La Zerinzia del Pian dei Morti

21 Novembre 2012

Aprile! Marzo andò: tu puoi venire! E aprile veniva davvero, ogni anno con una puntualità straordinaria: un mese strano, questo, quando le precoci farfalle della primavera, come l’Aurora che l’annuncia, sono ormai invecchiate e scolorite, e ancora non ci sono quelle estive che, numerosissime, mi occupavano le giornate della lunga vacanza scolastica dal mattino al tramonto. Ma aprile è il mese di una delle più belle farfalle d’Italia; occorre solo sapere dove andare a scovarla. In quegli anni giovanili, ancora non sapevamo che la Zerinzia era così vicina a casa nostra, immaginandola remota come le farfalle dei tropici tanto era peculiare il suo aspetto. Questa farfalla bellissima, che sembra un po’ un piccolo Macaone senza codine e un po’ l’Apollo, mi era nota per la sua descrizione sul manualetto di Martello editore: “molto localizzata…bruco sulle aristolochie”. Le aristolochie? Non si sapeva nulla di queste piante dal nome esotico, che un po’ suonava di Asia minore o di chissà quale lontana terra oltre oceano. Certamente le Zerinzie non volavano nel nostro Biellese, ruminavo ossessionato dalla descrizione del mio Martello mentre correvo su e giù per le rive di Miagliano e di Vallemosso dietro alle solite Cedronelle e le ultime scolorite Aurore. Infatti, gente come me che si ammala di farfalle in giovane età, te l’assicuro caro lettore, non pensa ad altro che a questi insetti dal risveglio all’ultimo minuto di coscienza serale prima del sonno, e magari anche nel dormiveglia e durante le fasi rem. Siamo capaci di passare giornate intere nei prati e nei boschi con il nostro retino a spalla e una borsetta piena di bustine in cui porre gli esemplari appena catturati. Non ci fermano i cani che guardano le vacche al pascolo, né i torrentelli dalle fredde acque scroscianti che occorre evitare attraversando in equilibrio precario sui sassi arrotondati, né i cespi di rovo che spesso lasciano graffi sulle braccia o quelli di ortiche che invece ci segnano le gambe nude di rossi ponfi dolorosi. Neanche l’acqua da bere ricordiamo di portarci appresso, a volte. Ma il Martello sì, quello c’era sempre nella borsa nell’eventualità che una specie nuova e sconosciuta fosse avvistata: occorre saperne il nome subito, e non quello italiano, quel ridicolo Aurora, Cedronella, Cavolaia, ma quello vero e ufficiale, quello della nomenclatura binomia di Linneo: Anthocharis cardamines, Gonepteryx rhamni, Pieris rapae e così via.

 

Ecco un’altra caratteristica che ci distingue: il nome latino con cui chiamiamo le nostre farfalle e con cui ci vantiamo di essere dei dotti eruditi. La Zerinzia, ad esempio, si chiama Zerynthia polyxena, anche se la chiamavo semplicemente “Zerinzia”. Nome affascinante, misterioso, di bella donna greca, che si pronuncia con piacere e si fa declamare con quel po’ di raffinato gusto che contraddistingue l’entomologo da tutti gli altri comuni mortali, i quali, sia chiaro, chiamerebbero questa specie stupenda “una farfalla multicolore, a’t tucc i color” come mi dicevano in dialetto gli zii o gli amici di famiglia dopo aver visto una sciocca Vanessa e sapendo che io vivevo di farfalle : “ne ho vista una a’t tucc i color”, e io li sbeffeggiavo a loro insaputa poiché tale definizione, mi dicevo, era ridicola e denotava la loro incapacità di riconoscere le specie. In realtà, Zerinzia non è che un altro nome della dea Venere e, per chi ne voglia sapere di più, derivato da quello delle grotte di Zerinto in Samotracia.

