Coincidentia oppositorum / La guerra è roba da vecchi?

30 Marzo 2022

Quindici giorni fa sono stato invitato dall’Associazione lacaniana internazionale a discutere con Charles Melman, il grande vecchio della psicoanalisi francese, allievo della prima ora di Jacques Lacan, che gli aveva affidato la gestione della propria scuola designando in lui il proprio continuatore. Poi, si sa, le vicende non sempre vanno nel modo più lineare, le scuole lacaniane si sono moltiplicate lungo tante linee di frattura, talvolta dolorose, talvolta feconde. Ma questa è un’altra storia. 

Avrei dovuto discutere con Melman del destino di una società, la nostra, ormai disancorata, o largamente disancorata, dal riferimento religioso. Era una sua proposta, una sua preoccupazione. L’aveva manifestata l’estate scorsa, quando iniziammo a parlare di questo dialogo che alcune comuni amiche romane volevano promuovere in seno all’Associazione. Poi, un mese fa, è scoppiata la guerra russo-ucraina. Melman ha proposto di ragionare sull’urgenza, di ragionare sulla guerra. Ha anche proposto un titolo o una domanda. La guerra è roba da vecchi? Così mi ha scritto in una mail. La guerre est-elle un truc de vieux?

 

Abbiamo poi fatto questo dialogo, ho accolto la domanda del grande vecchio sull’eventuale vecchiezza della guerra, ci ho ragionato insieme a lui pubblicamente e non ho smesso di ragionarci in questi giorni e settimane successive. Non sono certo di avere una risposta, non sono certo di aver capito la domanda. La situazione, dunque, è favorevole, diceva qualcuno. Che cosa avrà voluto dire, Charles Melman, chiedendosi e chiedendomi se la guerra sia una cosa da vecchi? Forse che alcuni, si suppone dei non-vecchi, forse dei giovani, la troverebbero estranea, insensata, inimmaginabile? Che la guerra apparterrebbe al passato e non al presente? 

 

La prima ovvia considerazione è che questa guerra c’è, e segna di fatto, una specie di ritorno, un ritorno di qualcosa di molto vecchio, in effetti, forse di eterno, in ogni caso di inconsueto, di ormai da tempo dimenticato. È quello che colpisce noi osservatori, noi che guardiamo da lontano, o supponiamo di guardare da lontano. La guerra fa il suo ritorno dopo molto tempo. Non faceva più parte del nostro orizzonte, della nostra esperienza diretta. Da decenni, da generazioni. Ritorno della guerra in Europa, dopo che avevamo delocalizzato la distruzione tanto quanto la costruzione, la produzione. Ritorno dell’esperienza diretta del fatto che qualcuno muore, in guerra, e che anche noi potremmo morire, in quella stessa guerra. Per esempio a causa di quella minaccia nucleare indiretta, che ha a che fare con la conquista da parte dei russi delle centrali nucleari ucraine. Per esempio a causa del rischio di un’escalation nucleare del conflitto, e di una sua estensione globale. 

 

Dunque, ritorno dello scontro diretto tra le cosiddette grandi potenze geopolitiche. Scontro che sembrava essersi appiattito in una specie di equilibrio pacifico, almeno a guardare alla superficie degli eventi, che è quella alla quale si attengono le nostre democratiche opinioni pubbliche. Le guerre non erano diventate tutte, e tutt’al più, guerre tecnologiche, guerre informatiche, guerre commerciali? Non erano diventate, in una parola, guerre di segni? Guerre di segni e non di corpi, di informazioni e non di territori? Guerre che decidono della vita e della morte simbolicamente e non materialmente? E invece, ecco di nuovo in gioco i corpi e i territori, ecco di nuovo in gioco le cosiddette potenze come soggetti storico-politici, o al posto di quei soggetti storico-politici ai quali siamo abituati. Questo ritorno, e non è un fatto secondario, per noi europei, ha luogo, difatti, nel campo delle democrazie. Altrove non se n’era mai andata, questa cosa che ritorna. È solo nelle democrazie, che questa cosa se n’era andata, o sembrava essersene andata, e sembra ritornare così traumaticamente.

