La politica dell’impossibile / Stig Dagerman, il genio suicida

27 Giugno 2016

Nelle pagine finali di Il nostro bisogno di consolazione, Stig Dagerman scriveva “Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione”. Quel testo, pubblicato su un periodico svedese nel 1952 (e disponibile da Iperborea nella traduzione di Fulvio Ferrari), venne considerato il suo testamento. L’autore di Bambino bruciato aveva ventinove anni. In cinque anni di scrittura forsennata, tra il 1945 (anno di uscita del suo romanzo d’esordio, Il serpente) e il 1950, aveva pubblicato romanzi e racconti che gli avevano fruttato un grande successo. Dagerman era l’enfant prodige della letteratura svedese del dopoguerra. Nella sue pagine i lettori potevano trovare disperazione e rabbia, e un radicalismo che era la conseguenza più diretta di un inesausto arroverallarsi sul tema della libertà.

 

“La libertà ha inizio con la schiavitù e la sovranità con la soggezione”, scriveva ancora in Il nostro bisogno di consolazione. “Il più sicuro indizio della mia mancanza di libertà è il mio timore di vivere. L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza”.

Queste parole, strette tra la paura di stare al mondo e l’anelito a farlo senza condizionamenti, vengono a tutt’oggi considerate profetiche di un destino che si stava per compiere. L’anno successivo, dopo un lungo periodo lontano dalla scrittura, Stig Dagerman si sarebbe chiuso nella sua auto, in garage, e si sarebbe ucciso soffocandosi con i gas di scarico. Eppure Il nostro bisogno di consolazione è un testo di straziante bellezza – uno tra i più struggenti e limpidi di questo che resta tra i maggiori scrittori del secolo scorso – proprio perché non è il referto psichico di un suicida, ma la testimonianza di un pensiero libero e forte, coerente nella sua devastante contraddizione. Ne abbiamo ora la conferma con la pubblicazione di La politica dell’impossibile (Iperborea, nella consueta ottima traduzione di Fulvio Ferrari), che raccoglie i testi della militanza anarchica di Dagerman in un arco di tempo che va dal 1943 al 1952. È un Dagerman che usa parole più svelte e stropicciate, frutto di un apprendistato politico e del ribellismo giovanile. Il primo lo apprese alla scuola del padre (un operaio anarchico nella Stoccolma dei primi anni Trenta) e il secondo è, forse, il frutto più di un’insofferenza al potere che di una coerenza ideologica.

 

Fin dai diciassette anni, come riepiloga Fulvio Ferrari nella prefazione, Dagerman mise la penna al servizio del sindacato. All’inizio come redattore della rivista anarchica Storm (“L’assalto”), e poi nel quotidiano Arbetaren (“Il lavoratore”). C’è un tono tra il romantico (“Cuori ardenti. A chi interessano più i cuori ormai? E i poeti?”, scritto mentre la guerra infuriava) e l’implacabile. Il ventenne che contribuisce al movimento anarco sindacalista tiene la realtà sotto assedio con l’esercizio di un pensiero critico serrato. Dove il pensiero dominante imbelletta il presente, tentando di vendere quello del benessere come il migliore dei mondi possibili, lì il giovane scrittore fa la punta alla matita, e parte all’attacco: “Lo stato democratico della nostra epoca presenta un tipo del tutto nuovo di disumanità, la cui natura non è migliore di quella dei regimi autocratici del passato. Il principio divide et impera non è stato abbandonato, ma l’angoscia creata dalla fame, dalla sete, dall’inquisizione sociale è stata, almeno in linea di principio, sostituita come strumento di dominio nello stato del benessere dall’angoscia dovuta all’incertezza, all’impossibilità dell’individuo di decidere il proprio destino nelle questioni essenziali”.

È lo stesso Dagerman di Bambino bruciato e di Il nostro bisogno di consolazione, il poco più che ventenne che scrive queste parole. Dietro la penna c’è sempre un uomo che si chiede che spazio ha la letteratura, in un mondo messo a pascolare dentro i recinti del potere. Lo affronta esplicitamente in un testo del 1945, ora contenuto in La politica dell’impossibile, “Lo scrittore e la coscienza”, mettendo sulla pagina l’implacabile contraddizione tra la ricerca costante dell’armonia e l’assedio benefico del dubbio. È un istinto naturale quello di trovare una casa al caos, e a ogni riga si affaccia l’illusione di esserci riusciti: “Lo scrittore è riuscito a convincersi di avere racchiuso l’infinito entro confini solidi e indistruttibili”.

 

 

 

Una conquista che però è come un tranello, perché disinnesca l’allerta degli occhi e del pensiero: “Crede di aver finalmente trovato quella stabilità tanto a lungo desiderata. Una nuova sicurezza, che assomiglia purtroppo alla beatitudine del pensionato, si impadronisce di lui. Ben presto quest’uomo diventa pericoloso con la sua garantita assenza di problematicità, che lui si ostina a presentare come l’ideale di qualsiasi forma di vita”. Poi, salutare, la messa in discussione delle cose: “All’improvviso, arriva lo choc. […] La falsità dello stile di vita che si era imposto doveva in fin dei conti risultargli chiara. In fondo non poteva sconfiggere la volontà di dubitare, anche se in molti lo aiutavano a provarci”. Dagerman ha chiaro che è questa insidia, questa condizione di latente disperazione a fare della letteratura il bene più prezioso. “La letteratura va difesa giorno per giorno, momento per momento. Non c’è una difesa definitiva, così come gli attaccanti, i sostenitori dell’ordine più o meno stabilito, non ritengono mai che il loro attacco sia l’ultimo”.

 

Quello di Dagerman è un universo che ruota intorno alla contradizione. Quella di uno scrittore di origini operaie ma con un successo borghese, e a monte, soprattutto, quella tra una realtà che occulta il conflitto e la letteratura che invece lo deve testimoniare, che deve portarlo fuori a parole. Dagerman è il grande scrittore dei conflitti messi sotto il tappeto. Il suo è un mondo appena uscito da un grande conflitto mondiale e che assomiglia al nostro perché in realtà il conflitto è più vivo che mai. La politica, dice questo libro imprescindibile, troppo spesso è il braccio armato della ragione, è la libertà messa in manette e poi rinchiusa dentro una cella chiamata società. La democrazia in fondo non è altro che una forma di ragionevolezza a perdere, l’accettazione, troppo spesso, di una resa delle cose. Gli anarchici, sembra dire Dagerman, non si arrendono mai, ed è questa per certi versi la loro sconfitta vittoriosa. Chiedere il possibile è l’ammissione di uno scacco, è un’eutanasia sociale che si riconferma a ogni esercizio del potere, la condanna a morte di ogni utopia e di ogni soprassalto rivoluzionario.

 

La politica, questo logoramento dell’agire collettivo, va di pari passo con una devitalizzazione culturale: “una maggioranza spaventosamente grande versa nella miseria intellettuale o, per essere più precisi, in una totale assenza di bisogni culturali che è indegna di esseri umani che vivono in una democrazia”. Il possibile non è altro che l’archiviazione del futuro, per Dagerman: “La politica è stata definita l’arte del possibile. Mi sembra una definizione adeguata. Il possibile è in effetti il minimo pensabile. Credere nel possibile significa avere operato una censura preventiva nelle possibilità del rischio, della speranza e del sogno. […] Non è mai senza senso scegliere l’impossibile invece del possibile. L’unica cosa insensata è accettare il possibile”.

 

Questo articolo è già uscito su Alias, il manifesto, 17 aprile 2016.

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