 

 

Un giorno, anni dopo, capitò di parlare con quell’avvocato che sapeva di insetti, soprattutto coleotteri ma anche farfalle. “Cercate la Zerinzia?” ci disse con quel tono un poco arrogante che gli era tipico, ma che suonava stavolta anche di rivelazione, alfine. Ebbene, bastava andare sulla collina morenica della Serra, tra Biella e Ivrea, “e lì la troverete. Cercate nei vecchi vigneti abbandonati, ai margini delle boscaglie, dove cresce la aristolochia”. Per cominciare, occorreva assolutamente sapere a cosa somigliasse questa pianta dal nome esotico e un poco nobile. Nell’era di’internet basta andare su Google e scrivere il nome di qualsiasi cosa per avere ogni notizia e ogni immagine in un istante. Nell’era pre-internet, invece, o si avevano volumi pesanti e costosi, o si andava in qualche biblioteca e si fotocopiavano le pagine necessarie, se c’era la fotocopiatrice, o le si scopiazzavano. In realtà, alcuni più pragmatici e veloci, andavano diritto in libreria in via Italia, con qualche scusa chiedevano di libri di botanica ben illustrati da acquistare per un regalo all’amico Piscopo, li consultavano partendo dall’indice e cercando la pianta desiderata, e li rendevano poi al libraio di Via Italia dicendo che erano troppo costosi, oppure che mancavano delle fotografie essenziali, o ancora che si sarebbe passati in serata a comprarli dopo aver preso dei soldi a casa. Così, rapidamente, trovai l’illustrazione delle varie aristolochie appartenenti alle specie clematitis, rotunda, pallida e pistolochia. Si trattava di piccole piantine alte due spanne, dalle foglie verdi a forma di cuore e dai fiori striati di bruno che paiono quasi quelli delle orchidee con quel colore verde-giallognolo che sfuma via dal verde delle foglie senza interruzione. Una bella piantina che io non avevo mai notato e che emana un sottile ed amaro aroma per chi abbia il naso addestrato. Pare sia anche velenosa, il che conferisce certo una protezione alle larve delle Zerinzie che, immuni, se ne nutrono. Occorreva dunque cercare la piantina nei vecchi vigneti abbandonati, quelli in cui crescono le graminacee e l’erbacce, e, se si è fortunati, lì avremmo trovato la Zerinzia nella stagione giusta.

 

In quel giorno di metà aprile, con l’amico Piscopo e la sua prima Lancia Flavia non ci mettemmo molto a raggiungere le alture della Serra, una collina regolare e quasi surreale tanto è diritta e che non è altro che una morena laterale del terziario formata verso oriente dal ghiacciaio balteo, quello che sino a 10.000 anni fa scendeva lungo la valle d’Aosta per liquefarsi nel Canavese. Vista da Biella, la Serra è una linea diritta all’orizzonte di ponente, come se un geometra fanatico di orografia avesse tracciato a matita una curva iperbolica che, scendendo dal Mombarone, si abbassa sino a Salussola toccando l’asse delle ascisse all’infinito. Una creazione precisa, sublime, geniale, questa Serra. Salimmo sino al punto in cui dal Biellese si sconfina nel Canavese, e scendemmo a Chiaverano, un paesino arrampicato sulla ripida costa occidentale della Serra e che guarda verso Ivrea. Qui di vigneti abbandonati ce n’erano a piacere : alcuni fiorivano ancora, malgrado le incurie. Le erbacce, sotto ai vecchi filari erano alte e spesso secche, quelle dell’estate precedente; ma c’erano anche erbe fresche, ortiche, e rovi. Cercammo per un po’ e alla fine notammo queste pianticelle freschissime e verdi timidamente emergenti tra le erbacce secche. Erano certo le aristolochie: ne annusammo il profumo amaro e selvaggio. Non c’era dubbio. Qui, dunque, dovevano esserci le Zerinzie. Le nostre viste ora si acuirono alla ricerca di una specie nuova e sconosciuta. Cercammo e cercammo per due o tre ore, ma non volavano che le banali Cedronelle, Cavolaie, Vanesse e qualche vecchia Aurora. Come sempre succede in questi casi, sopravvenne lo scoramento e la stanchezza. Era mezzogiorno passato e decidemmo di raggiungere la bianca cappelletta sulla cima di un colle e riempirci lo stomaco discutendo di aristolochie e di questa farfalla rara che ci faceva penare: cercavamo di immaginarne il colore e il modo di volare, forse come il Macaone, pensavamo, dato che è gialla con disegni neri e con ocelli bluastri e rossi alle ali posteriori, dove c’è anche uno strano disegno di chicco di caffè. Preparammo i nostri panini. Come sempre, avevamo acquistato pane, prosciutto, tonno in scatola e sottaceti, del formaggio e della frutta fresca al negozietto del paese lì sotto. Chi abbia l’abitudine di fare acquisti negli artificiali e tutti uguali supermercati di oggi non conosce il piacere sottile di acquistare invece nel negozietto di “pane e alimentari” del villaggio: si entra e si sente questo raro profumo di cibo semplice, il nobile aroma del pane fresco – di gran lunga il migliore di tutti gli aromi – e quello degli insaccati che varia a seconda delle stagioni. E poi vi è il colloquio intenso con la donna, di solito robusta e in carne, che lo gestisce : mi dia quattro fette di prosciutto, ma tagliate fini, per favore; una fetta di quella tometta della valle Elvo, ma che non sia troppo spessa, e mi tolga la crosta così la posso infilare direttamente nel panino; e poi quattro pagnottine fresche e ancora calde, se si è fortunati. Si evita accuratamente di farci affettare il pane perché il piacere sta appunto nel farsi il panino sul posto, seduti sull’erba, tagliando il pane in due, spacchettando il prosciutto ed afferrando con mano ferma un angolo della fetta sottile che poi si appoggia sul pane completando l’operazione di preparazione del pasto. Un piacere vero e genuino che è dato solo a chi ami mangiare semplicemente nella natura, tra ronzanti api e sirfidi, con qualche mosca noiosa che ti attornia, con le cavallette che ti sfrecciano a dieci centimetri dal panino nella traiettoria del loro lungo salto, e con il canto del merlo melodioso di primavera.

