Antonio Riccardi / Tormenti della cattività ovvero l’enigma di esistenza e di poesia

4 Gennaio 2019

Autore di parca produzione (le dita di una mano sono più che sufficienti a numerarne i libri pubblicati), Antonio Riccardi (Parma, 1962) è poeta di una ricchezza di motivi e di una forza di scrittura evidenti anche a una prima lettura e a una superficiale frequentazione. 

Da poche settimane in libreria, il nuovo libro in versi di Riccardi, edito da Garzanti, si propone al lettore col suo titolo enigmatico: Tormenti della cattività. Titolo che forse un poco si dipana se proviamo a rovesciarne per gioco la semantica: felicità della libertà; a lettura conclusa, infatti, pare proprio stare in questa aspra contesa tra tortura e benessere e tra prigionia e libertà la chiave a doppia mandata che permette di “entrare” nel testo e di vederlo, mirabilmente, “funzionare”. È il testo stesso che, qua e là, suggerisce questa coppia di opposti come costitutiva e vitale spina dorsale del libro: “Felicità e tortura se solo sospiri / abbracciandomi ancora bagnata / nella nuvola del cloro” dove si comprende che a mettere in moto la felice-dolorosa dialettica è – vecchio fantasma dei poeti – Amor di Donna qui declinato più che nella coesistenza canonica di amore-odio in quella, appunto, di gioia-tortura di tanti poeti in Amore (e dicitore originalissimo di Amore Riccardi lo era già stato in un precedente suo libro, Aquarama, uscito sempre per Garzanti nel 2009). 

 

Nel libro di oggi appare chiaro che una parte almeno dei componimenti si inscrive a pieno titolo alla famiglia del “Tormento Amoroso”, vero e proprio sottogenere della poesia lirica da Saffo ai contemporanei, passando per Cavalcanti (“Tu m’hai sì piena di dolor la mente”), per il Dante petroso (“E io de la mia guerra / non son però tornato un passo a retro, / né vo’ tornar; ché, se ‘l martiro è dolce, / la morte de’ passare ogni altro dolce”), per l’ineludibile Petrarca (“Negli atti d’allegrezza spenti / di fuor si legge com’io dentro avvampi”) fino al Da Ponte di Le nozze di Figaro (“Non so più cosa son, cosa faccio, / or di foco, ora sono di ghiaccio…”) per citare solo quattro esempi da antologia scolastica.

C’è qualcosa che subito si nota avanzando dalle “Scene da un matrimonio” come l’autore titola il suo “Primo Tormento” alla sezione intitolata “Twin Palms” (al centro del libro) ed è il ritmo fermo (e duro) che tiene (staremmo per dire “trattiene”) questa Poesia, quasi che all’esperienza dolorosa dell’uomo che in questi componimenti dice “io” – ma che a tratti trapassa alla terza persona – alla sua mancanza di coraggio, di fermezza e di leggerezza durante la prova amorosa, corrispondesse nella prova poetica una straordinaria tenuta di stile: “Tanto improvvisi sono / bagliore e antivedere / e poi più niente, finis terrae” dove è la scansione stessa dei versi e dei loro accenti a dire l’ineluttabile “antivisione della propria fine”. Se la pena dell’uomo è stata causa di in-fermità, la penna dell’autore si mostrerà fermissima nell’autodenuncia del proprio errare (dalla sezione “Chi Chi Club”): 

 

Alla fine, lui non la voleva più.

Era solo intenerito dal fulgore

di lei nuda, sbiancando ormai

rimorsi, godimento e fine.

 

Come altre volte, aveva sentito

il tempo passargli avanti e le cose finire

senza doverlo dire davvero.

Brutta cosa la viltà, aveva pensato.

 

 

L’impressione è che il personaggio che dice “io” o “egli” (alter ego dell’autore? sua proiezione? suo interprete?) si muova tra due dimensioni dell’esistere: quella dell’heimisch e quella dell’unheimlich per dirla con Freud (ma anche con Heidegger!), quella cioè del “sentirsi a casa”, del “familiare” e, al suo opposto, quella del “perturbante” o dell’“estraneo”: la prima che porta con sé il senso del benessere e della liberazione, la seconda quello del malessere ma anche del pericolo. Tra i due versanti di questo stare al mondo si dà una lotta incerta (all’ultimo gesto, all’ultimo sguardo, all’ultimo verso); campo di questa lotta il corpomente del protagonista mai veramente pacificato. 