 

Questa cosa fa ritorno nel campo della democrazia, e insinua nelle nostre teste il pensiero che il campo della democrazia non è un dato, non è un’ovvietà, non è così estraneo alla guerra, non è detto che possa tenersene fuori tanto facilmente. Che la democrazia è chiamata dalla guerra, è implicata nella guerra, e con la guerra ha un legame più stretto di quel che sembra. A cominciare dal fatto che la nostra democrazia è nata da una guerra, è il risultato diretto e specifico di un conflitto o di una serie di conflitti anche o soprattutto bellici. Ed è incomprensibile al di fuori di quel tragitto, è insostenibile al di fuori degli equilibri che hanno regolato quel tragitto. Le democrazie non sono un dato, scopriamo, sono un passaggio, sono un tratto all’interno di un processo, sono un punto di transito che non sappiamo dove porterà ma sappiamo bene da dove provenga. Sono una specie di cristallo. Una delicata struttura che pare immobile, ma sorge come esito continuo di un continuo gioco di forze. 

 

È quel gioco di forze, è quell’insieme di movimenti soggiacenti che ora fa ritorno, e riguadagna il centro della nostra attenzione. In fondo, è la morte, è la possibilità di dare la morte, o di subire la morte, a fare ritorno come il marchio di fabbrica di quei movimenti soggiacenti, dunque come operatore storico-politico maggiore, dopo che la democrazia aveva fatto di tutto per espellerlo dal proprio orizzonte presente e dalla propria autobiografia. È nel campo delle democrazie europee che la morte fa il suo ritorno come operatore storico-politico, ed è nel campo del confronto democratico tra soggetti storico-politici che fa ritorno quella cosa che non è affatto un soggetto storico-politico, che non è affatto un soggetto nel senso in cui la democrazia definisce i soggetti storico-politici di cui descrive il movimento nello scacchiere storico-politico, e che non è affatto un soggetto nel senso in cui il pensiero filosofico nato e allevato in contesto democratico ci ha abituati ed educati a intendere quello che sarebbe in senso più generale un soggetto. 

 

Quella cosa che ritorna è quella specie di Moloch che chiamiamo appunto, facendo ricorso a tutt’altro vocabolario che quello della soggettività, guardando a tutt’altra tradizione non moderna ma antica, potenza geopolitica. Ora, che differenza c’è tra un soggetto storico-politico, tra un soggetto democratico, e questa cosa che chiamiamo potenza geopolitica? Che rapporto c’è, più in generale, tra quello che chiamiamo soggetto e quello che chiamiamo potenza? La domanda ha l’aria molto astratta, molto metafisica. Ma fare chiarezza su questo piano può portare luce anche sull’altro, all’apparenza molto più concreto, dove però stentiamo a orientarci e a decidere dove schierarci. Fosse davvero così concreto, questo piano, non esiteremmo tanto. A volte la concretezza non sta dove supponiamo che stia, e a volte l’astrazione non è così astratta come sembra essere. 

 

Il primo dato di fronte al quale ci mette una riflessione minimale sul concetto di potenza è infatti brutalmente concreto. Qualche anno fa il mio amico Rocco Ronchi (si veda Canone minore, Feltrinelli) ha restituito vita filosofica a un aneddoto che Orson Welles raccontava in un suo film. C’è una rana, c’è uno scorpione, e c’è un fiume. La rana sa nuotare, lo scorpione no. Dunque lo scorpione chiede aiuto alla rana. Portami dall’altra parte, le dice. Fossi matta, risponde la rana. Mi pungeresti, e io morirei. Ma morirei anch’io, replica lo scorpione. La rana si lascia convincere, lo carica sulla schiena e inizia a nuotare. A metà del guado sente una puntura lancinante. Guarda lo scorpione sgomenta. Lui le confessa: è la mia natura, non potevo non farlo. Ecco, una potenza geopolitica è una potenza di questo genere. Le analisi geopolitiche di Dario Fabbri (su Limes) sono a loro modo animate da una simile epistemologia della potenza. 