 

Il pasto fu gradevole, ma la mente era distratta dall’assenza della Zerinzia e gli occhi scandagliavano intorno a cercarla. Dopo il pasto, si continuò a perlustrare la zona facendo chilometri a piedi quel giorno senza trovare nulla. Fu alla fine del pomeriggio che, improvvisamente, mentre attraversavo un campo di erbacce e dopo aver osservato un tritone nello stagnetto vicino, vidi un essere strano, grigio-giallastro involarsi rapido dalle erbe, planando elegante ma ben più basso e piccolo rispetto al noto Macaone, suo cugino. Quando l’ebbi nella rete, non ci volle molto a capire che era la nostra Zerinzia e si festeggiò con grandi canti e inni, come si fa quando la specie rara è ottenuta. Così la ricerca si era conclusa con successo: era un esemplare un po’ invecchiato, pallido, non brillante di giallo luminoso come lo si attendeva, ma era lei. Rientrammo a casa contenti ma decisi a tornare in quel campo l’indomani. E così si fece. Il giorno dopo, in quel campo, trovammo una dozzina di Zerinzie fresche e brillanti proprio come l’esemplare del nostro manuale. Il motivo per cui il giorno prima non vedemmo che una sola Zerinzia rimane un mistero, come tanti nel nostro mondo delle farfalle. Ciò che importava è che la Zerinzia davvero viveva a poca distanza da casa nostra, sulla Serra, in un ambiente caldo e secco, o xerico come si dice tecnicamente. Ma era rara, poco comune, localizzata, legata alla sua piantina nutrice, quell’aristolochia che colonizza solo alcuni ambienti, appunto, xerici.

 

 

