Femminismo e crisi della modernità / Soggetto nomade

19 Febbraio 2019

La mostra “Soggetto nomade”, composta da più di cento immagini, a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini inizia proprio nel momento in cui si intuisce che ogni immagine è un luogo di sosta temporanea e per questo ogni immagine deve essere liberata dalla sua natura sedentaria. Rosi Braidotti, a cui si sono ispirate le curatrici, essa stessa nomade e poliglotta, nell’introduzione alla sua raccolta di saggi intitolata proprio Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità (Donzelli, 1995) riassume così l’essenza del suo lavoro: “in esso si susseguono una serie di traduzioni, spostamenti, adattamenti a condizioni in continuo mutamento. Per dirla in altri termini, quel nomadismo che sostengo come opzione teorica si rivela essere anche una condizione esistenziale”. E inoltre: “il soggetto nomade è un mito, un’invenzione politica e mi consente di riflettere a fondo spaziando attraverso le categorie e i livelli di esperienza dominanti: di rendere indefiniti i confini senza bruciare i ponti”. 

 

Proprio questo accade mentre si guardano le immagini: pensiero ed esistenza si confondono, anzi l’esistenza e l’esperienza coincidono con il pensiero. Tutto è in movimento. Lungo il tunnel bianco e luminoso del Centro Pecci di Prato, come in una macchina del tempo, si percorre un cammino circolare, che si snoda tra il 1965 e il 1985. Le cinque fotografe sono: Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Paola Agosti, Letizia Battaglia e Marialba Russo. Le loro fotografie, tuttavia, non si limitano a restituire modi di essere di una soggettività femminile colta in un momento di profonda partecipazione, a testimoniare conquiste civili epocali, dovute principalmente alle donne, in un periodo di grande cambiamento. Ciò che davvero fanno è qualcosa di più radicale. I loro spazi incerti sono i luoghi della possibilità. Le immagini non sono solo testimonianze del proprio tempo ma proiettano, “nomadicamente” l’istante immutabile della fotografia, il “qui e ora”, in un futuro da immaginare. Per questo ciò che si vede nelle immagini è instabile, un frammento di tempo in divenire. Se tutto si muove, nulla è identico a se stesso: la possibilità del cambiamento viene suggerita grazie alla forza nomadica dei soggetti che le fotografe decidono di rappresentare. Lo sguardo vacilla, si muove, dubita insieme a ciò che vede. Non potrebbe che essere altrimenti. Ogni fotografa lo rammenta in modo diverso. 

 

Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, quartiere la Cala, Palermo, 1980.


Le bambine fotografate da Letizia Battaglia, nei quartieri degradati di Palermo, simboleggiano la bellezza che si oppone all’emarginazione. Nomadismo qui è fragilità, candore, innocenza. Dopo aver visto le più efferate stragi di mafia, e avere al suo attivo “un archivio che gronda sangue”, le bambine rappresentano la speranza nel futuro. Una donna che ha visto tanta morte si commuove dinnanzi alla possibilità che le ragazzine rappresentano: “ho capito che in queste bambine cerco qualcosa che si è spezzato in me a quell’età”, “tremavo di fronte a queste bambine”, racconta nell’intervista che si può vedere accanto alle immagini in mostra. Qui il nomadismo è il tremore dello sguardo. È incertezza. Ma anche speranza in un futuro diverso e migliore da costruire, desiderio di sconfinare. Lo sguardo nomade deve immergersi in ciò che è instabile, errare, perdersi, vagare, e poi andare avanti. Le immagini sono i vettori, le frecce che suggeriscono connessioni temporanee. La mappa di chi guarda è un vuoto dove i percorsi connettono diverse esperienze. Il soggetto nomade incarna lo spazio del possibile, un istante in cui vi è assenza di limiti. Le bambine di Letizia Battaglia sono dentro questo spazio mentale. La loro essenza è una promessa di mobilità e cambiamento.

 

Lisetta Carmi, I Travestiti, 1965, fotografia, stampa originale a gelatina d'argento / photograph, original gelatin silver print, 18 x 24 cm, © Lisetta Carmi, Courtesy Galleria Martini & Ronchetti.


