Diario 7 / La vita da elettrone del professore

22 Marzo 2022

Lunedì 14

 

Certe scuole tengono desti gli spiriti animali, è risaputo, istituti dove il professore è sempre in tensione, dove tutto è difficile. La popolazione studentesca ostile. La segreteria inospitale. Gli addetti alla custodia dei locali, un tempo chiamati bidelli, poco o niente collaborativi, o disposti alla delazione. Un insieme di fattori che tuttavia preservano dall’invecchiamento precoce. In fondo le asperità sono sempre vitali, dice Bruce Chatwin. 

Ben diverso il caso in cui il professore non deve mai lottare per sopravvivere. Trova parcheggio nel cortile della scuola. In segreteria sono accoglienti. Non deve battersi per le fotocopie e al suo ingresso nell’aula gli alunni sono silenziosi e scattano in piedi, docili nell’affrontare il dialogo educativo. 

Un contesto ideale, ma che presenta delle controindicazioni. Il professore rischia di impigrire e scivolare un giorno dopo l’altro verso la stanchezza esistenziale, che può evolvere in spossatezza. E la sonnolenza colpisce anche a metà mattina, durante una verifica. 

 

Gli alunni sono chini sui banchi, ognuno intento alla propria versione. Nessuno fiata. Si avverte solo lo stormire del vocabolario, delle pagine sfogliate con cautela. Cosa succede al professore? Il più delle volte pensa, è vero, ma sono anni che pensa. E se pensa, quali sono le conseguenze dei suoi gravosi pensieri? 

Anche questo è risaputo. Il professore si ritrova a sorreggere la testa pensosa tra le mani. E se fa tanto di appoggiare i gomiti alla cattedra, è un attimo. Il pensiero inizia a fluttuare in direzione del sonno. D’altronde, gli studenti nemmeno fiatano pur non disturbare il professore che pensa, intenti, come sono, alla traduzione. 

A volte, però, si danno casi opposti, miracolosi, e perfino il professore di lungo corso si rigenera. Succede mentre fa lezione, quando si ritrova a disporre di improvvisa energia, come se la vita offrisse una fioritura autunnale. È l’effetto di una vera e propria eccitazione. Ma come spiegare un simile fenomeno? È il canto del cigno? 

 

 

Una spiegazione si può avanzare ricorrendo al modello atomico fornito da Niels Bohr, cioè il professore si comporta come un elettrone quando assorbe energia termica. Con questa differenza però, che l’elettrone, per compiere un salto orbitale, dev’essere eccitato da una fonte esterna di calore, mentre al professore occorre l’eccitazione irradiata dalla classe. Allora, benché appesantito dagli anni, effettua anch’egli un salto orbitale, proprio come l’elettrone di Bohr. 

E se l’elettrone, tornando all’orbita inferiore, emette energia sotto forma di radiazione elettromagnetica, similmente accade al professore, che sotto l’effetto dell’eccitazione emette energia didattica. Parla con voce sonora, gesticola, gira da un banco all’altro, fornisce esempi illuminanti, dialoga con la classe e sollecita domande alle quali risponde con prontezza intellettuale. 

 

Naturalmente, col passare del tempo, ritornerà al suo stato fondamentale, che è la spossatezza, e solo rinnovate cariche consentiranno di effettuare altre lezioni simili. Ma quante volte può ripetersi la sollecitazione? Dipende, due o tre volte al giorno, non di più. 

Ecco perché durante l’intervallo, ritiratosi nell’aula docenti, il professore di lungo corso s’abbandona taciturno sulla sedia sorseggiando un caffè. E tutt’al più si limita a mormorare qualche parola al collega vicino. Quando accusa un crollo delle forze significa che ha svolto con dedizione il lavoro. 

Ma come ha origine il processo? La risposta si trova nel Simposio di Platone, deriva dalla funzione mediatrice dell’eros. Resta solo da stabilire se sia la classe ad accendere l’amore docente, o se sia l’amore docente all’origine del calore irradiato dalla classe. Difficile stabilirlo. In ogni caso c’è uno scambio, un flusso energetico. 

