Il sapere incarnato della psicoanalisi / Psicoanalisi via Skype?

28 Giugno 2018

Il dibattito in corso sulla praticabilità della psicoanalisi via Skype, se non viene ridotto a una mera questione logistica e alla necessità di stare al passo con i tempi, potrebbe essere un’occasione, per gli psicoanalisti, di ripensare ed esporre le loro concezioni della cura e del così detto setting. Cercherò qui di dire le mie. Il rapporto tra filosofia e psicoanalisi gode di buona salute. O meglio, quello tra filosofia e psicoanalisi lacaniana, e dunque la lettura che Lacan ha dato del freudismo nel suo “ritorno a Freud”. Il reciproco interrogarsi di psicoanalisi e filosofia è stato molto vivace tra gli anni ’50 e gli anni ’70, quando il pensiero di Lacan (che era vivo, cosa che faceva evidentemente una certa differenza) costituiva un polo di attrazione per filosofi e intellettuali di ogni provenienza. Non solo, perché al suo Séminaire partecipavano anche molte persone così dette comuni. Gli anni ’50 della filosofia continentale sono stati dominati dalla fenomenologia, dall’esistenzialismo sartriano e dall’hegelismo-marxismo: ad essi Lacan ha attinto a piene mani. Più tardi, sulla scia derridiana, gran parte della filosofia si è dedicata alla decostruzione dei fondamenti della tradizione filosofica classica, e, con Foucault, dei dispositivi che il potere utilizza per esercitare se stesso e il proprio controllo, che tanto verterà sulla follia e sulle forme preposte alla sua costrizione e normalizzazione.

 

Il lavoro di Foucault sfocerà nella messa a punto del paradigma della biopolitica. Paradossalmente il confronto tra Lacan e le nuove forme filosofiche è stato più controverso e tormentato, talvolta persino all’insegna di una certa indifferenza, forse proprio perché esso avveniva su un terreno in fondo comune. La rinuncia della filosofia alle ambizioni onnicomprensive proprie della tradizione metafisica contiene in effetti un debito verso la psicoanalisi e la questione dell’inconscio che essa pone. Il limite all’umano prepotentemente introdotto dall’insegnamento freudiano (e con esso un ulteriore trauma per il suo narcisismo, secondo lo stesso Freud) sembra avere contaminato la filosofia che, nell’orientarsi verso un sapere non più onnicomprensivo, si cimenta anch’essa con il limite. Il freudismo si inscrive in una traccia di pensiero già esistente, orientata alla critica e allo smascheramento dei fondamenti del sapere occidentale, basti pensare a Marx, a Nietzsche e persino ad Einstein.

 

Opera di Fernando Botero.


Tale operazione non investe evidentemente solo la filosofia ma anche gli altri ambiti del sapere. La peculiarità costituita da Freud è che egli postuli l’esistenza dell’inconscio e che lo faccia dalla posizione di psicoanalista, ossia di chi ha a che fare in diretta con le produzioni dell’inconscio e che punta ad avere su di esso degli effetti compiendo atti analitici. Lo psicoanalista è qualcuno che ha scelto di conoscere la verità dell’inconscio di quel singolo soggetto e che lo accompagna in questa traversata assumendosene tutta la responsabilità (perché analizzato a sua volta). Egli “paga con la propria persona”, dirà Lacan. La sua è dunque una posizione etica i cui effetti si vedono nel corso della cura, e poiché Freud, rovesciando l’etica aristotelica del Bene, ha inaugurato l’etica del desiderio, è, tra le altre cose, al desiderio di quel singolo analizzante che il processo di una psicoanalisi mira. La teoria psicoanalitica non può essere disgiunta da una prassi che, anzi, la precede.

 

