E i platani, hanno ragione / Umberto Fiori: la profondità dell’evidenza

7 Gennaio 2018

La luce sul muro è il titolo del documentario dedicato a Umberto Fiori. Prima che poeta Fiori è stato negli anni Settanta la voce del gruppo musicale “Stormy Six”, oltre che autore di alcuni dei testi eseguiti dal gruppo. Il film, opera di Giovanni Bonoli e Massimo Cecconi, è stato proiettato di recente a Milano. Racconta attraverso brani d’interviste con l’artista e interventi di suoi amici ed estimatori, la multiforme attività di Fiori. 

Negli Ottanta il gruppo si scioglie e Fiori si trova a ricominciare da capo. La poesia sarà il suo approdo. Pur avendo scritto anche alcuni saggi e un romanzo, e pur presentandosi ancora di tanto in tanto sulle scene come cantante, da allora si è mantenuto fedele alla poesia con la pubblicazione di diverse opere che, dopo essere uscite singolarmente per editori come San Marco dei Giustiniani, Marcos y Marcos e Mondadori, sono state raccolte qualche anno fa in un unico volume (Poesie 1986-2014, Oscar Mondadori, 2014) con l’aggiunta di un poemetto inedito che lascia intendere come l’attività poetica sia destinata a continuare. Dunque non è forse ancora giunto il momento di fare un bilancio della sua carriera letteraria. Tuttavia, a questo punto, potrebbe giovare prendere in considerazione l’opera poetica di Fiori nel suo complesso, almeno per delinearne lo spirito che la anima fin dagli esordi e rintracciarne gli elementi costanti.

 

Fiori, pur indossando l’abito dell’osservatore, non se ne sta in un angolo: è uno fra “tutti”, uno che guarda gli altri anche per vedere se stesso, e per capire cosa significa entrare prima in contatto e poi, appunto, in relazione. Così la sua poesia riesce a essere a un tempo distaccata e partecipe. In essa c’è l’umanità anonima, ma c’è anche un individuo con la sua voce ben distinta, che descrive e racconta quell’umanità. Il poeta è sì uno fra tutti, ma non uno dei tanti. “Mi chiamo Erik Satie, come tutti”, è una delle citazioni che Fiori ha posto in esergo a una sua raccolta (dal titolo Tutti, appunto), e che rende bene l’idea. 

Se l’attenzione del poeta è attirata da qualcuno o da qualcosa, non è per scelta preventiva, ma per una specie di predisposizione alla scoperta improvvisa, di sensibilità all’apparizione, all’illuminazione – verrebbe quasi da dire. Lo stile invece, come vedremo, è frutto di una precisa volontà comunicativa. Ed è proprio la combinazione tra il soggetto di cui si occupa e il linguaggio usato per trattarlo a rendere questa poesia così riconoscibile. Il mondo che il poeta ci presenta risente del suo spirito personale, e quindi, pur essendo lo specchio di quello quotidiano, è così fortemente caratterizzato che dopo la lettura – passando per certi luoghi, assistendo a certe scene, incontrando certe persone, ritrovandosi in certe situazioni – sarà difficile non esclamare: “Sembra di essere in una poesia di Fiori!” 

 

In tutti i componimenti di Fiori la perspicacia, unita alla chiarezza, è accattivante. Cominciata la lettura di un testo, possiamo stare certi che il suo esito sarà come la dimostrazione di un teorema: si resterà convinti, si sentirà di non avere obiezioni – e di essere felici di non averle – e ci si arrenderà con piacere a un’evidenza che ci dichiara limitati (perché noi non c’eravamo mai accorti di certe verità che avevamo sotto gli occhi tutti i giorni!), e nello stesso tempo dilata i nostri confini, e quindi anche i nostri orizzonti. Quei muri di cui il poeta parla, quelle case, quelle cancellate, quei cantieri, quei prati li abbiamo visti anche noi, su quell’autobus siamo saliti anche noi, quella sirena nella notte l’abbiamo sentita anche noi, quella discussione l’abbiamo avuta anche noi. Tutti abbiamo visto, sentito e fatto le stesse cose di Fiori, ma lui ha saputo trarne osservazioni e analogie di valore universale. E ha saputo trarne conclusioni. Conclusioni che, appunto nel finale di ogni poesia, sono in grado prima di sorprenderci e poi di lasciarci compiaciuti. 