 

 

La classe amata scalda il professore che la ama e il professore restituisce amore nell’intensità dell’insegnamento. Non fosse così, tanto varrebbe delegare la funzione didattica a un algoritmo, che però, almeno in base agli attuali sviluppi dell’intelligenza artificiale, non sembra ancora in grado di generare scatenamenti amorosi tra macchine e umani. In futuro si vedrà, e speriamo di non finire come nella galassia dei dementi.

 

Martedì 15

 

Sulla base della precedente teoria, che potremmo definire teoria di Bohr-Platone, sorgono molte domande. Perché mai il ministero costringe il professore a inutili pratiche notarili? Perché si moltiplicano certificazioni e atti burocratici, verbali e circolari? Occorrono attestazioni, programmi, documenti, come se fosse questo a incrementare l’erotismo didattico. Senza contare le attività collegiali, i consigli di classe, i corsi d’aggiornamento on line. È questo che eccita l’insegnamento? Che causa il passaggio orbitale del magistero docente?

Sarebbe auspicabile che tali domande arrivassero al Ministro. Conforterebbe che fosse smentita la teoria di Augusto Frassineti, secondo cui la ministerialità esercita le sue forme più distruttive proprio sui dipendenti.

 

E comunque ieri, lo dichiaro a titolo di autodenuncia, mi sono preso la libertà di evadere dalle consegne, di infrangere il regolamento sulla disposizione dei banchi, permettendo che in quarta fossero sistemati ad anello, onde consentire una maggiore circolazione energetica all’interno della classe. 

L’ho fatto a titolo sperimentale e sono pronto a ripetere la prova sottoponendola ai criteri più rigorosi del metodo galileiano, davanti a una commissione di scienziati, possibilmente nominati dal CERN di Ginevra e non dal ministero.

Ma ieri ho anche insegnato nella maniera tradizionale, e in quinta ho detto: fissatevi bene nella memoria il 10 giugno del 1940, è una data che non dovete più dimenticare. 

 

 

Cadeva di lunedì, il 10 giugno 1940. Un caldo quasi estivo, 26° a Roma e 31° a Milano. Tutto era pronto, discorso, bandiere, altoparlanti, e Mussolini si era anche studiato allo specchio. Aveva controllato postura e abbigliamento, come faceva Hitler, di cui abbiamo le fotografie scattate da Heinrich Hoffman. 

Eccolo lì, guardatelo bene Mussolini, il Mascelluto Testa di Morto, dice Gadda. Sta per affacciarsi dal balcone che dà su Piazza Venezia, sta per tenere il discorso più importante della vita, quello in cui se la gioca, la vita. E forse non si rende nemmeno conto dell’azzardo perché è tutto preso dall’ora delle decisioni irrevocabili. Ma poteva evitare? Poteva rimanere fuori dalla guerra? 

Può essere un buon esercizio fare la storia con i se. È la storia controfattuale. A volte la propongo. Sì che poteva fare altrimenti, risponde Martina, poteva fare come il generale Francisco Franco, e magari fornire armi ai tedeschi. Si sarebbe salvato. Noi avremmo avuto trent’anni in più di fascismo, ma lui sarebbe morto nel suo letto. 

 

Neanche per sogno, ribatte Elena, non poteva, non avrebbe mai potuto evitare di partecipare alla guerra. Elena è risoluta, decisa, quasi offesa che si possa immaginare il contrario. Mussolini aveva fatto credere alla guerra, vent’anni di libro e moschetto, come poteva sottrarsi? Sarebbe crollato.

A questo punto mi viene voglia di chiedere che relazione intercorra fra politica interna e politica estera. Il Novecento è ricco di esempi, tutti piuttosto raccapriccianti. Molte guerre sono iniziate così, per incrementare il consenso interno, che è un po’ come ottenere il plauso del pubblico pagante a teatro. 

