenza e presenza: si può anzi sostenere che essa sia un vero e proprio antidoto per l’affermazione della presenza viva.

 

Caroline Fisher sostiene che, se propriamente intesa, l’ironia gioca un ruolo cruciale anche nell’azione terapeutica. Questa intuizione, tuttavia, è alquanto difficile da afferrare perché il concetto di ironia stesso è stato distorto, nascosto e regolarmente confuso con il sarcasmo; è spesso erroneamente dato per scontato che se si sta parlando ironicamente, si deve significare il contrario di ciò che si dice; che uno ironico deve star facendo lo gnorri, che ironia e serietà non possono andare insieme. Tutte queste ipotesi sono false, secondo Fisher: l’ironia può aprire spazi importanti nella relazione terapeutica: abbiamo perciò bisogno di recuperare un vibrante senso dell'ironia. (Therapeutic Action: An Earnest Plea for Irony, New York: Other Press, 2003).

Piuttosto che certezze e grandi verità, per fare un’ulteriore escursione nell’ironia, lo scrittore Jonathan Coe nei suoi libri rappresenta tematiche di grande intereresse attraverso l’ironia, che, come egli sostiene, permette di “vedere le cose da più punti di vista, di rappresentare sia il tragico sia il comico”. Uno strumento importante per l’autore, “perché la realtà non è facile, né lineare, ma complessa e pluridimensionale. Tantissimi eventi accadono in simultanea”. Secondo Coe: “l’ironia è uno strumento basilare nella cassetta degli attrezzi dello scrittore perché permette di rappresentare la realtà nel modo più fedele…..L’ironia non è solo humor, anche se ne è una parte importante, riguarda la molteplicità”. Molteplicità che si riflette anche sui significati delle storie, come sostiene l’autore stesso: “Alcuni anni fa pensavo che un romanzo dovesse essere lineare, ora credo sempre più che debba essere misterioso e ambiguo, nel senso che può dire due o più cose insieme”.

 

 

Approdiamo così alla polisemia e alla molteplicità dei significati come effetto generativo dell’ironia.

Districarsi tra testo e contesto, del resto, non è da tutti. L’ironia esige almeno un certo livello di reciprocità, una certa disposizione a comprenderla, ad accoglierla e, semmai, a restituirla. L’ironia, insomma, bisogna anche potersela permettere.

Accade pure che vi sia una certa confusione tra ironia, sarcasmo e humor e che i termini e le esperienze relative siano ritenuti intercambiabili. Si associa spesso l’acutezza dell’ironia ad affermazioni cosiddette bonarie; mentre la stessa acutezza connessa ad una certa cattiveria viene ritenuta, di solito, sarcastica. Basterebbe considerare un noto scambio tra due campioni dell’ironia per rendersi conto della difficoltà e sottigliezza della questione:

George Bernard Shaw scrive a Churchill Le ho riservato due biglietti per la prima. Porti un amico, se ne ha. E Churchill risponde: Non posso, ma verrò a una replica. Se ci sarà.

A volte l’ironia più sottile è espressa accompagnando un’affermazione con la frase: “lo dico senza ironia”, finendo per affermare il contrario di ciò che si sta dicendo con la frase letterale. È noto che Freud, obbligato a sottoscrivere un documento elogiativo del nazismo e della Gestapo per poter lasciare l’Austria occupata, firma, ma chiede di fare un’aggiunta: Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia. Una lezione di libertà intellettuale mantenuta, grazie all’ironia, in una situazione di costrizione.

 

Del resto Victor Hugo ha scritto che la libertà comincia dall’ironia.

Per quanto complessa sia la decodifica di un messaggio ironico, il suo valore e la sua forza stanno nell’immediatezza e nella simultaneità della comprensione: il tempo di reazione nell’ironia è decisivo. La decodifica di un messaggio ironico combina, di solito, almeno tre livelli: a) il senso letterale; b) il senso reale, in un contesto che smentisce il senso letterale; c) l’intenzione retrostante a dire il contrario di quanto si vuole affermare.

Testo, contesto e reciprocità sono fondativi nell’ironia; spostando uno di questi fattori il dispositivo ironico non funziona: chi usa l’ironia si affida in una certa misura all’intelligenza contestuale dei suoi interlocutori stabilendo, con questi, un implicito patto di complicità. Ma il gioco funziona se la complicità è possibile perché le conoscenze contestuali sono condivise.