 

ALLARME

 

In piena notte

sui viali scatta un allarme.

Si ferma, e poi ripete

due note acute, tremende, con la furia

di un bambino che gioca.

Nei muri bui dei palazzi lì sopra

le finestre si aprono, si accendono.

 

Tranne la strada

in mezzo ai rami, vuota,

niente si vede. 

Si tirano le tende

e si rimane intorno a questo urlo

come si sta in un campo

intorno a un fuoco. 

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

Sì, tutti abbiamo avuto le stesse esperienze di Fiori, ma solo lui le ha sapute rendere significative. Di più: solenni.

Solenni. Il termine potrebbe apparire inappropriato, vista l’ordinarietà delle scene descritte nei testi. Ma se ci facciamo caso, leggendo siamo indotti ad assumere spesso l’atteggiamento serio e composto di chi si trova di fronte a un luogo sacro; eppure ci stiamo occupando di un bar, di una piazza o di un condominio. 

Che cos’è allora questo senso di profondo rispetto che nasce in noi di fronte alla vita comune brulicante nei versi? Forse è la risposta umana più elementare alla rappresentazione dell’esistenza altrui, rappresentazione che in questi testi è così autentica da chiamarci in causa, trasformandosi in ammonimento, giacché all’autenticità non siamo tanto abituati. È come se gli altri, senza nemmeno volerlo, ci incalzassero, ci costringessero a definirci in rapporto a loro, divenuti improvvisamente sacri da ordinari che erano. Come se ci chiedessero: ti sei accorto di me? hai riconosciuto il mio mistero? capirai mai davvero chi sono?

 

STAZIONE

 

Nella sala d’aspetto

a un certo punto il rombo delle chiacchiere

è finito di colpo.

 

È stato lì che tutti

ai nostri posti

abbiamo alzato gli occhi e per un attimo

ci siamo visti.

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

Fiori, in buona parte della sua prima poesia, si presenta come “uno” (cioè si identifica in una persona qualsiasi) che si sposta per la città a piedi o con i mezzi pubblici. Spesso è un passante, qualche volta un “passeggiatore solitario”, che si imbatte in qualcuno o qualcosa. Ogni fatto – il più usuale, il più banale – per lui potrebbe assumere le caratteristiche dell’evento, che in quanto tale contiene e trasmette senso, impone una sosta, un intervallo celebrativo in cui raccogliere e concentrare i pensieri; anzi, il pensiero, quello che normalmente si sfilaccia disperdendosi tra le mille incombenze della vita. 

Nel suo andare il poeta è una specie di romantico dimesso, che non fantastica e non si esalta, e che – con insaziabile interesse e compassata meraviglia – trova il sublime non nella natura, non nelle vette, negli abissi o negli spazi sconfinati, ma nell’immediato, nel familiare, nella routine: nel mondo consueto, insomma, dove sembrerebbe davvero difficile smarrirsi, e invece appare addirittura augurabile, giacché solo chi si smarrisce cerca la strada giusta. Chi conosce già bene il percorso, infatti, spesso neanche si accorge di star camminando. Fiori invece ha la curiosità (e spesso anche la chiaroveggenza) degli smarriti, cioè di quelli che cercano un orientamento leggendo in ogni cosa – in ogni ombra, quasi – un segno che rimandi a qualcos’altro, possibilmente a una verità: non alle grandi verità metafisiche, si intende, ma a quelle più modeste, quelle che possono accompagnare la vita di ogni giorno fornendo un minimo di rassicurazione. 

 

VISTA

 

La luce sul capannone,

le due finestre murate

e il fosso, lì sotto, e i platani,

hanno ragione.

 

Guardi, e ti chiedi

come sia possibile

imparare da loro.

