Un’ascesa al Monte Ventoso

21 Dicembre 2012

Il monte Ventoux, in Provenza, si presenta come una nuda montagna isolata e perciò esposta in ogni sua parte all’influenza degli agenti atmosferici ed è, per la sua altitudine, tra le Alpi e i Pirenei, il punto culminante della Francia”. Così Jean-Henry Fabre presenta il mitico e calvo monte nei Souvenirs entomologiques, opera grandiosa in 10 volumi che costituisce davvero una summa della scienza e della filosofia della natura scritta in un periodo che va tra il 1879 e il 1907. Quest’opera, che fa di Fabre il padre dell’entomologia moderna ispirò anche Charles Darwin che di lui ebbe una grande stima al punto da definirlo un osservatore “inimitabile” del mondo degli insetti. La lettura del suo capitolo intitolato “Un’ascesa al monte Ventoux” ispirò pure me, giovinetto, ad una sortita in quelle assolate parti di Provenza. Da sempre, infatti, la Provenza era per noi apprendisti entomologi un mito. Laggiù, negli sterminati campi di lavanda profumata, o nelle enormi distese di giallissimi girasoli e nelle praterie rosse di papaveri, sotto il sole che fa maturare gustosi poponi, volano – si diceva, ma non era del tutto vero – farfalle stupende ed innumerevoli.

 

Il “Martello”, il nostro prezioso manualetto da campo dell’età giovanile che ci aprì al mondo delle farfalle, ci diceva ad esempio che da quelle parti, in tarda primavera, si può trovare il mitico Papilio alexanor (chiamandolo chissà perché con un improbabile Pterourus alexanor),specie magnifica, simile per colore e dimensioni al comune e famigliare macaone, ma raro e localizzato in quella parte di mondo. Volano lì, in estate piena, le bellissime Gonepteryx cleopatra gialle con la spettacolare soffusione aranciata all’ala anteriore, le tri-caudate e gigantesche Charaxes jasius, la cui larva vive di corbezzolo, e anche bei satiridi bianco-nerastri, che da noi in Piemonte non giungono in quanto adattati ai climi caldi del Mediterraneo. Vola poi, sulla cima della montagna calva, una localizzata e rara colonia di Erebia scipio che si ritrova solo in pochi altri luoghi tra Francia e Italia, una farfalla bruna scura di dimensioni medio-piccole.

 

Vola, infine, al Monte Ventoux una sottospecie di Parnassius apollo, chiamata venaissinus, che – si sapeva – era grandissima al cospetto delle numerose sottospecie delle nostre Alpi. Ora, la storia delle sottospecie di apollo è per lo meno dubbia. Infatti, c’è chi si è ingegnato a dare nomi diversi a colonie di apollo che differiscono solo perché provengono da località diverse anche se vicine, a volte addirittura da vallate contigue. Ma, parliamoci chiaro: se davvero alcune di queste sottospecie di apollo esistono e saranno un giorno confermate con analisi genetiche un po’ più serie di quelle basate su forma e tonalità delle macchie rosse o del colore di fondo più o meno bianco, allora questa nostra del Monte Ventoso potrebbe essere davvero qualcosa di unico dato il suo aspetto.

 

Ma si diceva della nostra ascesa al Monte Ventoso. Andarci significava una vera avventura per i nostri spiriti giovani e desiderosi di visitare luoghi sino ad allora solo immaginati leggendo libri di geografia e di naturalismo. La Provenza, inoltre, è la patria storica dei troubadours, i cantastorie del tardo medioevo che ci hanno tramandato musiche affascinanti che si ascoltavano con grande interesse in rare edizioni trovate per caso nei negozi di via Italia specializzati in musica classica e che ora a Biella non esistono più. La Provenza è anche la terra della Camargue, di cui ci narrava sempre una vicina di casa che da lì proveniva: le grandi lagune, i fenicotteri rosa, i vaccari, le case tradizionali dal tetto di paglia, i tori e i cavalli bianchi allo stato brado, ed i gitani di Les Saintes Maries de la Mer che, anni dopo, ci portarono via tutto quello che potevano in una serata da incubo.