A conferma di questa impressione stanno i testi centrati sull’eredità familiare, il podere di Cattabiano sull’Appennino parmense, cui Riccardi aveva dedicato un altro libro, Il profitto domestico, uscito nel 1996 con Mondadori e ripreso diciannove anni più tardi dal Saggiatore. Nei Tormenti il Tempo-Mondo di Cattabiano, proprietà della famiglia Riccardi da più di cinquecento anni, è, per eccellenza, il regno del “proprio”, la Casa appunto, la Piccola Patria. È qui che l’autore si riconosce e si specchia ma è sempre qui che le angosce (e le tregende) familiari diventano anche patrimonio del poeta: è qui, è da qui che si parte per riandare al padre defunto: 

 

                                Oscuramente so

                                che il posto dove sei adesso 

                                è qui, nella mia camera da letto

                               

                                a picco sul Prato di sotto

                                e sulla valle dove i nostri morti

                                erano vivi prima di noi 

 

secondo componimento – questo – di una serie di cinque dedicati alla scomparsa del padre e tutti significativamente introdotti al primo verso dallo stesso avverbio: “Oscuramente”. Rientrano nell’universo di Cattabiano le Prescrizioni prima della battaglia, verosimilmente tratte da una reale esperienza bellica di un antenato dell’autore (guerra del ’15-’18?) ma che qui assumono una valenza universale, per qualsiasi “bellum” da combattersi in qualunque tempo e luogo: ci sembra che si tratti di uno dei componimenti più forti e incisivi di tutto il libro, con quelle sue sette terzine potenti come massime arcaiche, oracolari, terribili e indiscutibili: “Alzarsi come si alza il serpe / nel fuoco del combattimento / forte del suo stesso fulgore”… (ma è tutto da leggersi e rileggersi, ad alta e lentissima voce). Sembra che sia qui il cuore stesso dell’etica e della poetica di Antonio Riccardi: un’etica riscritta a partire dall’esperienza del dolore e della battaglia (il proprio dolore, la propria battaglia, ma anche quelli di coloro che ci hanno precorso nei secoli sulla stessa terra). Un’etica e una poetica da combattente al lavoro – per sua natura senza fine – sul terreno dei versi (Gli impianti del dovere e della guerra si intitolava un altro libro del poeta uscito per lo stesso editore nel 2004). 

 

I tratti enigmatici di molti di questi versi ci ricordano che in tutti i testi di Riccardi è all’opera la fascinazione per il mistero, per l’ambiguo, per il finto o il ricostruito come vero (i suoi diorami!), per le domande della Sfinge (ed anche in questo ultimo libro l’ultimo brevissimo componimento – un solo verso – è chiamato “Enigma alla fine”).

Il procedere sincopato di molti pezzi di questa Poesia è confermato (e radicalizzato) nelle quattro “Prove per un cenotafio” a chiusura di volume. Qui assistiamo alle prove di stesura di lapidi ideali (per se stesso o per un antenato omonimo, non importa molto) dove i temi di tutto il libro (guerra avventura lavoro amore morte) sono come riannodati e stagliati negli a capo delle iscrizioni tombali: “Vita prodezze e morte / di / Antonio Riccardi / soldato d’una ventura…”. 

Leggendo questi Tormenti della cattività, ci è tornata alla mente la celebre formula con cui Gerald Manley Hopkins, un secolo e mezzo fa, chiamò il linguaggio poetico: “current language heightened” a dire che la lingua di Poesia è, insieme, lingua comune e lingua specialissima perché “heightened” cioè elevata o intensificata; in questo recentissimo libro di Riccardi la lingua offre, costantemente, l’impressione di naturalezza e insieme di una “alta tensione” che penetra tutti i vocaboli e la loro combinazione, frutto di un’attenzione (e di una passione) per la Parola che non è della lingua comune. 

Infine, se ci è concessa una fantasia e se, come ai buoni vecchi tempi, esistessero ancora lettori di Poesia che amano apprendere a memoria qualche testo in versi (per poi ripeterselo ogni tanto, anche in assenza del libro che lo contiene), consiglieremmo l’apprendimento del testo riportato ad apertura di volume: “Falso titolo, antiporta”, una sorta di divertito “indice” della raccolta in cui un semplice elenco di argomenti si fa – “naturalmente” – grande poesia. 

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