Oracoli, santuari e altri prodigi

17 Luglio 2013

Un libro davvero particolare (Dino Baldi, Marina Ballo Charmet, Oracoli, santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia, Humboldt Books/Quodlibet), sia per il testo che per le immagini, e naturalmente per il loro rapporto, visto che i due autori, Dino Baldi per il testo e Marina Ballo Charmet per le fotografie, hanno fatto sì il viaggio insieme, ma la fotografa non si è data pena di accompagnare il testo e si è ritagliata uno spazio a sé. Due lavori autonomi dunque, quello di Baldi e di Ballo Charmet, anche se legati da una sicura sintonia.

 

 

Per il testo richiamiamo solo questa dichiarazione d’apertura perché ha a che fare con l’immagine: "Non credo serva a niente, oggi, andare in Grecia con gli occhi del vigoroso esploratore dell’Ottocento nutrito di buone letture, o dello stanco profugo del Novecento in cerca di una via di fuga dall’orrore. Sono tutte immagini che, decantate e addomesticate, sono scese sulla rètina del viaggiatore moderno a formare un velo opaco che rende ogni cosa immobile e uguale a sé stessa, e tutta la Grecia una lezione al mondo. Preferirei invece che questa, pur con tutti i suoi limiti (e i miei limiti), fosse un’occasione per fare esperienza diretta della fine delle cose”. Certo l’“esperienza diretta” è una grande scommessa, forse impossibile, ma si capisce che cosa ci si può aspettare alla lettura: una magnifica distesa di erudizione con belle descrizioni e picchi di riflessione che richiamano all’oggi, all’ora dell’“esperienza diretta”.

 

 

Quanto alle immagini di Ballo Charmet, riprendono le rovine dei luoghi sacri, santuari soprattutto, come stabilito dal titolo del libro. La prima però ritrae piuttosto un gruppo di alberi, con la loro magnifica ombra, che stanno davanti alle rovine, rovesciando il rapporto solito. Forse ci vuole suggerire che è dai tronchi degli alberi che nasce l’idea della colonna, dal loro riparo l’idea di architettura e di luogo sacro, e dall’ombra sia il mistero dell’oracolo che il prodigio della fotografia.

 

La seconda immagine poi è una delle cinque o sei senza rovine: è la fonte, l’origine, l’acqua che si fa strada. Quindi scorrono le immagine delle rovine, perlopiù fotografate con quello sguardo dal basso o “periferico” come Ballo Charmet ci ha abituato a riconoscere come il suo marchio d’artista. Chi fotograferebbe tante pietre in questo modo così attento ai dettagli, alle disposizioni, in cui il caso conta almeno altrettanto della volontà umana di ordine? Chi fotograferebbe lo stretto di Corinto in quel modo che lo lascia intravedere solo minimamente tra gli alberi abbarbicati alla roccia?

 

Le rovine, naturalmente, significano la memoria e anche il resto, il sedimento, la stratificazione, e il rimosso anche, in senso psicanalitico. In fondo lo stesso Freud ha usato la metafora dell’archeologia e dello scavo per l’inconscio e l’analisi. Ma l’autrice aggiunge a introduzione delle sue immagini: “ho cercato una relazione empatica con la terra, il resto, con una visione preconscia, non razionale, non di controllo, cercando di fare in modo che il luogo si presenti da sé”. Non documentazione dunque, né veduta, paesaggio. Ma che cosa significa una “visione preconscia”, qui? Empatia e lasciare che le cose si presentino da sé, specifica Ballo Charmet.

 

 

Da un lato, l’abbiamo detto, è questa attenzione fluttuante resa dallo sguardo che si lascia catturare da ciò che ha intorno, se ne sente come guardato a sua volta, e lo scruta. Dall’altro ci viene da cercarlo anche a livello tematico dentro le immagini, dove l’incontro tra sguardo e figura si compie e diventa senso più compiuto, metafora di ciò che accade e di ciò che vi si vede, e del medium, anche, cioè qui della fotografia.

 

Allora ci siamo interrogati sulla presenza, nella stragrande maggioranza delle immagini in realtà assenza – ma appunto! –, umana: dove sono le persone? Certo, prima di tutto Ballo Charmet ci vuole probabilmente dire che l’incontro con l’oracolo, così come con l’immagine, avviene in solitaria, a tu per tu; che l’oracolo, e l’immagine, arrivano ammantato di questo silenzio singolare che solo i luoghi archeologici sembrano possedere e trasmettere. (“Trasmettere” si dice anche del silenzio? John Cage docet.) Poi qualche presenza umana compare. La prima, ci si scuserà l’azzardo, non di una vera presenza umana si tratta, ma, significativamente, di una statua che la raffigura. Ebbene, questa statua è senza testa, acefala, come a indicare quell’assenza di controllo razionale a cui la fotografa si è richiamata e sottoposta e ci invita a fare a nostra volta.

La seconda è nel luogo più architettonico di quelli visitati, il teatro di Epidauro, soggetto di un magnifico gruppo di foto che accentuano tale aspetto architettonico, fatto di geometria, di percorsi rettilinei che segnano la via, la direzione, quasi il defluvio. Che cosa scorre infatti lungo questi passaggi? Il silenzio, e la voce. Il teatro di Epidauro è infatti arcinoto per la sua strabiliante acustica – e del resto la figura dell’anfiteatro è quella di un padiglione auricolare, di un recipiente, di un invaso – che Ballo Charmet sottolinea non esitando a riprendere, come qualsiasi turista, una persona proprio al centro dello spazio scenico. Il tema è dunque il rapporto tra il dire e l’ascolto, le vie che esso percorre, che dal centro e dal profondo (l’inquadratura è dall’alto) si spande e si fa sentire sui bordi, sulle periferie, sui margini.

 

Le vie tracciate sono in questo senso delle soglie, delle linee di separazione e al tempo stesso di unione tra due spazi, due stati, due mondi. Così le soglie sono il soggetto delle fotografie seguenti: tra piana e monti, tra terra e mare – sottolineata dalla disposizione dei resti proprio a segnare lo sguardo – e anche tra rovine e presente, nelle immagini di Eleusi, dove appare per la prima volta sullo sfondo la città moderna.

 

Infine le due ultime immagini: la penultima è un buco e nella sua semplicità disarmante è qui la metafora di tutto quanto siamo andati elencando, purché in questo modo, non genericamente (apriamo un’altra parentesi, nel caso non lo avessimo espresso con chiarezza: ci vuole uno sguardo come quello di Ballo Charmet per scattare una foto come questa, delle foto come queste, non lo si dimentichi, non fosse che con quel tocco di asimmetria e quel primo piano sfocato che ognuno di noi avrebbe cercato di evitare): è la bocca dell’oracolo e l’orecchio del richiedente. L’ultima foto ha di nuovo una presenza umana, due turiste che percorrono una via tra le rovine, parallela al piano dell’immagine, da cui fra un attimo usciranno, per entrare...

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