Doppie bombe per una strage e un film

27 Marzo 2012

Viene presentato a Milano il 26 marzo e sarà nelle sale italiane dal 30 marzo il film che Marco Tullio Giordana, il regista de La meglio gioventù e I cento passi, dedica alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Con Romanzo di una strage, il nuovo film di Giordana, la Fictory – complessa forma di cobelligeranza tra la Fiction e la History, disciplina non esente da episodi di fuoco amico e da regole di ingaggio in continua evoluzione a seconda degli scacchieri tematici e cronologici investiti – mette così piede nella penisola italiana.

 

Proprio in vista dell’uscita del film di Marco Tullio Giordana Eugenio Scalfari rievoca, sulle pagine del quotidiano “Repubblica” da lui fondato, i giorni di Piazza Fontana e quelli venuti dopo. È una ricostruzione che, giungendo da un personaggio eminente della scena pubblica dell’ultimo mezzo secolo italiano, non può certo lesinare gli “io c’ero”.

“Intervengo perché io c’ero” - scrive Scalfari – “Ho assistito direttamente a gran parte di quei fatti come cittadino, come giornalista e come deputato al Parlamento”.

 

Traccia dunque il lungo elenco dell’“io c’ero”:

“Ero a Milano in via Larga quando fu ucciso il poliziotto Annarumma…”.

“La sera di quei giorno ero nell’aula magna dell’Università Statale…”.

“Ed ero con altri deputati di sinistra in Piazza Santo Stefano…”.

“E c’ero anche nel corteo che sfilò per la morte di Feltrinelli…”.

“Ero direttore dell’Espresso quando rivelammo il Piano Solo…”.

“Ed ero direttore di Repubblica quando Aldo Moro fu rapito e poi ucciso…”.

 

Una lunga e incalzante successione di colpi d’occhio su fatti storici, visti dall’angolazione privilegiata di chi sta in prima fila. Anzi, a volte è tra coloro che salgono sul palcoscenico (o almeno così gli è sembrato). Una galleria di istantanee - a distanza ravvicinata con la Storia – che lo portano ad affermare “insomma ho vissuto da vicino il lungo periodo della strategia della tensione che ha profondamente inquinato la vita pubblica italiana”.

Una carrellata che trova conclusione con l’esserci di Scalfari, nel gennaio del 1981, quando - rammenta - le Brigate Rosse “rapirono il giudice D’Urso e tentarono di imporci la pubblicazione di un loro lunghissimo documento minacciando che se i loro ordini non fossero stati eseguiti il prigioniero sarebbe stato ucciso. Rifiutammo e la notte di quel terribile giorno il prigioniero fu liberato da un blitz della polizia”.

 

Davvero?

Basta dare una sfogliata ai giornali di quel 15 gennaio 1981 per accertare che non è andata così: “Le Brigate Rosse – scrive ad esempio quel giorno il Corriere della Sera - liberano Giovanni D’Urso, il magistrato addetto alla direzione generale degli affari penitenziari, che hanno tenuto prigioniero per 33 giorni. Lo lasciano all’interno di un’auto, legato e imbavagliato, in una zona centrale della capitale, nei pressi del portico d’Ottavia".

 

La memoria, anche dei testimoni più autorevoli, perfino di coloro che si ritengono protagonisti di primo piano degli eventi, dunque a volte scarta. Si inceppa. Funziona, in perfetta buona fede, à la carte. Scalfari sul caso del giudice d’Urso fu uno degli esponenti del partito della fermezza, contrario a ogni cedimento dello Stato – anche se finalizzato a salvare vite umane – verso i terroristi. Da questa posizione si scontrò duramente con Sciascia che invece si era espresso, con un appello, per una maggiore duttilità.

Sciascia fu redarguito: “non sarà l’appello di uno Sciascia qualunque a portare il paese a un altro 8 settembre…”. Lo scrittore rispose che preferiva essere uno Sciascia qualunque piuttosto che uno Scalfari eminente.

 

È così incomprensibile che trent’anni dopo, nel riandare a quei fatti, un autorevole esponente del partito della fermezza ricostruisca le cose mettendo in scena il blitz vittorioso della polizia dello Stato invece di quell’incongruo – ma una volta tanto veritiero copione – di una vita risparmiata per iniziativa di una colonna brigatista? Una formazione, responsabile di crimini efferati che, lo si saprà poi, stava obbedendo alla misteriose e mai chiarite navigazioni di Senzani, il criminologo che rappresentava l’ala “movimentista” (!?) delle Brigate Rosse.

 

Tutta questa premessa per rammentare una cosa banale: i conti con la memoria storica sono complicati. Sono pieni di enigmi e di trappole. E lo sono tanto di più quanto più si è stati vicini all’accadere dei fatti. La narrazione che rivisita il passato, anche quello vissuto direttamente, attinge volentieri ai copioni auspicati anche se non sono quelli poi andati in scena. La rivisitazione del passato spesso non conosce ma pretende di ri/conoscere. A volte risponde a correnti sotterranee che ci percorrono e ci possiedono. Pretendono di asservire lo svolgimento reale dei fatti o, perlomeno, di riorganizzarli in un tessuto narrativo che passa sopra agli eventi concreti.