Così come accade ai “travestiti” che Lisetta Carmi inizia a fotografare nel 1965, durante una festa di capodanno nei vicoli del centro storico di Genova, la sua città natale. Nei successivi sei anni diventa loro amica e, vivendo con loro, li fotografa. Il libro I travestiti a cura di Sergio Donnabella, con testi di Lisetta Carmi e di Elvio Fachinelli, viene pubblicato nel 1972. Come era già successo a Letizia Battaglia, quel mondo le offre lo spunto per riflettere su se stessa. Il primo atto di nomadismo è spostarsi in un mondo diverso dal suo. “Io stessa a quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi di identificazione maschile o femminile. Oggi capisco che non si trattava tanto di accettazione di uno “stato” quanto di rifiuto di un “ruolo”. E i travestiti (o meglio il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo. Osservarli mi ha fatto capire che tutto ciò che è maschile può anche essere femminile, e viceversa”, racconta nell’introduzione alla ristampa del libro in occasione della mostra a Roma, “La bellezza della verità”, curata dal suo gallerista Giovanni Battista Martini. L’identità è fluida. Qui il soggetto e lo sguardo del nomade coincidono con l’estasi, intesa come un viaggio fuori da sé, che permette di oltrepassare i limiti della soggettività. La condizione del nomade è la condizione in cui ognuno si trova a vivere e a guardare. Potrebbe essere davvero un’estasi condivisa dal creatore e dal fruitore. Poiché se l’identità crea unione, stabilità e riconoscimento, genera altresì chiusura, limitazione, arroccamento su ciò che si considera sempre “identico”. 

Una condizione e uno sguardo nomade si aprono invece alla relazione, al tempo, a qualcosa che “somiglia” e nello stesso tempo si spinge oltre un’originaria indivisibilità e singolarità. Essere perennemente identici a se stessi non consente di pensare le trasformazioni, il futuro, il cambiamento. L’immagine qui è una porta che apre e si apre a qualcosa che conduce altrove. E questo altrove è ciò che dobbiamo assumere. 

 

Elisabetta Catalano, Laura Antonelli sullo sfondo “The End” opera di Fabio Mauri, anni ‘70, vintage print, Photo © Elisabetta Catalano, Courtesy Archivio Elisabetta Catalano.


Proprio ciò che si vede nelle immagini di Elisabetta Catalano. Scena e vita si confondono. Il confine è labile. L'esordio come fotografa avviene sul set del film  di Fellini, in cui ricopre anche un ruolo da attrice. Le immagini in mostra raffigurano alcune famose star colte nel momento in cui sembrano più vulnerabili e distanti dal cliché della diva o della femme fatale. Elisabetta Catalano afferma che attraverso le sue immagini cerca di “farle assomigliare a loro stesse”, Charlotte Rampling, Monica Vitti o Laura Antonelli; così, nelle loro foto, si intravede un volto nuovo, “il momento di maggiore interiorità, senza difese di fronte all’obiettivo”. Svelare e nascondere reggono i capi del filo lungo il quale, sospese, si muovono le immagini della Catalano. I volti e i corpi prendono possesso dello spazio, sono una sorta di doppio, immagini aperte a un divenire tra ciò che si vorrebbe, o che si è abituati a vedere, e qualcosa che ancora sfugge all’identificazione. Laura Antonelli, sullo sfondo di “The End”, opera di Fabio Mauri, è irriconoscibile e per certi aspetti si prende gioco della sua stessa icona: non c’è nessuna casalinga sexy che sale su una scala mentre pulisce casa. Il soggetto nomade in queste immagini si muove in uno spazio diverso e sconosciuto. Nulla è come appare. I volti delle attrici di Elisabetta Catalano traducono visivamente le relazioni che intercorrono fra ciò che si è, e fra ciò che, invece, è altro da come si è o ci si sente di essere. 

 

Marialba Russo, Travestimento, 34 stampe ai sali d'argento, 24x30 cm, 1975-1980.