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

L’impressione è che questo passante o passeggiatore solitario sia un uomo che si lascia raggiungere e occupare dalle tante forme – dai tanti volti – del mondo altrimenti evanescenti. Prima coglie, poi capisce; cioè accoglie. Una volta accolta la realtà, diventa poeta e si incarica di restituirla e condividerla, e a questo punto noi lettori ci rendiamo conto di quanto – della realtà e del suo significato – ci sia sempre sfuggito. Come siamo distratti, come siamo ciechi! E invece Fiori… Fiori, per così dire, è un visionario senza allucinazioni, un visionario a cui appaiono non le cose soprannaturali, ma quelle reali. È un visionario che vede quel che si vede. E proprio per questo vede anche quel che non si vede. 

Il poeta si muove dunque come un esploratore di ambienti già noti, ma con lo spirito con cui un esploratore vero si muoverebbe in un territorio sconosciuto: è attento, curioso, pronto a godere – se càpita – di una “bella vista”, delle “belle giornate” (come Montale dei limoni), ma soprattutto ad allarmarsi ad ogni rumore sospetto, cercando spiegazioni. Ha qualcosa del “botanico del marciapiede” baudelairiano, qualcosa dell’umile – e in un certo senso candida – disponibilità walseriana all’incontro, e qualcosa del semplice andare per le strade alla Sbarbaro: una predisposizione che è quasi un destino. È comunque più uno che si sposta tra due luoghi che un girovago senza meta. Perciò, se succede qualcosa che attira il suo interesse, si tratta di un incidente che interrompe il corso delle cose. Ma se il comune viandante è infastidito dall’interruzione, che ritiene gli faccia solo perdere tempo, il poeta invece ne è stimolato, perché in fondo l’interruzione è una tregua nella silenziosa guerra quotidiana. Ed è proprio nella tregua che si ritrova il valore del tempo, vale a dire della vita: la vita che è esposta a ogni sorta di insidie, di cui giungono di tanto in tanto dei segnali a chi è capace di riceverli. 

 

In Fiori, appunto, opera sottotraccia un acuto senso dell’insidia. Nella sua poesia c’è ansia, anche se a volte espressa con distacco o velata di ironia. Ansia per il mondo, per ogni elemento che lo compone. Anche in questo caso – come in quello della verità – non si tratta di qualcosa di metafisico. Fiori, pur mantenendo perlopiù un tono calmo e un contegno misurato, entra in allarme per le forme minori del male, quello che si presenta sotto l’aspetto dell’imprevisto, della discussione, dell’incomprensione, dell’equivoco, dell’incongruenza, del litigio: dell’imperfezione, in una parola. Tuttavia, attraverso questo interesse per le forme minori del male, è come se ci segnalasse l’incombenza del male metafisico, che potrebbe pure – come è sempre successo – assumere storicamente aspetti mostruosi, per non dire catastrofici. Per un motivo o per un altro nel mondo manca l’armonia, anche quando sembra che ci siano tutte le condizioni perché si realizzi. E se è vero quanto scrive Sartre, cioè che “l’inferno sono gli altri”, allora per reazione nasce subito il desiderio dell’opposto, cioè che gli altri siano il paradiso. Ma è un desiderio destinato a rimanere inappagato, o a trovare una soddisfazione solo parziale.

 

A voi io penso sempre. Penso alla mia

infinita mancanza.

 

Cos’altro ho avuto in testa,

tutta la vita?

 

Lo so, non ci sarete

mai abbastanza.

 

Ma perché allora, perché

non ce ne andiamo tutti via?

 

da Voi (A. Mondadori ed., 2009)

 

Ph Albarran e Cabrera.