 

Così alla fine di luglio, sotto un sole caldissimo e in una di quelle gloriose giornate di tempo stabile grazie all’atteso – come ogni estate – anticiclone delle Azzorre, si partì in auto alla volta della Francia. Eravamo in tre: l’amico Piscopo, mio fratello diciottenne, ed io. Si partì presto al mattino, poco dopo l’alba, poiché si doveva arrivare a sud nel più breve tempo possibile per poter scorazzare già nel pomeriggio e cacciare un po’ per quelle terre profumate di origano e rosmarino. I nostri frigoriferi portatili erano ben provvisti di cibi che le nostre madri ci avevano confezionato. Non mancavano le frittelline verdi alle erbe selvatiche che mia mamma preparava come nessun’altra al mondo, i fiori di zucchini ripieni di un impasto di prosciutto e prezzemolo, e c’erano anche i tradizionali sottaceti di Piscopo, salami affettati, qualche pezzo di toma, un maccagno morbido delle montagne biellesi, e molta frutta per dissetarci, sapendo che si andava incontro inevitabilmente alle calure estive di Provenza. Le scorte di acqua erano abbondanti, così come lo erano mappe e cartine delle nostre mete e i nastri di musica dei troubadors che avremmo ascoltato una volta giunti sulle loro terre, quelle intorno ad Avignone, come in una sorta di rito religioso che doveva, nel nostro pensiero, portarci con l’immaginazione al tardo medioevo quando il provenzale era lingua colta d’Europa.

 

Era un viaggio affascinante in quella seconda metà di luglio. Salimmo lungo la val di Susa e valicammo il Monginevro dove già planava il grande apollo, il re delle montagne, con il suo volo maestoso. Questa sottospecie, per la cronaca, è denominata oulxensis. Ora l’amico Piscopo già non conteneva più l’entusiasmo alla vista e cattura dei primi apolli freschissimi di questo tratto di Alpi. Scesi nella valle della Durance, la seguimmo sino alla cittadina di Sisteron, la “porte de Provence”. Di qui in avanti si era nel nostro territorio, la meta desiderata da anni. Salimmo lungo la valletta del torrente Jabron, che, dalla Durance, risale verso ovest scorrendo alla base settentrionale della Montagne de Lure. I campi di lavanda erano in piena fioritura e si respirava ovunque il profumo intenso del fiorellino blu-violaceo: era proprio la Provenza.  Ci fermammo a mangiare nei pressi di uno di quei grandi campi poco oltre il piccolo borgo di Valbelle, da cui parte la strada che sale verso il Col de la Graille, sulla Montagne de Lure, la bellissima montagna allungata, avamposto del Monte Ventoux e, come quello, dalla cima calva e bianca per i ciottoli di pietra calcarea che scricchiolano sotto i piedi come se si calpestassero piastrelle di ceramica.

 

 

Ci concedemmo una sosta a respirare l’aroma della lavanda mista a rosmarino, che qui cresce ovunque selvaggio e in cespi abbondanti, e a goderci lo spettacolo di centinaia di insetti intenti a suggere dai profumati fiori di lavanda. Le farfalle non si potevano davvero contare: centinaia, forse migliaia, appartenenti a decine di specie diverse. C’erano le vanesse multicolori, le circi bianco-nere, le Colias gialle, le cleopatra eleganti nel loro giallo aranciato. Fu una sosta ricca e riposante, anche se era difficile trattenere la tensione che montava all’avvicinarsi del nostro monte calvo. Passammo qualche ora elencando per l’ennesima volta la lista dei nomi delle specie che avremmo voluto reperire in questa avventura. Sopra a tutti era l’apollo del Monte Ventoux, il venaissinus, che ci sbizzarrivamo a descrivere come un gigante bianco-panna che ci avrebbe stupefatti; si scherzava infatti sul probabile stato di catalessi in cui Piscopo sarebbe entrato nel vederlo in volo sulle bianche piastrelle del monte, anche se non sapevamo con precisione dove l’avremmo cercato in questi ambienti a noi sconosciuti. E si ripartì, ormai a fine pomeriggio, per giungere ad una cittadina in cui riposare per la notte. Era Bédoin, alla base sud del monte. Di qui, da questo stesso borgo, partì l’ascesa del Fabre. La serata, calda ma non umida, fu piacevolmente trascorsa in una locanda, mangiando delle “oeufs mayonnaise”, una bistecca alle erbe di Provenza, le tradizionali “frites” francesi, ed innaffiando il tutto con un bicchiere freschissimo di fruttato rosé di Provenza. Si stava bene a Bédoin. La notte trascorse tranquilla, contrariamente a quella del Fabre che ci racconta dei canti a tarda ora dell’allegra gente di Provenza eccitata dal buon vino.