Un tempo era diverso, ma il melodramma ottocentesco ha fatto irruzione nella storia e ormai le leggi dello spettacolo si sono imposte anche in politica, e mi verrebbe da nominare la guerra in Ucraina, caso evidente di tragica contaminazione fra teatro e politica. Lo dimostra il recente allestimento allo stadio Luzhniki di Mosca, dove il tenore Vladimir Putin ha tenuto un assolo che ha incantato duecentomila comparse.

 

Invece mi trattengo perché durante l’intervallo mi ha avvicinato una studentessa di nome Letizia. Non è facile sentir parlare sempre di guerra, dice, ascolto la rassegna stampa alla mattina poi lei ne parla durante l’ora di storia e a pranzo c’è il telegiornale. Sa… dopo due anni di Covid… lei capisce professore… la guerra… a diciott’anni.

Capisco, ho detto io, hai ragione, e così ho continuato a parlare di Mussolini senza accennare alla guerra in Ucraina. Capisco anche perché mio figlio ne ha diciassette, di anni, e nel tornare a casa da scuola, non appena sale in macchina, fa subito partire una canzone. Vale come monito, come se dicesse: non osare a sintonizzarti su un giornale radio. 

 

 

Io lascio fare anche perché negli ultimi tempi, grazie a lui, ho conosciuto il Duo bucolico. In particolare una canzone dal titolo Tempi d’oro. Parla di uno che è andato ad abitare in un vecchio casolare presso Urbino. C’è andato con suo cugino, ma nessuno dei due voleva lavorare, e così passavano tutto il tempo ad ascoltare la musica Reggae. E nel frattempo, siccome qualcosa si doveva pur mangiare, hanno fatto una piantagione, ma le piogge sopra Urbino son nocive, sono piene di sostanze radioattive, e così l’orto della gioia si è ammalato, dice la canzone, e siam finiti all’ospedale di Loreto.

Ha buon orecchio per il comico, mio figlio. Un giorno, a tavola, mia figlia ha chiesto se le davo da leggere qualcosa di Freud per un esame all’università. E lui ha detto: ma leggi La Pimpa, che è meglio.

 

 

Mercoledì 16

 

Oggi in terza ho fatto recitare una poesia a una ragazza di nome Irene. Sabato scorso avevo chiesto: avete buona memoria? Lei aveva alzato la mano per dire che non ne ha. Allora le ho dato il compito d’imparare a memoria L’infinito di Leopardi e lei l’ha recitata benissimo, suscitando l’applauso.

Sì, lo so, Leopardi è un poeta, ma io, nella mia libertà d’insegnamento, ai sensi dell’Articolo 33 della Costituzione italiana, ho facoltà di considerarlo anche un filosofo. D’altra parte anche Schopenhauer considerava Leopardi un filosofo. C’è qualche funzionario che in base ai programmi ministeriali avrebbe da obiettare?

 

 

All’ultima ora ho fotografato il quaderno di quella mia studentella di nome Letizia che ascolta la rassegna stampa. Esprime una tale bellezza estetica nel modo di prendere appunti che vorrei conservarne il ricordo, segni grafici disposti in modo da sembrare vere e proprie costellazioni, e non mi stupirei se scegliesse di studiare astrofisica anche per la bellezza in cui si presentano i corpi celesti.

Poi all’uscita da scuola, nell’avviarmi verso la macchina, ripenso a una studentessa di nome Giulia appena tornata dalla Russia. Doveva fare un anno all’estero ma in queste condizioni ha preferito rientrare in Italia. Era a Ekaterinburg, dove nel 1918 è stato fucilato Nicola II con tutta la famiglia dei Romanov. Quando è partita sperava di finire sui monti Urali, invece è andata oltre, dove tutto è pianeggiante, ha detto, e fa molto freddo. La temperatura arriva a – 45°, escono solo gli adulti, e col caldo si sale a + 1°. 