Gli altri, appunto. Come si è detto, una volta entrati a far parte della poesia di Fiori, gli altri (e le situazioni in cui si trovano) ci costringono a fermarci e a soffermarci, a esserci e soprattutto a essere, mentre credevamo di dover solo fluire, trascorrere, svanire come anonimi uomini della folla. Ci sbagliavamo. Noi siamo perché guardiamo, e non solo perché pensiamo, sembra suggerire il poeta. Meglio ancora, siamo perché guardiamo in faccia. E infine siamo perché entriamo in relazione. Che quest’ultima sia fugace o durevole, superficiale o intima, facile o complicata, non importa: il contatto è sempre un’affermazione di esistenza. Dobbiamo solo stare attenti alle distanze, alla giusta misura. Dipenderà anche da questo se gli altri saranno l’inferno o il paradiso. È la giusta misura – così rara, così ardua – il presupposto necessario dell’armonia nelle relazioni con gli altri. 

 

CONTATTI

 

Lo vedi come sono

storto, contratto? Lo vedi questo piede,

quando mi siedo, come lo metto?

È tutto per lo sforzo, in tanti anni,

di non urtare le persone. Stretto

contro un sedile, dentro l’autobus pieno,

stare a posto, evitare

coi miei vicini

persino il minimo contatto.

 

Sulle panchine delle sale d’aspetto

o in treno, in corridoio, era una pena

ogni momento sentire sfiorarsi il buio

del mio ginocchio e del loro.

 

Ore e ore, giornate intere:

uno di fianco all’altro

stavamo, come i gusti del gelato

nel bar della stazione.

 

Di vero tra noi, di giusto,

lo spazio di due dita

era rimasto. 

 

da Tutti (Ed. Marcos y Marcos, 1998)

 

Insomma, nella poesia di Fiori ci sarebbe materia di approfondimento per studiosi di prossemica e antropologi, oltre che per psicologi e filosofi. Se ne ricaverebbero spunti per analisi del comportamento umano, paragrafi e forse capitoli di un libro. Eppure attraverso immagini potenti, capaci di fissarsi nella nostra memoria, viene detto già tutto. Attraverso un istante viene raccontata una storia, come nei migliori dipinti o nelle migliori fotografie. E attraverso una breve sequenza di istanti viene rivelato il senso di una vita intera.

 

Per Andrea Afribo (autore dell’acuta introduzione alle poesie raccolte nell’Oscar Mondadori) il poeta in diversi casi dimostra di avere una “sottile vena comica” nel rappresentare gesti ed espressioni dei suoi soggetti – così inadeguati, impacciati, velleitari. Questi anonimi tizi che si incontrano in ogni angolo – e che, a pensarci bene, potrebbero essere l’immagine di ognuno di noi, del nostro lato insufficiente – ben presto sono avvolti in un’aura umoristica, in senso pirandelliano. Il poeta, infatti, prima avverte il contrasto tra ciò che dovrebbe accadere e ciò che invece accade, e poi riflette, con poche parole folgoranti o con similitudini inattese. In queste occasioni l’umanità ci appare prima comica, appunto, e poi tragica. Tragica perché neanche si accorge di lottare per consistere, più ancora che per esistere. La comicità allora, sempre in termini pirandelliani, diventa umorismo e spinge alla pietà. Le scene descritte da Fiori, inoltre, sconfinano nel comico quando si incentrano sulla banale quotidianità dell’uomo, sui suoi tentativi – non si sa se più goffi o più miseri – di innalzarsi, magari ragionando e sproloquiando durante una discussione per ottenere una vittoria del tutto inutile. E in un certo senso si potrebbe considerare comico – con una striatura patetica – anche il piacere di essere notati nel mare magnum dell’anonimità urbana. 

 

CAPO

 

Quando uno per strada

sente chiamare «Capo!»

e si volta, e si accorge che ce l’hanno

proprio con lui,

gli sembra un onore grande

essere lì presente: uno che passa,

un uomo valido, che può dare una mano

e poi sedersi a tavola, magari

al ristorante, mordere il pane

e ricordarsi il mondo della luna,

dove non si era niente.