 

Una potenza geopolitica è una potenza che non rinuncia mai a se stessa, è una potenza che non rinuncia mai a esprimere tutto ciò che accompagna e favorisce l’affermazione della sua potenza. La sua regola dice in fondo: nulla resterà inattuato, daremo fondo a ogni possibilità. È una regola che fa paura, naturalmente. Forse è questo, che i vecchi sanno, che i vecchi avvertono come familiare, che i vecchi guardano senza troppo stupore? È per questo che Gilles Deleuze diceva (in Che cos’è la filosofia?) che i vecchi hanno qualcosa di scatenato, come liberato da molti immaginari, spietatamente realista? Ma basta leggere qualcosa sulla dottrina Monroe, che orienta tutta la politica americana da duecento anni, per toccare con mano quel mostro metafisico che dice che nulla resterà inattuato, di ciò che è utile ad affermare la potenza (in questo caso, americana). Basta leggere qualcosa sulla dottrina Gerasimov, per vedere che la sua idea di guerra ibrida non è che l’aggiornamento di questa stessa logica della potenza (in questo caso, russa). Posta una potenza, sono poste simultaneamente tutte le sue infinite gradazioni e diramazioni.

 

Certo un soggetto non è una potenza di questo genere. Un soggetto, sia in senso generalissimo, un soggetto come ciascuno di noi, sia in senso storico-politico, come l’una o l’altra delle democrazie europee, funziona in tutt’altro modo. Non è potenza, è potenza che riflette su se stessa o che si riflette in se stessa, che quindi disegna una specie di piega attraverso cui si riporta a se stessa e si rapporta a se stessa. Dunque è una potenza si tiene a distanza da sé, si tiene in sospeso in se stessa. Dispiega la sua estensione in un campo più increspato, lascia impallidire l’intensità della sua potenza nell’estensione di una potenza riflessa o riflessiva. Al limite, un soggetto di questo tipo è diviso dalla propria potenza o usa la propria potenza per dividerla in se stessa, per interrogarne il decorso, per renderne ogni passo esitante, e al limite impossibile. Una certa impotenza o impossibilità è la potenza o la possibilità specifica di questa potenza riflessa. Quello che chiamiamo soggetto è ciò che si trova al limite di questa divisione, senza peraltro che questa divisione divenga mai davvero tale, divenga mai davvero letterale.

 

 

L’altra cosa che fa paura è chiedersi che rapporto ci sia tra il soggetto e la potenza, tra il soggetto democratico e la potenza geopolitica. Si tratta soltanto di un rapporto di esteriorità, di estraneità, di condanna? Sono queste le nostre prime reazioni, le nostre prime reazioni di osservatori democratici posti di fronte al campo in cui si affrontano delle potenze geopolitiche. Si tratta invece di un rapporto più intimo, come poco fa suggerivo? Più ambiguo, magari di contiguità, persino di continuità? Anche in questo caso, la domanda metafisica è apparentemente astratta ma concretissima. Dicevo che abbiamo a lungo pensato che le guerre fossero mutate, si fossero trasformate in guerre tecnologiche, informatiche, commerciali. Ma a guardare meglio, per combattere una guerra informatica servono dispositivi tecnologici, e per costruire quei dispositivi tecnologici sono necessari materiali rarissimi.

 

Per condurre una guerra commerciale serve controllare spazi aerei e marittimi, così da consentire il transito delle materie prime e delle merci. Chi controlla quelle vie, controlla tutto ciò che ne viene, a cascata. 

E allora, è vero che la guerra si è spostata sul terreno dei segni, del traffico di informazioni, dello scambio di merci, ma in ultima analisi quei segni si radicano nei corpi e nei territori, e per difendere i corpi di alcuni e i territori di alcuni vengono colpiti i corpi di altri e i territori di altri. Ritorna questo genere di potenza, che appunto, a ben vedere, non se n’era mai andato. Era il motore segreto dei segni, il reale nascosto di quel merletto simbolico che supponevamo si reggesse da sé. L’ultimo anello di questa catena riguarda in ultima analisi la vita e la morte di alcuni o di altri. 