Ma mentre cammino ripassando quello che lei ha raccontato sento una voce alle mie spalle. Margherita! Mi stacchi il braccio! È la voce di una donna anziana. Faccio per girarmi ma mi trattengo, non è educato. Però lei ripete il lamento: non tirare Margherita! La curiosità punge, si sa, e visto che la voce si fa sentire una terza volta, rallento il passo per farmi superare. Voglio vedere chi è questa Margherita che tira il braccio a una vecchia.

 

Proprio mentre la voce torna a risuonare affannosa, quasi rantolante, sento qualcosa che mi sfiora la gamba. Giro la testa e la scena è questa: lei, la vecchia, tutta sbilanciata a sinistra, e sulla destra, un metro davanti, un grosso bulldog tenuto al guinzaglio. 

La signora è sudata. Mi guarda come per scusarsi di qualcosa. Il cane ha la lingua di fuori, con la bava alla bocca. Per fortuna che lei, la vecchia, è di grossa taglia, altrimenti chissà dove la trascinerebbe Margherita. 

Un cane che nella sua ottusa insistenza nel tirare verso destra mi fa venire in mente un certo maresciallo di fanteria conosciuto durante il servizio militare. La stessa ottusità. Identica, peraltro, a quella di Farioli, un mio vicino di casa che quando mi saluta mi chiama Boni. Ciao Boni! Io non mi chiamo Boni! Gliel’ho detto già vent’anni fa. 

 

Il mio cognome ha qualcosa a che fare con Boni? Mi chiamassi Bonini, capirei, ma cosa c’entra Boni col mio cognome, e il bello è che continua. Devo dargli una stangata sui denti? 

Un giorno sento suonare il citofono. Mi alzo, tiro su la cornetta. Ciao Boni, sono Farioli, hai lasciato accese le luci dell’auto. Grazie, dico, adesso vengo a spegnerle. Però ho aspettato prima di scendere. Speravo che andasse via, non volevo incontrarlo. Poi scendo, spengo i fari e di Farioli non c’è traccia. Benissimo. Risalgo e mi rimetto in poltrona a leggere, una delle migliori attività che il destino possa dare in sorte all’essere umano. 

 

 

Ma è mica vero che mentre sono lì che leggo Il Pataffio sento suonare di nuovo al citofono? Ciao Boni, ho dimenticato, l’amministratore dice che l’assemblea condominiale c’è venerdì prossimo. 

Tutto d’un colpo m’è venuto un dubbio. Ma se ha suonato il campanello…, due volte…, suona il campanello dove c’è il mio cognome e poi mi chiama Boni, allora mi prende per il culo. M’è venuta la mosca al naso, adesso vado a cercarlo e gli do una stangata su un orecchio.

Ma poi subentra la filosofia, e la ringrazio, la filosofia, mi trattiene dagli errori. È sempre la voce di Epitteto che si fa sentire, e ripete la solita frase: distingui tra ciò che dipende da te e ciò che non dipende da te, e quello che non dipende da te non ti riguarda. Va bene, distinguo, non dipende da me se Farioli mi chiama Boni. Ma resta il fatto che mi sento preso per il culo. 

 

Però oggi, a vedere quel cane, ho ripensato a Farioli. Forse c’è un’altra ipotesi, cioè che Farioli è semplicemente ottuso, come uno che piscia controvento. 

Lo so, si rifugge da simili spiegazioni, fanno orrore, è devastante pensare che un nostro simile possa essere così ottuso. Devasta il pensiero, potrebbe capitare a tutti di cadere nell’ottusità più totale. Anche a me. Ma questo non toglie che l’ottusità esista.

 

Giovedì 17

 

Da ieri mi accompagna in classe uno studente universitario che sta concludendo il terzo anno di filosofia. Deve fare un periodo di tirocinio, come previsto dalla normativa. Quando si è presentato in quinta, alla terza ora, dopo che una studentessa gli ha chiesto perché si è iscritto proprio a filosofia, lui ha dato una risposta che li ha spiazzati. Perché nella vita vorrei essere felice, ha detto. 

