Luisa Muraro, Al mercato della felicità / Se desideri molto, avrai? E cosa?

16 Dicembre 2016

Dopo che Giuseppe l'ebreo fu tirato su dal pozzo e venduto dai suoi fratelli ai mercanti di schiavi Medianiti, e prima che venisse acquistato dall'eunuco Potifar per conto del faraone d'Egitto, molti, al mercato degli schiavi, si erano offerti di comprarlo. Tra loro una vecchia filatrice che mostrando alcuni gomitoli di lana colorata da lei stessa filata disse al sensale: «Ci sono anch'io, vendi a me quel giovanotto, lo desidero pazzamente, ecco qui il mio pegno». Il sensale rise: «Anima semplice, guarda che per questo gioiello di schiavo mi hanno offerto tesori; con il tuo filo non puoi comprarlo». «Lo so che in questo mercato io non lo compro» gli rispose la donna. «Mi sono messa in fila perché dicano, amici e nemici: anche lei ci ha provato». Con questo magnifico apologo, tratto da una breve storia scritta fra i secc. XII e XIII dal mistico persiano Farid al-din 'Attar, inizia il primo capitolo/non capitolo del saggio/non saggio di Luisa Muraro dal titolo Al mercato della felicità (nuova edizione presso Orthotes di un libro uscito per i tipi di Mondadori nel 2009).

 

La storia dell'anziana donna che vorrebbe comprare il bel giovanotto da lei pazzamente desiderato mi è proprio piaciuta, sia per il rovesciamento dei ruoli di gender, sia per il messaggio finale: anche la vecchia ci ha provato, provarci è importante. Se non vai al mercato non avrai nulla. E fin qui tutti d'accordo. Ma anche se vai al mercato coi tuoi gomitoli di lana colorata, si potrebbe obiettare, non otterrai un bel niente e tanto meno Giuseppe in persona. E allora? Che cosa cambia? Cambia il desiderio, cambia l'intensità del desiderio, cambiano gli effetti del desiderio sulla realtà – afferma Muraro – perché il reale non è indifferente al desiderio. Vuol dire allora, continuiamo a domandarci, che se desideri molto, avrai? Avrai che cosa, la merce che desideri? O l'apologo sta soltanto a significare che la realizzazione (=il divenire reale) del desiderio avverrà soltanto se desideri non beni materiali, per i quali i gomitoli di certo non bastano, ma un altro tipo di oggetti: l'arte, la libertà, il rispetto, la cura?

 

Mi par di capire che Muraro intenda l'uno e l'altro. Da una parte ella esalta quella capacità che oggi molti glorificano con estrema facilità e faciloneria, ovvero la resilienza. Resilienza, termine preso in prestito dall'ingegneria e trasferito dal linguaggio della tecnologia dei materiali a quelli dell'ecologia, del linguaggio informatico e della psicologia; qui esso indica, nell’illustrazione offerta da Marco Belpoliti, «la capacità di un organismo di autoripararsi dopo un danno: un sistema operativo capace di adattarsi e resistere all’usura. La capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre». Dunque, in altre parole, l'abilità di far tesoro degli handicap e delle carenze per diventare campioni di qualcosa, dal giornalismo allo sport. 

 

 

 

È una sorta di resilienza la dote della vecchia filatrice, il cui oggetto del desiderio, il bel Giuseppe, è posto talmente in alto da essere irraggiungibile? È un altro modo per esprimere la morale cattolica nel punto in cui essa esorta a fare di necessità virtù commisurando i desideri alle possibilità, e diventare una buona monaca, nelle parole di Alessandro Manzoni, anche se ti hanno monacato a forza contro la tua volontà?

I due messaggi di Muraro vengono rafforzati nel pensiero esposto nel secondo non capitolo del non saggio, Dei difetti fai profitti (se premetto le negazioni è perché il volume di Muraro non è una monografia tematica quanto una serie di considerazioni sparse ispirate a lavori precedenti e disposte lungo un percorso personale che l'autrice espone alla condivisione). Un «pensiero per tutti», lo chiama, che per tutti e tutte non è in quanto si ancora a due pilastri non da tutti/e condivisibili: la prospettiva fideistica cattolica con inclinazione alla mistica, primo, e, secondo, la posizione – all'interno del femminismo – definita di tipo «differenzialista». Io per esempio non condivido né il primo né il secondo pilastro; per quanto riguarda il secondo, faccio parte di quelle donne legate alla «landa d'insensatezza» – così Muraro la definisce – del femminismo dell'eguaglianza e dell'emancipazione che esige parità dei sessi e non sopporta la logica religiosa (non necessariamente cristiana, in questo tutte le religioni monoteiste sono sorelle) della differenza/complementarietà dei sessi, che mi sembra una sorta di apartheid sessuale: diversi ma uguali, o uguali ma diversi, come preferite, voi di qua noi di là e tutti felici e contenti. Io donna con le mie caratteristiche (innate? naturali? genetiche?) che risiedono nell’attenzione, nella cura, nella passività, nella devozione o nell’accompagnamento (sic) e di là gli uomini col coraggio, la decisionalità, l’audacia, l'attività, la creatività. O anche tutti insieme, non importa, purché sia ribadita la differenza.

Per quanto riguarda il primo pilastro mi associo alla posizione di Virginia Wolf: noi siamo le parole, noi siamo la musica, noi siamo la realtà, sicuramente e decisamente non esiste alcun Dio; cui aggiungo, di mio, noi siamo la misericordia che mette un po' di riparo al male; di Dio, se Dio ci fosse.

 

Ecco che allora il pensiero della differenza, già saldato con la dottrina della chiesa, si connette in Muraro col pensiero della resilienza o del far profitti da difetti, usando a proprio vantaggio il fatto di essere donne, minus habentes, dotate, lo dice Sant'Agostino, di parvus intellectus. Bello. Suona bene. (Hillary Clinton ci ha provato e le è andata male. Clinton ha perso perché ha affermato di essere donna ma essere una donna, e una donna di una certa età, non coincide con l'ideale vittorioso di forza, dinamicità e potenza che gli USA pretendono di incarnare). Il femminismo di Muraro con la sua logica del mercato della felicità esorta dunque a lottare contro il male di essere nate donne per vivere il femminile liberamente e incondizionatamente. Il suo è il femminismo filato col filo della resilienza e del far profitto del difetto, e tessuto al telaio della fede e della mistica. Che piace e ha successo. Non è il mio e di chi mi accompagna nella «landa d'insensatezza», ma pazienza. 

 

Luisa Muraro, Al mercato della felicità, revisione a cura di Clara Jourdan, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 178 (prima edizione: 2009 Arnoldo Mondadori Editore, Milano).

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