 

Poco dopo il sorgere del sole si era desti e pronti a partire dopo una buona colazione a base di croissants, pane imburrato con marmellata di fragole di Provenza ed un café au lait.  Si salì rapidi lungo la strada che, dapprima, attraversa gli ultimi campi di lavanda e i vigneti bassi delle pendici del monte e poi, con pendii anche ripidissimi entra in una spettacolare foresta con roverelle, e poi cedri e infine faggi. Si pensava ai ciclisti del Tour de France che spesso sono costretti a salire controvoglia su questo monte che può uccidere nella sua parte più alta, quella calva e senza un filo di ombra che protegga il capo dai caldi e diretti raggi di sole. Si guardava intorno per cercare con l’occhio addestrato l’apollo, la cui presenza si nota facilmente grazie alle dimensioni e al volo lento. Ma i dossi a noi noti come habitat di questa specie non c’erano quassù. Ci si fermava e si cercava, ma niente da fare. Cominciavano a manifestarsi dubbi nella nostra mente: e se non avessimo trovato l’apollo desiderato?

 

 

Intorno ai 1400 metri ci si arrestò ancora, ma questa volta attratti da altro. Lungo la via stava un signore in corti calzoncini con retino assai grande e all’apparenza poco maneggevole e un cappellino di stoffa chiara e tese abbassate verso il collo come portano spesso i turisti giapponesi. Scesi dall’auto rapido e curioso di sapere che ci stesse a fare lì, al margine della foresta dove le ultime piante si fanno rade e il sole comincia a farla da padrone. In realtà, il signor Alphonse Commard da Avignone era un serio entomologo alla ricerca di farfalle e coleotteri di queste zone. Parlando un po’ di francese ed un po’ d’italiano, si fece amicizia, come si costuma di solito tra appassionati di insetti e il Commard si offrì di portarci al Belvèdere, il luogo un po’ più in basso dove, ci disse, si poteva osservare l’apollo venaissinus in quantità.  Per nostra buona sorte, il Commard sapeva il fatto suo. Per una decina di minuti si prese una sterrata che portava lungo i dossi meridionali e ben esposti del monte sino a giungere in una zona tranquilla, dove i rarefatti faggi si mescolavano a essenze mediterranee basse, a Sedum e Sempervivum, e a cespi di ginepro che spuntavano tra le pietre bianche del monte.

 

Non ci saremmo mai giunti senza il Commard. E subito vedemmo uno di questi giganteschi apolli, e poi un altro e un altro ancora: scendevano dall’alto seguendo il declivio del costone montano. Il Commard li identificava a grande distanza con una bravura a noi ignota: “apollon, apollon”, diceva alla francese puntando deciso e risoluto il dito nella direzione della farfalla bianca che scendeva calma e maestosa. E noi a rincorrerla sotto gli occhi divertiti del nuovo amico avignonese. Se ne osservarono a decine quel giorno di “apollon”, ed erano davvero grandi rispetto a quelli che noi trovavamo sulle Alpi, grandi e color crema, con le macchie rosse molto più ampie, magnifici aquiloni plananti sui dossi del mitico Monte Ventoso.