 

da Chiarimenti (Ed. Marcos y Marcos, 1995)

 

Nelle opere di Fiori non ci sono solo personaggi. Ci sono anche le cose, perlopiù appartenenti a un mondo en plein air. E anche le cose, nella sua poesia, sono “gli altri”. E sono testimoni. Tutto ci osserva mentre noi passiamo. Le cose non ci vedono, ma noi abbiamo la sensazione di essere visti. Non è che una proiezione, naturalmente, ma è di questi giochi mentali, di queste illusioni, che si vive e si muore. Un muro, una strada, una casa: tutto ci guarda, ci chiama. Così, ancora una volta, siamo costretti a definire la nostra identità, perché non ci siano equivoci insanabili, dal momento che alle cose non possiamo fornire spiegazioni o giustificazioni. Siamo inoltre costretti a rispondere a domande non poste, il che certo ci fa sentire creature deboli e sperdute, ma dotate pure di senso e di valore. Il senso e il valore – la dignità, verrebbe da dire – di chi appunto è chiamato a dare risposte, cioè a essere responsabile.

 

MURO

 

In certe ore

sopra il distributore di benzina

un muro nudo si illumina

e sta contro l’azzurro

come una luna.

 

A un certo punto uno

abita qui davvero

e guarda in faccia queste case, e impara 

a stare al mondo,

impara a parlare al muro.

 

Impara la lingua,

ascolta la gente in giro.

Incomincia a vedere questo posto,

a sentire

nel chiaro dei discorsi

la luce di questo muro.

 

da Esempi (Ed. Marcos y Marcos, 1992)

 

Che possa essere l’inanimato a rivelarci che abbiamo un’anima è una felice scoperta della poesia di Fiori, il quale, piuttosto che volare in un cielo astratto, preferisce lasciarsi contaminare da immagini e suoni terreni, senza compiacimento e senza voluttà, bensì con la sommessa gioia filosofica di chi crede che la gloria non risieda nello splendore, ma nella apparentemente tranquilla, grigia, normale evidenza del mondo. 

 

Detto questo, detto che gli ingredienti della poesia di Fiori sono le cose, i fatti e le parole di ogni giorno, bisogna sgombrare il campo da un possibile fraintendimento. Siamo di fronte a una poesia fatta di cose minime, ma non minimalista, perché i suoi elementi costitutivi si pongono in rapporto con un mondo più grande. Una stella nello spazio celeste è apparentemente una minima cosa, ma di per sé non è affatto piccola, e rimanda ai segreti dell’universo. Anche il corpo più bello è composto di cellule, e i discorsi più importanti sono composti di singole parole. Le unità elementari che costituiscono il mondo e la vita sono dunque l’oggetto di interesse di questa poesia così lieve e insieme così severa, di questa poesia fatta di una povertà illuminante: perché è proprio grazie alla povertà che si riconosce il valore di ogni cosa. E non tragga in inganno la concretezza dei suoi ingredienti: la poesia di Fiori sottintende un pensiero continuato. È una poesia pensante, ma soprattutto pensosa. Una poesia in cui il pensiero si sviluppa per situazioni, personaggi, accadimenti, non per speculazione. L’autore, ricorrendo spesso allo “straniamento”, che per lui è una forma mentis prima che una tecnica letteraria, contribuisce alla scoperta delle verità più chiare, che sono paradossalmente le più invisibili. Nelle scene descritte tutto all’inizio è come deve essere, però d’un tratto succede qualcosa, una minima cosa, che crea una distanza fra l’osservatore e il fatto, una sorpresa, e subito dopo il bisogno di una interpretazione che provi, se non a rimettere ordine nel mondo, almeno a contenerne il disordine.

 

Fiori così, sempre intento a unire pensiero e concretezza, genera (o trova per strada) immagini destinate a produrre effetti. Ed è proprio l’efficacia la maggiore qualità della sua poesia. Il lettore non può rimanere indifferente. È toccato, coinvolto. Si ritrova. In lui succede qualcosa: vibra un’emozione, si sviluppa un ragionamento. Ma se questa poesia riesce ad essere efficace, è anche perché il poeta si considera uomo fra gli uomini, come si è detto, e sente di dover rinunciare a intellettualismi e preziosismi, virtuosismi e sperimentazioni, in nome di una volontà superiore, quella della comunicazione. Così, le verità (i “chiarimenti”) tanto difficili da raggiungere nelle infinite discussioni con gli altri, trovano nella chiarezza della sintesi poetica una possibilità di rivelarsi. 