 

Detto questo sulle potenze, il discorso non può più riguardare l'orrore della guerra. La categoria dell'orrore è generica e moralistica, e si sa che la genericità e il moralismo hanno le gambe corte. Orrori ce ne sono dappertutto, e già fare esercitazioni Nato davanti alle basi russe nel Mar Nero, l’estate scorsa, era un modo per dare corso alla propria potenza da parte di una delle potenze geopolitiche che ora come allora erano in campo. È possibile, è responsabile, è effettivamente foriero di pace, porta davvero a un qualche futuro, la via che a tutti noi viene in mente per prima, che è quella di tenere la potenza in sospeso, di fare come se la potenza posse essere integralmente sospesa? Di non scegliere, di non schierarsi, di non sostenere nessuno, di non mostrarsi alleati di nessuno? 

 

In altri termini. Questa sospensione della potenza non è anche lei un esercizio di potenza, non è anche lei resa possibile da un’altra potenza che non vogliamo guardare e che non vogliamo riconoscere come facente parte di quel soggetto che siamo? Non si tratta semmai chiederci con chi o con cosa comporre la nostra potenza specifica, con quale altra potenza la nostra potenza specifica si accresce e con quale altra potenza diminuisce, e magari sparisce o si incammina verso la sparizione? Non si tratta di assumere che una qualche potenza la staremo comunque affermando, e che si tratta semmai di orientare quell’affermazione, di legarla alle affermazioni più affini e di slegarla da quelle più estranee, e di sopportare il fatto che questo gesto che lega e slega è sempre situato qui e non là, il che segna una specie di ingiustizia trascendentale, un’ingiustizia che è però la condizione di possibilità di ogni giustizia empirica?  

 

È a quest’altezza che dobbiamo congedare l’aneddoto della rana e dello scorpione. Certo, la potenza che non può non transitare in atto è una potenza indivisa dal suo atto, una potenza che è una linea continua con la sua attuazione. Ma se guardiamo più a fondo, vediamo che allora non solo l’atto non è altra cosa dalla potenza, ma anche la potenza non è un’altra cosa dall’atto. Dunque non c’è qualcosa come una potenza che deve passare in atto, e il passare all’atto non è il passare all’atto di qualcosa di definito, di qualcosa di dato, di qualcosa di scritto. Che la potenza di dar fondo alla potenza sia anche una potenza destinata a essere ciò che non può non essere, questo è un effetto retrospettivo del decorso della potenza, non il decorso della potenza. In altri termini, come la potenza inventa il suo atto in ogni istante, così l’atto inventa la sua potenza in ogni istante, cioè inventa il suo destino a ogni passo. Che cosa una potenza deve realizzare è assolutamente indeterminato e indestinato. Non c’è un che cosa, per dirla tutta, alla radice della potenza. Non c’è una e una sola strada, davanti alla potenza.

 

Anche questa tesi così astratta ha conseguenze concretissime. Per esempio rende attenti al fatto che quella che chiamiamo potenza è sempre un insieme di potenze, è composita ed eterogenea, ha tante componenti non tutte perfettamente allineate, ha tante linee di attuazione che reinventano le loro rispettive potenze in maniera altrettanto eterogenea e divergente. Dare corso alla potenza significa moltiplicarne le linee di divergenza e le linee di annodamento con altre potenze. E così l'Europa con la sua mezza potenza riflettente si ritrova tra le mani una grande occasione per far valere la sua mezza potenza riflettente, e per trovare un uso della sua mezza potenza che non sia semplicemente quello che la induce a guardare dall’altra parte, per esempio gridando all’orrore della guerra. L’Europa può fare anzi il contrario, rispetto a questo suo solito denunciare i torti delle potenze, che è il vizio di chi guarda le potenze da fuori, come se esistesse un fuori rispetto alla potenza. Può semmai rammemorare le loro ragioni. Può riconoscere, come suonava una grande massima sei-settecentesca, che niente accade senza ragione. È quanto dire che da nessuna parte regna la follia dei singoli e dei colpevoli, che non ci sono neppure i singoli, e non ci sono neppure i colpevoli. 