 

 

Dopo il frugale, ma non troppo, e allegro pic-nic con Commard, salimmo ancora e questa volta per raggiungere gli ultimi 300 metri che ci separavano dalla calva vetta che si staglia a 1900 metri d’altitudine. Questi sono i 300 metri che furono fatali al ciclista inglese Tommy Simpson nell’infausta tredicesima tappa del lontano Tour de France del 1967: un inferno di sole, un ambiente lunare con grandi ciottoli bianchi ovunque, e non una pianta sotto alla quale cercare un po’ di fresco. I forti venti che giungono da ogni parte hanno plasmato questa vetta spettacolare nel corso dei millenni, lasciandola nuda, senza vegetazione apparente, anche se rare e quasi invisibili piantine e fiori endemici crescono tra le bianche piastrelle, ma occorre cercarli con attenzione in questo ambiente così luminoso ed abbagliante. E qui, con Commard, si cercarono invece le erebie del Monte Ventoso, Erebia scipio, una specie rara che vive solo in questo ambiente spettacolare e unico, e in un paio di altri passi e monti alpini, dove è considerata a rischio di estinzione. E, a quasi 1900 metri di altezza, si trovò anche la rara erebia, svolazzante per brevi tratti sostenuta dalle raffiche di vento, che certo qui non mancava.

 

Vederla era un’impresa, abbagliati come eravamo dal sole e dal chiarore impressionante delle bianche piastrelle, e a causa del volo rasoterra, veloce e irregolare della farfalla che compare rapidamente e altrettanto velocemente scompare alla vista posandosi tra il pietrame. Ci divertimmo per qualche ora a osservare quel comportamento singolare di una specie adattatasi, nel corso dell’evoluzione, a questi climi e questo ambiente così strano. Si trattò infatti di una ricerca davvero singolare e del tutto inusuale in questo terreno lunare, con venti fortissimi e con un panorama mozzafiato tanto era sublime in quel tardo pomeriggio estivo. Il Commard, felice come un ragazzino per questa giornata in compagnia durante la quale ci aveva fatto da brava ed esperta guida, si congedò da noi e riprese la via per scendere verso Avignone. Noi restammo ancora lassù ad attendere il tramonto, soddisfatti per una giornata eccezionale e per le nostre farfalle del Monte Ventoso.

 

 

Fresco di studi letterari, mio fratello allora aprì la bisaccia e ne estrasse un libro del Petrarca, quello che conteneva le epistole, e tra queste si mise a leggere quella dedicata all’ascesa al Monte Ventoso. Presi come eravamo a leggere le avventure di Jean-Henry Fabre, che molto scrisse di questi luoghi, ci si era dimenticati che anche il grande poeta aretino aveva descritto la sua storica ascesa al monte. Così, ammirando l’orizzonte da ogni lato, ascoltavamo l’epistola che mio fratello ci leggeva con voce calma e tono sereno: “Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte, lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi.

 

S’era fatto quasi buio, le costellazioni estive stavano componendosi lentamente nel cielo terso del crepuscolo, e occorreva scendere per trovare un albergo per la notte. Decidemmo per Malaucène, non per caso, ma perché è da questo borgo che l’ascesa del Petrarca era iniziata nel lontano giugno del 1336, 650 anni prima di noi ma con lo stesso spirito nostro, anche se si stava su comoda auto e non a piedi come il poeta. Ora si scendeva rapidi lungo la via del versante ovest del monte. Percepii il Petrarca al nostro fianco con le sue immortali parole sull’orizzonte che si domina dal Monte Ventoso. E, come il Petrarca, anch’io “Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa”.

 


Questo racconto si è classificato primo a pari merito, sezione Racconti, Prima edizione del Concorso Letterario “Michele Lessona”, dedicato alla divulgazione naturalistica.

Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino e Regione Piemonte, Novembre 2012.

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