 

 

E a proposito di ottusità, nelle pagine di cronaca del Resto del Carlino, oggi compare la notizia di un giovane che ha sparato al padre poi è rimasto in casa tre ore ad aspettare che tornasse la madre per sparare anche a lei. Però alle 22,30 dello stesso giorno in cui ha sparato ai genitori si è presentato alla caserma dei Carabinieri per confessare spontaneamente il duplice delitto. Gli servivano dei soldi, ha riferito al magistrato. Non gli piaceva più lavorare e raccontava molte bugie ai genitori. 

Bugie e soldi: chissà perché vanno così spesso assieme. Dei soldi ho parlato recentemente anche in classe. Per Shakespeare il denaro è il Dio visibile che fa nero il bianco, bello il brutto e ragione il torto. Goethe non è da meno. Se posso pagare sei stalloni non sono mie le loro forze? Lo fa dire a Mefistofele. Però Marx risponde così: se presupponi l’uomo come uomo, e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, puoi scambiare amore solo con amore, e fiducia con fiducia. Cioè puoi avere tutti i soldi che vuoi ma se ami senza suscitare un’amorosa corrispondenza allora il tuo amore è un’infelicità.

 

Venerdì 18

 

Io compro il pane in tre forni diversi, a seconda di dove mi trovo. Ultimamente passo spesso dal ponte di San Pellegrino, e se c’è da parcheggiare davanti al forno dei Fratelli De Pietri mi fermo lì. Hanno del gnocco buonissimo, lo stesso vale per l’erbazzone. E sono tutti sorridenti. Ma la più allegra è una signora che viene da Carpineti, medio Appennino, 35 chilometri dalla città. Dev’essere al lavoro alle sei del mattino e si alza prima delle cinque. Quando saluta, il suo ciao non è mai come una ciabatta trascinata.

E dopo aver comprato il pane, sento che mio figlio sta ascoltando di nuovo Tempi d’oro. Gli chiedo se c’è qualcos’altro del Duo bucolico. Allora cerca su Spotify e trova un brano dal titolo Voglio andare al mare, da non confondersi con quello di Vasco Rossi. 

 

Nella canzone del Duo bucolico uno va al mare con un amico ma c’è troppa nebbia e l’amico non torna più a riva. Poi va al mare col suo cane ma c’è una bufera di neve. E quando il giorno dopo ci va con l’amica del cuore lei finisce assiderata. 

Adesso sento che devo ricambiare mio figlio. Ma cosa suggerirgli? Mi viene in mente Piero Ciampi. Prova a vedere se su Spotify c’è Il vino. Poco dopo vibrano gli accordi della chitarra ed esce la voce roca e sporca di Ciampi che dice: Com’è bello il vino, rosso, rosso, rosso, bianco è il mattino, sono dentro a un fosso…

 

 

Sabato 19

 

Entro in terza, collego il mio computer personale per fare l’accesso al registro docenti, inserisco la chiavetta USB nel computer della scuola per proiettare delle slides, poi mi giro e vedo che sulla lavagna c’è scritto: optimates e populares. Stiamo facendo Catullo, dice una ragazza. E voi a che categoria appartenete, chiedo io, optimates o populares? Ai depressi, dice Giulia.

A inizio anno, questi ragazzi di terza erano stenchi come baccalà. Stenco vuol dire rinsecchito, rigido, indurito, anche intirizzito dal freddo. Avevano paura di affrontare la terza, dicevano le voci di corridoio. Invece adesso quando entro si scaldano subito. 