 

Per esempio, può mostrare che le potenze hanno sempre delle ragioni, e che quello che chiamiamo orrore è semplicemente un insieme di ragioni che non vogliamo o non possiamo riconoscere, il che magari è inevitabile per noi, per i nostri valori, per le nostre identità, ma non è di nessun aiuto per uscire dall’impasse, e dunque pazienza per le identità, pazienza per i valori. Può ricordare non i torti ma le ragioni delle potenze in gioco, il che equivale immediatamente, guarda caso, a gettare acqua sul fuoco. Può mostrare l'utilità, proprio in vista di quella realizzazione della potenza che sta a cuore ad ogni potenza, di un passo indietro esattamente simmetrico. Può scomporre quella che sembra una potenza unica nelle sue tante componenti, può scomporre quella che sembra l’altra potenza contrapposta in un insieme altrettanto molteplice di potenze. Alcune più lontane, altre meno lontane, alcune persino prossime. 

 

Consente, insomma, di formulare un invito ricevibile dalle tante parti in causa e forse assumibile dalle tante parti in causa, proprio perché non nega quelle potenze e ragioni ma le afferma, non le annienta ma offre loro nuove vie lungo le quali realizzarsi. Le annoda l’una all’altra anziché districarle e contrapporle. Forse le mostra l’una e l’altra o le une e le altre come da sempre annodate, e al limite le une e le altre perfettamente contigue, addirittura coincidenti. Al limite, consente di vedere che è sempre uno stesso evento a prodursi simultaneamente in figure divergenti o contrapposte. Magari come aggressione americana alla Russia e come aggressione russa agli Stati Uniti d'America. Mettere queste due cose nel tempo, assegnare all’una il carattere del prima, della causa, e all’altra il carattere del poi, dell’effetto, equivale ad attribuire colpe e ingiustizie, e meriti e giustizie. Salvo che ciascuno avrà buon gioco a dire che prima che l’uno facesse la prima mossa, in realtà l’altro aveva fatto una mossa che veniva ancora prima, e che era la vera causa, la vera colpa. E in effetti è sempre così. Ogni causa ha una causa, si può andare indietro all’infinito senza risolvere il dilemma, se non in termini del tutto ideologici. 

 

L’unico piano sul quale il dilemma trova concreta consistenza è il piano della simultaneità. Per chi pensa in termini di potenza e non di soggetto, la genesi delle due o delle enne potenze coinvolte in un conflitto è sempre esattamente simmetrica e simultanea. Ed è sempre nella simmetria e nella simultaneità che può trovare trattamento e scioglimento efficace. Agli occhi del grande diplomatico, Russia e Stati Uniti sono al limite una stessa medaglia a due facce, e quelle due facce vanno composte e realizzate il più possibile, non contrapposte e tanto meno disconosciute o sospese. Il grande negoziatore è efficace perché ragiona sulla base di questa visione propriamente mistica. La coincidentia oppositorum è la bussola di questa sua concretissima mistica. 

 

Si dirà che evocare la parola mistica accanto alla parola potenza significa giocare col fuoco. Lo so, è solo che anche non far nulla o compiacersi del non far nulla è giocare col fuoco, pensando per soprammercato che il fuoco sia acqua. Così, c’è da aspettarsi che questa bussola faccia orrore a molti. E certo paga il prezzo dell'immoralismo, della rinuncia alle identificazioni, del congedo della bella speranza di essere altro e altrove. Come ogni mistica, verrebbe da dire. Lo paga, e in cambio acquista un’efficacia assolutamente prosaica e reale. Che sia anche quest’efficacia prosaica e reale una cosa da vecchi, una cosa che i vecchi trovano assolutamente familiare, spogliati come sono di molti immaginari da una familiarità pazientemente acquisita con la morte? Che la vecchia Europa si trovi avvantaggiata, per una volta, dalla sua vistosa vecchiezza? 

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