Anni dopo la cercammo e trovammo anche in un campo incolto, detto Pian dei Morti, nei pressi di un altro villaggio della Serra, questa volta sulla sua costa orientale rivolta verso il Biellese. E qui voglio dilungarmi un poco, caro lettore, per raccontare un po’ di storia di famiglia, poiché questo Zimone è il villaggio dei miei avi. Deve sapere chi non sia delle vicinanze che è oggi ancora un bel paesino sito tra dossi e piccoli avvallamenti morenici della Serra, circondato da castagni e vigne, a metà strada tra Biella e Ivrea. Le origini di questo antico borgo si perdono nel Medioevo. Zimone, in questo periodo, ebbe una certa importanza perché era posto allo sbocco di una strada di arroccamento che congiungeva l’entroterra biellese con la via Francigena, la strada delle Gallie, evitando il passaggio da Salussola e Cavaglià, luoghi gravati da pedaggio e molte volte malsicuri per le continue guerre. La strada si snodava tranquilla tra tiepidi colli e vaste selve, ed era presidiata da due castelli, quelli di Cerrione e Mongiovetto, e da due celle monastiche, quelle di San Michele di Dorvezio e San Michele di Bellino, che davano ospitalità ai viatores. In quell’epoca oscura, Zimone fece parte del Comitato di Vercelli per passare successivamente ai Vescovi di questa città e, quindi, ai Signori di Magnano che si aggregarono nel secolo XII al Consortile degli Avogadro di Cerrione. Alcuni secoli prima, pare che presso Zimone fosse situata una testa di ponte del grande vallo difensivo eretto probabilmente dai Longobardi per sbarrare la via alla pianura padana agli eserciti dei Franchi che fossero riusciti a penetrare dalla Valle d’Aosta. Lo scontro che determinò poi la sconfitta e la ritirata dei Longobardi verso Pavia secondo alcuni storici sarebbe avvenuto al Pian dei Morti che si trova a poche centinaia di metri dal borgo, circondato da boscaglie e castagni. In quella battaglia, le truppe dei Franchi, discese dal passo del Gran San Bernardo, erano guidate dallo zio di Carlo Magno, Bernardo, mentre le truppe longobarde erano comandate da Adelchi, figlio dell’ultimo re Desiderio. Posti che hanno una storia intensa! Divenuto possedimento dei potenti Avogadro, a cavallo tra il XIV ed il XV secolo, Zimone passò poi ai Marchesi di Monferrato, prima di finire a Casa Savoia agli albori del 1400. La Parrocchia di Zimone risale al pieno medioevo quando dipendeva dalla Pieve del villaggio scomparso di Puliaco, e il fatto che la chiesa parrocchiale sia dedicata a San Giorgio e una edicola in paese a San Michele (che erano due dei tre santi venerati dai Longobardi) fa davvero pensare che Zimone fosse un borgo abitato da un nucleo longobardo. Nella disabitata casa parrocchiale di Zimone, in una cassetta per verdure conservata in un vecchio sottoscala per grande gioia dei topi domestici, vi erano fino a qualche anno fa importanti documenti e libri parrocchiali che risalivano sino alla fine del 1500. In quel tempo, si potevano enumerare circa una dozzina di coppie diverse in epoca di avere figli che portavano il mio cognome latinizzato in “Reuiglionus” dal prevosto. Da queste famiglie originarono i miei antenati, uno dei quali, a fine ‘700, decise di andarsene a cercare fortuna nei campi infestati dalle zanzare della bassa vercellese prima che un altro, oltre un secolo dopo, spostasse la propria famiglia di nuovo verso i monti.

 

Ancora oggi, quando raggiungo il Pian dei Morti in cerca di Zerinzie – ci si va una volta all’anno per godere della bellezza di questi luoghi –tutti questi pensieri su antenati, battaglie e longobardi saltellano per la mia mente e mi fanno tornare indietro nei secoli fino al buio ed affascinante Medioevo. E penso agli antenati, immaginando che uno di essi, passeggiando in primavera a raccogliere erbette e verificare come i castagni avevano superato l’inverno, si soffermò a osservare una strana farfalla grigio-giallognola, diversa dalle solite, che svolazzava al suolo. A quei tempi, penso, la nomenclatura binomia di Linneo era lontana alcuni secoli e certo non avrà, questo antenato, avuto idea di cosa stava osservando. Forse a malapena distingueva una farfalla da qualche altro insetto volante. Ma è certo che lì, da quelle parti, tra castagni e zerinzie, la mia anima già stava preparandosi al salto irreversibile dal primo abisso di tenebra eterna alla vita. Per Nabokov, grande scrittore e lepidotterologo, “la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra. Sebbene siano una coppia di gemelli assolutamente identici, l’uomo, di regola, guarda all’abisso prenatale con più calma rispetto a quello verso cui è diretto”.

 

Occorrerà attendere di vedere se, in questo secondo abisso, mi succederà di vagare per il Pian dei Morti a cercare Zerinzie per l’eternità. In tal caso, non ne avrei a male.

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