 

All’ultima ora, in quarta, prima di iniziare il ripasso generale sulla filosofia di Spinoza, Emilio, il giovane tirocinante che mi hanno assegnato, mi avvicina e mi dice di aver notato sulla lavagna luminosa un mio file dal titolo Thomas Bernhard. Ma fai lezione anche su Bernhard? No, non arrivo a tanto, ma sono un suo lettore accanito. E lui, che ha solo ventun anni, s’illumina. Piace tantissimo anche a me, dice. Si sta laureando su Spinoza e gli piace Bernhard. Sono cose che fanno piacere. 

Oggi ho detto a mia moglie che forse Putin ha degli assaggiatori. Sarà vero? Ma lei non ci fa una piega, non c’è da stupirsi, li avevano anche i Rizzelli. I Rizzelli? Erano i latifondisti di Spongano, dice ne parlava mio padre. Facevano così i Rizzelli, che quando trovavano dei funghi, prima di mangiarli, li davano da assaggiare a qualche servo. Loro, i Rizzelli, lo raccontavano per vanto.

Ecco, i servi sono proprio quelli che rischiano la vita per ingrassare gli altri. Ai tempi di Tolstoj, i servi venivano fatti coricare nei letti quando in campagna, nelle case nobiliari, c’erano degli ospiti. Dovevano rimanere sdraiati per ore e ore, così pulci e pidocchi si accanivano su di loro, e l’ospite poteva stendersi tranquillo sul letto bonificato.

 

 

Domenica 20

 

Oggi ho fatto una camminata verso la stalla di Ferrarini e sul ciglio della strada, vicino a un fosso dove scorre sempre dell’acqua a un certo punto vedo un bestione che sembra un topo gigantesco. Ma i topi scappano, invece quel bestione rimane lì fermo. Ha la coda del topo, ma è troppo grosso per essere un topo. Sarà una nutria. Così mi torna in mente quello che ha detto ieri sera un mio amico di nome Daniele, esperto di animali, cioè che nella pianura Padana si calcolano due milioni di nutrie. 

Le hanno portate dal Sud America per fare le pellicce di castorino, poi qualcuna è scappata e ha trovato un ambiente ideale. Sono bestie che arrivano a sette chili. Ci può mangiare una famiglia intera, dice Daniele. Si mangiano? Come no, in Francia le servono al ristorante. Ma non fanno schifo? Neanche per sogno, sono erbivori come i conigli. E in certi posti della bassa ferrarese pieni di nutrie, sono arrivati i lupi, hanno da mangiare tutto l’anno. D’altronde i lupi girano anche dalle nostre parti. 

 

Per dimostrarlo mi porta davanti al suo computer e mi fa vedere un filmato dove tre lupi vagano di notte nell’oasi di Marmirolo. Neanche un chilometro dalla via Emilia, verso Modena.

Dopo la camminata, appena a casa, cerco un quaderno dove so di aver trascritto un passo di Feuerbach, un passo sull’amore, ma non lo trovo. In compenso trovo un quadernetto di tanti anni fa dove c’è un elenco di cose alle quali un uomo dovrebbe essere pronto a rinunciare.

 

Un elenco molto lungo, disposto in ordine d’importanza. Nell’ultima pagina c’è un’annotazione che risale a un viaggio in Irlanda. 

Ero andato a trovare un mio amico che stava a Dublino e una sera eravamo finiti in un Pub a bere Guinness e Whiskey. Si faceva così, al Pub, una pinta di Guinness e un bicchierino di Whiskey, e poi ricominciare. Guinness e Whiskey Bushmills. Lì, al Pub John Mulligan, io e il mio amico avevamo pensato al titolo di un libro che si potrebbe scrivere come ultimo. L’ultimo libro della vita. Torto totale, questo il titolo che ci era venuto in mente. 

Rimane ancora un gran bel titolo, ma dovendo essere l’ultimo libro sorge una domanda: e dopo? Ho l’impressione che dopo un libro del genere, quello che l’ha pubblicato potrebbe anche morire da un giorno all’altro, e bisognerebbe essere del tutto privi di scaramanzia per pubblicare un libro dal titolo Torto totale

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