 

Si aprono così falle. Errori. Crepe. Anche distonie rispetto alla verità? Certamente. Ma quanto sono preziose proprio perché rivelatrici della trama silenziosa che tesse il racconto. Dettagli rivelatori dell’omesso, del rimosso. Portano in dono delle spiegazioni. Indirizzano l’attenzione. La localizzano sulla tessitura dei fatti che si vanno a delineare.

Portano alla luce il nodo fondamentale del rapporto tra narrazione ed evento.

Tra Fiction e History, appunto.

 

E il nodo, il primo della Fictory, è questo:

le vicende possono sovrapporsi – o anche beffardamente opporsi: ciò che conta è la presenza del fantasma di un’altra azione all’interno di qualsiasi azione.

Come non esiste un libro che non sia la ripresa o la risposta la conseguenza rispetto ad un altro libro, così in ogni gesto si posa sulla mano che traccia, un’altra, invisibile mano, che la guida, la preme o la trattiene. Rispetto a ogni evento dobbiamo chiederci: che cosa, qui, voleva ripetersi? A cosa, qui, si dava risposta?

Talvolta è persino difficile ritrovare gli indizi di un nesso, tanto gli eventi sono sfigurati dall’erompere della casualità che compone la storia stessa. Nel pensiero della ripetizione c’è tutto il nostro rapporto con il passato: dal tempo, come da un immenso vuoto di memoria, si distaccano le figure in avida attesa di riapparire. A volte sono misere e rozze – a volte e proprio allora raggiungono la massima forza d’urto – assassine”.

 

Una mano che si pone sulla mano che sta scrivendo la storia. E la guida, la preme, la trattiene. Due mani, forse molte mani, all’opera sullo stesso testo.

Non è forse questa la prima ambizione della Fictory? Ripercorrere la vertiginosa stratificazione di interventi, richiami, citazioni dal passato, sovrapposizioni, contaminazioni, che si fanno largo nel dispiegarsi dell’evento storico.

Mirano a far sì che nessuno possa più permettersi di affermare che “la verità è semplice. È l’errore a essere complicato”.

Ogni vicenda storica – anche una strage, anche una bomba – affidata alla Fictory si sdoppia. Perde di segno. Si confonde. È di incerta attribuzione.

Ad esempio: Paolo Cucchiarelli, autore del testo al quale è ispirato il film di Giordana, ipotizza due bombe per Piazza Fontana.

 

Ne “Il segreto di Piazza Fontana”, il libro su cui sono stati acquisiti i diritti per il film, non solo le bombe posate in banca sono due ma sono anche di opposta matrice. Anarchiche e neofasciste.

Per Cucchiarelli Valpreda porta in banca una bomba civetta e dietro di lui, un terrorista nero avvolto nell’ombra, deposita l’ordigno micidiale che farà la strage. Due bombe, ma non solo. In un delirio di sdoppiamento il libro teorizza anche due autisti – uno è il taxista destinato ad essere il teste d’accusa decisivo contro Valpreda, l’altro sparisce nel nulla – che accompagnano a destinazione i corrieri delle bombe.

Due trame stragiste, due bombe, due bombaroli, due autisti, doppi testi d’accusa e di difesa: questo è quanto viene delineato ne “Il segreto di Piazza Fontana” senza che vi siano asseverazioni di fonti, testimonianze individuabili, verifiche inconfutabili. La verità sulla strage si trasforma in un sdoppiamento di soggetti che si moltiplicano con geometrica espansione sino a diventare la folla indistricabile di neri e rossi, terroristi e agenti segreti, anarchici e neofascisti, mandanti e manovali. Tutti si si affollano – obbedienti al richiamo della Fictory - attorno alla voragine che la bomba ha scavato. Davanti a questo “segreto svelato”, si rischia di non capire più chi ha fatto che cosa e a quale disegno si devono quei morti e feriti che, loro sì, hanno un nome e cognome e un’identità, una sola. Senza possibili duplicazioni.

 

Anni di lavoro, libri e ricostruzioni inoppugnabili sulla matrice nera della strage, rischiano di stemperarsi – come ha detto Mario Calabresi, direttore de “la Stampa” nell’intervista al Corriere della sera – in “una nebulosa oscura…Invece la verità storica c’è, eccome. Noi oggi, come ha detto il presidente Napolitano, sappiamo chi è stato, e perché. Conosciamo le responsabilità oggettive e morali. Sappiano che è stata la destra neofascista veneta, conosciamo complicità e depistaggi dei servizi deviati e dell’Ufficio Affari Riservati, sappiamo che nel Paese esistevano forze favorevoli a una svolta autoritaria”. Ma il film, ha detto Calabresi dopo averlo visto, “ti lascia la sensazione che non sappiamo niente, che non abbiamo né verità né giustizia”.

 

Bisognerà andarlo a vedere questo Romanzo di una strage e guardarlo anche con gli occhi della Fictory. Tenendo a mente che La Fictory non è un’arte narrativa. È una disciplina dell’intelligence post-moderna mirata a rimodellare il passato in funzione del presente, esattamente come i bombardamenti strategici ridisegnano uno scacchiere di guerra in vista dell’azione delle forze combattenti che si fronteggiano. Pur essendo una disciplina ludica non c’è innocenza nella Fictory. Ora che è arrivata anche qui bisognerà, con pazienza e scompigliato procedere, andarle incontro con irriverente scompiglio. Bisognerà cominciare a conoscerla.

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