Ciò costituisce, tra le altre cose, un freno verso la speculazione ed è il motivo per cui Freud rifiuta apertis verbis i filosofi che “cantano nel buio per farsi coraggio”. Quello che egli rifiuta, essendo lui stesso uno dei più grandi pensatori del ‘900, è la filosofia in quanto corpo di sapere astratto, svincolato da una pratica. Il sapere psicoanalitico nasce dalla clinica, da un continuo esercizio costellato di interrogativi e di vacillamenti, pronto alla sorpresa (e l’inconscio ne fa di sorprese) e a rimettere tutto in questione. Visto che non siamo trasparenti a noi stessi, la psicoanalisi (e il suo inventore) è da subito edotta sul proprio statuto: lo sforzo di decodifica dell’inconscio, se conduce a ciò che di esso si può sapere, richiede anche, e soprattutto, l’avere a che fare con ciò che di esso non è dato sapere, ciò che risulta opaco, e non penetrabile al pensiero come un corpo fisico, non a caso Lacan parlerà, nel suo ultimo insegnamento, di inconscio reale. Del resto ogni linguaggio non solo deve fare i conti, ma può nascere solo dall’intermittenza tra presenza e assenza, e la psicoanalisi questo lo ha esplicitato a suo modo. Il paradigma è il gioco del rocchetto, il famoso fort-da: Freud osserva il proprio nipotino di diciotto mesi che, per sostenere le assenze della madre, o meglio, l’intermittenza tra le sue (fisiologiche, certamente) presenze e assenze, inventa un gioco che consiste nel gettare lontano da sé un oggetto e poi nel riprenderlo. L’angoscia legata al non avere costantemente l’oggetto a propria disposizione, alla constatazione che esso vive di vita propria, viene in questo modo addomesticata, i termini ribaltati: “non sei tu, oggetto, che vai e vieni come ti pare, sono io che ti prendo e ti lascio quando voglio”. Il piccolo Ernst ha inventato un linguaggio che gli sarà necessario per stare al mondo. La mancanza, il limite, sono necessari per stare al mondo, su questa intermittenza il soggetto strutturerà se stesso.

 

Non a caso Freud utilizzerà il fort-da per formalizzare il dualismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, tra le forze positive di Eros e quelle negative di Thanatos in Al di là del principio del sapere (1920), l’unico testo in cui si permette, annunciandolo, un’operazione speculativa, e che cambierà la storia della psicoanalisi. Ma il negativo non è solo distruttività, è anche quella sottrazione, quel limite, che permette allo psichismo di respirare, la mancanza che fa circolare il desiderio. Freud, questo borghese di Vienna, “uomo di desiderio”, come lo chiama Lacan (La direzione della cura,1958) ha inventato la psicoanalisi “confessando i propri sogni” (ibid.) e seguendo, dentro se stesso e persino contro se stesso, la traccia che lo conduceva al cuore del proprio essere: il sapere dello psicoanalista passa attraverso il suo corpo, è un sapere incarnato. Tutto questo può suonare come un cammino iniziatico, e lo è se esso viene inteso come una forma di tecnologia del sé, per dirla con Foucault che, mentre contesta (sbagliando) alla psicoanalisi la sua originalità, la assimila a una forma di cura di sé. Egli rintraccia l’origine del metodo psicoanalitico freudiano nelle tecniche di autoanalisi utilizzate dalle filosofie antiche e via via espunte dalla civiltà occidentale. Gli esercizi spirituali, abbandonati dalla filosofia, prendono nella religione cristiana la forma dell’ascesi e delle sue pratiche. Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, lo stesso Francesco d’Assisi e prima ancora i padri del deserto hanno coniugato la fede con le loro forme di vita. Se la psicoanalisi conosce la potenza della parola piena, è sempre più edotta sui limiti del linguaggio che non riesce a dire ciò che è dell’ordine del reale, dell’impossibile, di quel registro psichico da cui il linguaggio stesso ci separa. Freud ha collocato al centro della sua teorizzazione il piacere (Lust), che spesso gli esseri umani perseguono nonostante se stessi e procurandosi molta sofferenza. Dunque, nel corpo vivente che parla (“che mistero…”, dice Lacan a questo proposito nel Seminario XX) e nei suoi modi di godere si colloca il reale per eccellenza.

 

Di esso si riescono ad afferrare pochi brandelli per una serie di contingenze che attraversano la psiche e il corpo dell’analizzante e dell’analista, nel corso delle quali il linguaggio diventa più che altro un balbettio, una parola quasi afasica. Il nemico (l’insistenza di ripetizione) non si sconfigge in absentia o in effigie, dice Freud per sottolineare l’importanza del transfert in quanto motore della cura, perché permette di osservare in diretta l’inconscio al lavoro. Egli inizia a sperimentare i limiti della capacità significante delle parole, ossia dell’interpretazione comunemente intesa: il paziente parla, l’analista interpreta. È sempre più consapevole di quel resto che resiste alla simbolizzazione e che si ripete tornando sempre al punto di partenza, finchè una contingenza fortunata, una tyche, non ne spezza il corso. Circuito che investe il (corpo che gode del) paziente e, in modo asimmetrico, l’analista e che, anch’esso, non si può fronteggiare in effigie. Ecco perché, dal mio punto di vista, attraverso Skype si possono fare delle buone conversazioni, non certo un’analisi. Questo è un altro (e nuovo) limite a cui gli esseri umani che scelgono di fare gli analisti o di sottoporsi a un’analisi dovrebbero sottomettersi.

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