 

DISCORSI

 

Parlare con la gente

è fatica:

sempre spiegarsi, ripetere,

mettersi nei suoi panni.

E comunque alla fine

cosa si ottiene?

È dura, la gente.

Tocca sempre riprendere da capo,

chiarire, chiedere, rispondere,

senza mai essere sicuri

se quello che si vuol dire

è veramente arrivato.

 

(…)

da Chiarimenti (Ed. Marcos y Marcos, 1995)

 

La questione del linguaggio, per Fiori, è decisiva. Si tratta di una scelta ben precisa, riguardante l’etica prima ancora che l’estetica. La poesia – come la vita – è cosa comune, dunque un dono da condividere. E qui entra in gioco la componente retorica o, se vogliamo, antiretorica del testo. È necessario perdere “tutte le bravure”, ha dichiarato una volta il poeta stesso. Ma il perdere presuppone il possedere, quindi non significa altro che possedere e decidere di tralasciare. La semplicità per Fiori non è un limite ma un punto di arrivo, è frutto di una rinuncia non di una carenza. La semplicità, nella sua poesia, è tutt’altro che ingenua. Ogni immagine è scelta per la sua capacità di diventare esemplare. Ogni frase è misurata nel suo peso e nei suoi tempi. Ogni verso, ogni strofa è come un respiro, a volte tranquillo altre affannoso, ma sempre vitale. 

Poesia antiletteraria, allora? Sì e no. Ci vuole abilità, ci vuole ingegno a dissimulare le competenze: a perderle, come si è detto. Sicuramente i testi utilizzano un lessico comune e scorrono con naturalezza colloquiale, ma l’orecchio attento può cogliervi un certo ritmo, una certa sequenza di accenti, di pause, oppure certi richiami o rimandi fonici, che non risaltano – e quindi non distraggono dal contenuto del discorso – ma comunque rivelano la presenza discreta del poeta dietro i componimenti: un poeta che non ama la musicalità troppo facile, ma che lavora sotterraneamente per ottenere un’opera a cui accostarsi anche con le orecchie, oltre che con gli occhi. Insomma, Fiori raggiunge quell’equilibrio espressivo caro a Czesław Miłosz, riuscendo nell’impresa di usare un linguaggio né troppo poetico né troppo prosastico; un linguaggio che quindi si può definire antiletterario solo in parte.

E che dire poi delle similitudini? Sono tra le figure retoriche predilette dal poeta, forse perché creano immagini, o forse perché riportano in vita lo spirito dei poeti antichi, quelli più preoccupati di inserirsi in un contesto, di coinvolgere il lettore (o l’ascoltatore) in uno spazio condiviso, sotto il segno della parola. La similitudine è un invito: entra anche tu in questa casa, partecipa alla festa del significato, non hai niente da temere perché, come vedi, qui non ci sono estranei, e io che ti parlo ci tengo a farmi capire, a farti sentire a tuo agio, visto che sei un invitato. 

Così le similitudini proposte non sono (o almeno non sembrano) ricercate, ma comunque risultano sempre originali e sorprendenti (“sta al centro del parcheggio, l’autobus vuoto, / come un tempio in una valle.”). Sono similitudini perentorie. Tutto è chiaro, tutto è più chiaro, alla fine.

 

STARE

 

A volte in una via

tranquilla, piena di ombra,

si vede dove stiamo,

cosa ci regge.

 

È un posteggio, qui,

non un posto.

Un magazzino,

una specie di sgombero.

 

Tutto vicino:

le cose grandi

e le cose da poco

gomito a gomito.

 

Si sta col cielo, qui,

e con la terra,

come per strada i piatti

col frigo e le piante grasse

per un trasloco.

 

La poesia di Fiori, in definitiva, rispetta il lettore. Grazie alla sua evidenza lo raggiunge e ne attrae l’attenzione. E grazie alla sua capacità di indicare senza impartire lezioni e di illuminare senza abbagliare, lo affianca amichevolmente nel suo cammino.

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