 

L’ironia in quanto dissimulazione contiene anche un’interrogazione a se stessi e agli altri, come nel caso del procedere speculativo di Socrate, che, dichiarandosi ignorante, chiede lumi all’altrui sapienza, per mostrare come quest’ultima si riveli in effetti inferiore al suo stesso «sapere di non sapere». O come quando si usi la dissimulazione del proprio pensiero (e la corrispondente figura retorica) con parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento e il vero significato attribuito. L’ironia può avere, inoltre lo scopo di deridere scherzosamente, fino a divenire come si suol dire tagliente, quando mira a sottolineare una difettosità altrui: come accogliere un atavico ritardatario complimentandosi per la sua “puntualità”, o un inguaribile avaro richiamando pubblicamente la sua “nota generosità”. È di un certo interesse, inoltre, notare l’uso dell’ironia in affermazioni di senso comune: in senso figurato, infatti si usa dire: ironia della vitadella sortedel destino, accennando a gravi delusioni patite, o al rovesciarsi improvviso di una situazione lieta.

 

L’ironia come antidoto e fonte generativa di possibilità, ragione di apertura e di opportunità corrosive di ordini tendenti a persistere oltre l’opportunità e l’efficacia del loro senso e della loro incidenza, può agire e agisce sia a livello individuale, che gruppale e collettivo.

A livello individuale, le certezze rassicuranti che tutti cerchiamo possono portare alla dominanza della forza dell’abitudine e impedirci di vedere che non stiamo vedendo come stanno le cose e, soprattutto, come potrebbero stare diversamente. È forse il narcisismo l’atteggiamento verso il quale l’antidoto ironico può svolgere la sua più efficace azione.

A livello di gruppo, la tendenza ad assumere posizioni paranoiche, e a cercare e trovare le ragioni di ciò che non va solo negli altri intorno a noi e mai in noi, può far trovare in lampi ironici impreviste aperture e possibilità di fuoriuscita da stati di saturazione che possono essere anche letali per la vita del gruppo.

A livello collettivo e di società, è solo la tendenza a superare il conformismo, come abbiamo argomentato nello scritto sul Conformismo apparso su doppiozero, che può generare le trasgressioni e le disubbidienze che portano alla innovazione e al cambiamento e, quindi, alla vitalità stessa di una società. L’ironia ha una straordinaria funzione di antidoto verso il conformismo. Anche se il conformismo e l’obbedienza sono premiati socialmente, dobbiamo il senso del possibile e l’innovazione solo all’ironia sull’esistente e alla trasgressione generativa. La scintilla ironica può far emergere lo stato di eccezione in una situazione conformista e portare finalmente a una trasformazione dell’esistente.

 

L’ironia si profila così come un tratto rilevante della potenza del pensiero, come l’ha chiamata Giorgio Agamben.

Agamben riporta che nella breve introduzione alla raccolta Requiem, Anna Achmatova racconta come queste poesie sono nate. Erano gli anni della Ezovschina e da mesi la poetessa faceva la fila davanti alla prigione di Leningrado, sperando di avere notizie di suo figlio, arrestato per delitti politici. Con lei stavano in fila decine di altre donne, che si ritrovavano ogni giorno nello stesso luogo. Una mattina, una di questo donne la riconobbe e le rivolse quest’unica domanda: “Può lei dire questo?” Achmatova tacque per un istante e poi, senza sapere perché, si trovò sulle labbra la risposta: “Sì, io posso”.

 

Chiedendosi che cosa Achmatova intendesse dire, potremmo concludere che, grazie al suo grande talento poetico e alla capacità di linguaggio, lei volesse intendere di poter descrivere quella esperienza così atroce e difficile da dire. Forse non era quello che la poetessa intendeva dire. “Viene per ciascun uomo il momento in cui egli deve pronunciare questo «io posso», che non si riferisce ad alcuna certezza né ad alcuna capacità specifica, e che tuttavia lo impegna e lo mette in gioco interamente”, scrive Agamben. “Questo «io posso» al di là di ogni facoltà e di ogni saper fare, quest’affermazione che non significa nulla pone immediatamente il soggetto di fronte all’esperienza forse più esigente – e, tuttavia, ineludibile – con cui gli sia dato di misurarsi: l’esperienza della potenza” (pp. 273-274).

Il potere dell’ironia sta, forse, nella sua forza fragile, di non essere fatta di quasi nulla e di riuscire a fare molto per conoscere e cambiare.

Ci vuole un balbuziente come Mosè per mostrarci che non è la forza a risolvere le cose, ma la potenza liberatrice dell’ironia: pensiamo solamente a quel balbuziente che si presenta davanti al faraone e gli chiede: “Lascia andare il mio popolo!” È proprio nella fragilità ironica che risiede la redenzione.

È per questo che l’ironia, quando a volte riesce a combinarsi con la poesia, riesce a dar vita a sottili esiti di meraviglia, come nel caso di Ewa Lipska:

 

Non so nemmeno

se è la storia che ha creato noi

o se noi abbiamo creato la storia.

Se siamo solo l’eco

di un cuore altrui”

 

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