Marialba Russo compie una operazione simile, ma più esplicita. I volti dei soggetti ritratti non sono definibili: uomini, donne, o altro ancora? È questo elemento di incertezza che seduce chi guarda. Si tratta di un dialogo che scatta immediato, un’empatia fulminea. Il trucco, gli abiti, le espressioni, hanno nello stesso tempo qualcosa di eccessivo e di assolutamente ordinario. Si ha l’immediata percezione che quei volti non potrebbero essere altro da come li vediamo nelle fotografie. Si potrebbe quasi dire che coincidono con loro stessi, nello scarto di uno spazio che appare incongruo, ma per un motivo ancora oscuro, stranamente coerente. Dunque a chi appartengono? A uomini che per un giorno, a Carnevale, si travestono da donne. Marialba Russo li fotografa tra il 1975 e il 1980 nelle province di Avellino, Benevento, Napoli e Salerno. E poi pubblica un libro intitolato Travestimento. I loro volti sono tutti lì, trentaquattro identità nomadi. Nomadismo qui è ciò che viene stravolto, perché l’apparente, per un solo momento, rende accessibile il lato nascosto. La fotografa lo racconta: “improvvisamente ho notato queste persone che si travestivano per un giorno. È una ricerca basata sulla rappresentazione del Carnevale, e nel Carnevale coesistono tutti gli stravolgimenti possibili. Mi ha colpito la sensazione che ricevevo nel vedere questi uomini travestiti da donna, che impercettibilmente assumevano una condizione femminile, diventano donne nel vero senso della parola, nel linguaggio, nelle maniere. Io, nella serie ho cercato di rendere visibile questa impercettibilità”, che si espande nella foto e diventa una rivoluzione radicale ma temporanea, come a Carnevale. Per questo lo sguardo nomade è anche lo spazio della trasgressione. Fotografare significa aprire a uno spazio nuovo, dissacrare. I volti nelle fotografie sono usciti per sempre dal silenzio, come le donne di Paola Agosti.

 

Il titolo di un suo famoso libro Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne del 1976, è utile come guida per sconfinare, prendere un sentiero dove le battaglie delle femministe diventano quelle per un’intera collettività. Le donne non si limitano a stare in casa. “Feci la conoscenza di una certa Italia non sempre dichiaratamente femminista, ma fatta di donne che avevano lavorato in risaia, fatto la Resistenza, che erano entrate per prime a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord: tutta un’umanità al femminile straordinaria”, racconta la fotografa. Le immagini testimoniano allo stesso tempo l’attraversamento e la descrizione dello spazio attraversato. Lo spazio è quello delle lotte, l’oggetto delle rivendicazioni è ciò che attraversa il tempo e giunge sino noi. Le donne manifestano in cortei, sono ritratte mentre lavorano nei consultori e costruiscono spazi di aggregazione. Alla base di queste rivendicazioni vi è spesso un desiderio di mutamento esistenziale inteso come passaggio attraverso una forma di azione che si esprime mediante una ribellione al conformismo, alle leggi, allo Stato. 

 

Tutto deve ribollire, espandersi, evolversi. I confini vanno trasformati in linee mobili da intrecciare e aggrovigliare. La circolarità suggerita dal percorso espositivo, offre la possibilità di percepire un deambulare morbido e mobile, dove nulla si contrappone a nulla, ma dialoga costantemente, al di là delle linee temporali. Tant’è che il volto di Charlotte Rampling può essere accostato a quello della “Gilda”, uno dei travestiti di Lisetta Carmi, mentre le bambine di Letizia Battaglia, potrebbero essere le figlie delle femministe di Paola Agosti. O i maschi precari di Marialba Russo si accosterebbero con piacere al corpo e al volto di Silvana Mangano ritratta in forma androgina da Elisabetta Catalano. Ognuna di loro è nomade in sé e per sé. Nomadismo è abbandono di un’identità chiusa, a favore di un coacervo di istanti, volti, momenti, maschere che ognuno di noi si porta con sé. Guardare soggetti nomadi con uno sguardo nomade schiude nuovi spazi, dove la conoscenza diviene percorso esistenziale. Anche la fotografia è nomade. Le immagini si aprono e si richiudono su di noi nella misura in cui suscitano un’esperienza interiore, che presuppone una loro comprensione e un movimento che mette in relazione dei corpi con altri corpi. Non è più possibile separare l’immagine come oggetto e l’immagine come operazione del soggetto. 

Se filosofi e scrittori definiscono la società come uno spazio liquido o gassoso, osservare il nomadismo dell’identità significa osservare e comprendere il nomadismo dello sguardo, spogliarlo del conformismo e della superficialità, tornare alle origini dei fenomeni. La fotografia è vita, diceva Letizia Battaglia, e ogni vita può diventare la vita di ognuno di noi. Forse è questo che vuol dire essere soggetti nomadi.

 

Mostra: Soggetto Nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985

Centro Pecci Prato, 14/12/2018 – 08/03/2019

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