Musica facile, musica difficile

2 Febbraio 2012

Siamo abituati ad affrontare con naturalezza compiti che in una fase della nostra vita si sono erti di fronte a noi come un muro apparentemente invalicabile. Nuotare, andare in bicicletta, guidare la macchina, ma anche camminare e leggere ci sono sembrate per un periodo più o meno lungo, delle sfide che siamo riusciti a superare solo grazie alla nostra pazienza e alla cocciutaggine. O anche semplicemente a causa del fatto che eravamo obbligati a superarle.
Ciononostante una volta consolidata la nuova abilità, quasi sempre questa ci è sembrata “naturale” e inevitabile, così istintiva e inserita nella nostra vita, da sembrare quasi impossibile che avessimo potuto farne a meno fino ad allora.

Anche ascoltare, mettiamo, un brano di musica classica, può sembrare a qualcuno un compito faticoso, magari anche noioso e poco gratificante.
Ma se si tratta di un brano che ci piace e che conosciamo bene, ascoltare diventa subito facile e naturale.
Sembrerebbe quindi che si possa parlare di musica facile e musica che invece è difficile da ascoltare, per non parlare della musica “impossibile” e che magari non ci sembra nemmeno giusto chiamare “musica”.

Se però cerchiamo di insegnare ad un computer ad ascoltare anche un motivetto semplice come “Tanti auguri a te”, quello che per noi è banale diventa improvvisamente un compito quasi impossibile.
Come far sì che il computer si accorga che è uno strumento a eseguire la melodia invece di un coro di voci? Come fargli capire la struttura di quattro versi? Come convincerlo a seguire il tempo della melodia ad esempio battendo le mani (o quello che le sostituisce) durante la sua esecuzione?
Il cosiddetto effetto “cocktail party” ad esempio, cioè la capacità che abbiamo di distinguere una voce e quello che dice in mezzo alla folla di voci durante una festa, è un’abilità che non è ancora stato possibile simulare in un computer con la stessa efficacia che noi mostriamo così naturalmente.
Insomma, se analizziamo quante decisioni, inconsce o meno, avvengono durante l’ascolto di un brano e quanta sensibilità e memoria occorrono nel capirne ritmi, note e timbri, anche senza essere in grado di nominarli e descriverli nel modo in cui farebbe un musicista, l’ascolto musicale ci appare come un’attività complessa che non deve essere data per scontata, ma che è frutto di un addestramento che inizia dalla nascita, se non da prima ancora.

Pensiamo poi alle culture musicali lontane dalla nostra, culture che sono sempre più contaminate dal rapporto con il Pop planetario e che sono sempre più in pericolo di estinzione. Musiche come il Gamelan indonesiano o quella legata all’Opera di Pechino sono per noi affascinanti, ma dopo poco, finito l’effetto dell’esotico, cominciano a stancarci e appaiono per quello che sono: suoni e musiche nati in un mondo lontano dal nostro e che risultano per noi incomprensibili senza un approfondimento e una intensa frequentazione.
Eppure per chi è nato in queste culture e ha ascoltato, ad esempio il Gamelan di Java fin dalla nascita, ascoltare queste musiche può apparire naturale come respirare l’aria, mentre è la nostra musica che appare incomprensibile ed esotica, come ho potuto sperimentare di persona quando con l’Ensemble Sincronie sono andato a suonare in Indonesia. A Bali addirittura, la gente non era nemmeno abituata a stare in silenzio durante un concerto così che siamo stati obbligati a suonare per tutto il tempo tra manifestazioni di entusiasmo da concerto rock, canti di galli e schiamazzi vari.

Dunque l’abitudine ha un ruolo fondamentale nel determinare cosa sarà per noi facile o difficile da ascoltare. Non c’è quindi da stupirsi se la musica che ci sembra più “naturale” è quella che, volenti o nolenti, ascoltiamo quando siamo in giro per la città, quando guardiamo la televisione, quando siamo in un bar. Alla fine andremo a cercare quella, perché a quella siamo stati, volenti o nolenti, abituati.
Ciò però non significa che non abbia alcun senso distinguere tra una musica difficile e una facile da ascoltare; solo, che la distinzione va realizzata in riferimento a un preciso contesto culturale così che una musica sarà tanto più difficile da ascoltare quanto più è lontana dalle musiche a cui siamo abituati.

Tutto ciò significa anche che siamo noi gli artefici nella nostra sensibilità musicale. È vero che la musica che ci circonda è un dispositivo, come direbbe Foucault, che un gioco di potere utilizza per forgiarci a proprio uso e consumo. Ma è anche vero che noi possiamo scegliere cosa ascoltare e come ascoltare. E che possiamo ribaltare le strategie di cui siamo vittime apparentemente felici in modo da usare la musica per uscire dal mondo di ovatta in cui siamo costretti e incontrare con curiosità un altro mondo, tutto da scoprire.

Alcune delle mie considerazioni partono dagli esperimenti descritti da David Huron in “Sweet Anticipation. Music and the Psychology of Expectation”, MIT Press, un libro, specialistico ma non troppo e godibile anche da non musicisti, che purtroppo non è ancora stato tradotto in italiano. Il testo, che consiglio a chiunque voglia approfondire il tema dell’abitudine all’ascolto, si occupa di analizzare il rapporto tra ascolto e prevedibilità proponendo una visione della musica e dell’ascolto inedita e provocatoria. Illuminante, per certi versi. Ma anche per chi non ha tempo e voglia di leggere il libro, prometto che ne svilupperò prossimamente alcuni temi che mi sembrano particolarmente interessanti e utili per smascherare i nostri amati automatismi e trasformare l’ascolto in un’avventura.

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